Carmelo Marabello - Sulle tracce del vero.pdf - PDFCOFFEE.COM (2024)

Come è stato rappresentato l’Altro nei classici dell’antropologia e dell’etnografia? Quali immagini hanno costruito la nostra idea di alterità, di selvaggio, di umanità nei libri, nelle foto e nei film di Franz Boas, Claude Lévi-Strauss, Gregory Bateson, Margaret Mead? A partire dai materiali esotici filmati da William Heise, James White e Edwin Porter per la Edison, sul finire dell’Ottocento, ai film di Edward S. Curtis, Robert Flaherty, Ernest Schoedsack e Merion C. Cooper, dai film di Paul Fejos nei suoi anni post-hollywoodiani ai materiali girati da LéviStrauss con la moglie Dina Dreyfus, in Brasile e dalla coppia Bateson-Mead a Bali, sino alla trama post-neorealista di Jean Rouch e al lavoro in India di Rossellini, il volume disegna una genealogia delle immagini irrisolte dell’alterità, sulle tracce del vero di cui la macchina da presa si fa autore e archivio. Nel segno dell’ambiguità e della necessità delle rappresentazioni, del conflitto tra set e analisi di terreno, al crocevia tra disciplina dello sguardo etnologico e strategie formali, si configura così una mappa di luoghi e fieldwork, tattiche di ricerca e traiettorie esotiche di entertainment, di memorie coloniali e post-coloniali. Il cinema, la fotografia e l’antropologia si situano qui tra grammatiche dello spettacolo e progetti di conoscenza, tra flagranza del filmato e pratica di documentazione e testimonianza, salvage antropologico e messa in scena filmica di un mondo primitivo e, talvolta, a-storico. O almeno de-storicizzato. E tuttavia al cospetto delle forme e nei generi che i film e il cinema producono nel Novecento. Nelle storie di foto che, come etnostorie, restituiscono le immagini occidentali dell’alterità.

Carmelo Marabello è ricercatore presso la Facoltà di Scienza della formazione dell’Università di Messina, dove insegna Storia e Teoria del cinema e Filosofia e teoria dei media, e docente di Antropologia Culturale e Storia tecnica degli audiovisivi presso la facoltà di Design e Arti dell’Università di Bolzano. Dottore di ricerca in Antropologia, negli anni Novanta è stato curatore e autore di Fuori Orario per Rai 3 e programming director del Festival del cinema di Taormina. Fa parte della redazione di “Fata Morgana”. Nel 2004 ha realizzato, come autore e regista per il Ministero dei Beni culturali e Italia Cinema, Dietro il Paesaggio. I sopralluoghi italiani di Antonioni, Rossellini, Visconti, un film di montaggio sul paesaggio del dopoguerra.

Studi Bompiani Spettacolo e comunicazione a cura di Francesco Casetti

Carmelo Marabello SULLE TRACCE DEL VERO

Cinema, antropologia, storie di foto

Bompiani

© 2011 Bompiani / RCS Libri S.p.A. Via Angelo Rizzoli, 8 – Milano ISBN 978-88-58-70606-0

Prima edizione digitale 2011 da edizione Studi Bompiani novembre 2011

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Ebbi una rivelazione mentre ero degente in un ospedale di New York. Mi chiedevo dove avessi visto delle signorine che camminavano come le infermiere. Avevo tutto il tempo per pensarci. Mi ricordai infine che le avevo viste al cinema. Ritornato in Francia notai la frequenza di queste andature. Le ragazze erano francesi e camminavano allo stesso modo. In effetti, grazie al cinema, il modo di camminare americano cominciava ad arrivare tra noi. M. Mauss Il mondo non è un teatro. Il punto è che difficile spiegarlo. E. Goffmann Non si tratta di una fenomenologia della percezione ma di una fenomenologia della quasi osservazione – si osservano non gli eventi ma il punto di vista, la grana delle immagini. Qui subentra l’interpretazione o la lettura, si confronta il dato con testi scritti, altre fonti visive, si monta, letteralmente si dà una sorta di montaggio. G. Didi-Huberman

1 INTRODUZIONE In filosofia non ci sono metodi ma, per così dire, differenti terapie. L. Wittgenstein There are ways to meet the Other on the same ground, in the same time. J. Fabian

1.1. Being unperspicuous Nell’edizione del 1929 di Notes and Queries on Anthropology, il manuale disciplinare dell’antropologia di tradizione anglosassone, le voci “fotografia” e “cinema”, redatte da Alfred Haddon, elencano una serie di suggerimenti tecnici e scientifici per poter affrontare, alla luce delle possibilità offerte da cineprese e fotocamere, il lavoro sul field. Una lista di consigli, di osservazioni puntuali sui materiali e le ottiche, di prescrizioni sull’uso di pellicola e di lenti, sulle tecniche di ripresa, sulla fotografia parametrica di tipi e soggetti, sulla necessità di totali e piani sequenza nel film, delle attività e delle tecniche. Linee guida riferiscono e suggeriscono l’uso appropriato di apparati, definiscono le forme di ripresa, le condizioni di linguaggio, il perimetro tecnico e concettuale dell’uso di questi strumenti. Nel nome del record il terreno dell’etnografia può contare, ormai, su mezzi potenti di registrazione. Nel 1922, Bronislasw Malinowski ha pubblicato Argonauti del Pacifico, testo capitale della storia dell’antropologia. In questo testo si presentano non soltanto gli esiti di un lavoro etnologico, ma, soprattutto, la definizione di una nuova metodologia di ricerca il cui cuore è l’osservazione partecipante, la presenza lunga e continuativa dell’etnografo nel villaggio, la frequentazione dei nativi, l’apprendimento della lingua come condizione essenziale del lavoro di raccolta di dati e materiali, di social data invece che di utensili e oggetti rituali. Tutto questo nel segno di una riflessione teorica sul linguaggio come oggetto sociale, spazio di comunione fàtica, riflessione che maturerà negli anni seguenti nelle forme di una pragmatica del significato, nella definizione del linguaggio come modo e forma dell’agire, attualità situata.1 La monografia di Malinowski, nella sua versione originale, si produce come testualizzazione scientifica di un’esperienza di terreno, nutrendosi di pratiche d’iscrizione2 – liste, tavole, carte – e di evidenze fotografiche che intercalano il testo, offrendo forma spaziale e visiva alla memoria del contesto, alla situazione discorsiva del lavoro di campo, restituendone in forma esemplare, e sussidiaria, la condizione, nella materia di una

sineddoche di luoghi, di una vista locale esitata, dalle foto, come traccia del vero, spazio reale di eventi, ambiente. Tuttavia, nel testo di Haddon, redatto sette anni dopo la pubblicazione di Argonauti del Pacifico, nel paragrafo che definisce il comportamento dell’etnografo sul terreno, spicca l’aggettivo unperspicuous, riferito alle pratiche fotografiche. L’etnografo, fotografo e cineasta, attivo nel segno del record, deve mostrarsi come inappariscente sul terreno della relazione con i nativi, pur nella mediazione degli strumenti. Rendersi inappariscente, e, tuttavia, dover negoziare tempo e terreno di ripresa, esser lì come se non si fosse lì: timore di un’eccessiva perturbazione data dalla tecnologia, coscienza o illusione delle tecniche di ripresa come supplenza scientifica nella registrazione dei dati, a fronte dell’uso già conclamato dell’incanto tecnologico, dell’emulsione fotografica utile a sedurre e guadagnare informatori e consensi. Rendersi inappariscenti, mentre i treppiedi e i fonografi, come totem di altri lignaggi e saperi, attrezzano, visibili, lo spazio antistante scene di riti e di attività sollecitate, nella logica dello studio e del salvage, nel segno e nel codice del re-enactment scientifico. Dramma del profilmico in atto. Dramma della flagranza dei gesti, dell’azione ancora muta, dell’attrazione nella sfera plastica e fotogenica di corpi ieratici nell’atto di enunciare la parola rituale, o di accompagnare coi gesti la dimensione comunicativa o fàtica delle espressioni, la via delle parole, come pensano i Dogon.3 Dramma della produzione e registrazione di dati. Dramma, soprattutto, dell’ingombro di mezzi tecnici, della evidente e necessaria negoziazione delle intenzioni prima degli scatti come delle riprese, diversamente eludibile, e tracciabile, nella tecnologia della scrittura e dei taccuini. Come se la tenda dell’etnografo fosse poi così poco ingombrante, come ha dimostrato James Clifford.4 Nel 1929, comunque, già molti film, di carattere etnologico, o addirittura etnografico, tramavano immaginari pubblici e accademici, film che si prestavano alla lettura e all’interpretazione, pratiche che generavano mondi di glosse sociali e scientifiche, dal consenso spettacolare di Nanook of the North e Grass alle riflessioni seminali su cinema ed etnologia di Régnault5 e Hilton-Simpson,6 dalle scelte di produzione di film a destinazione museale nel Canada di fine anni venti, alle traiettorie di ricerca di Franz Boas, al suo uso del film – dopo una lunga consuetudine con la fotografia – come strumento di analisi nei primi anni trenta, nell’ultimo lavoro di terreno tra i Kwakiutl. Nel concerto di antropologia e spettacolo, di musei e film, di forme di restituzione del primitivo, il cinema e la fotografia si esplicitavano come nuovi media, tracciando ed embricando le linee di una scienza del pittoresco, mentre l’immaginario industriale produceva le traiettorie del primitivo come spettacolo dell’origine, nella chiave dell’arcaico come dell’esotico, alla ricerca di cronotopi spettacolari – isole del sud del Pacifico, bordi delle ultime esplorazioni – o di politiche dell’immaginario della storia, come nel progetto originario di Qué viva México. E i manuali erano applicati, e rigettati, nel mondo delle pratiche, sulle tracce del vero. Consapevolmente elusi. Messi in scena, nell’inevitabile, asimmetrica coevità, di osservatori e osservati, tra camuffamenti, mimetismi, commedie e tragedie dell’indessicalità.

1.2. Questioni di metodi 1. La domanda da cui muove il lavoro di questa ricerca è una domanda sullo statuto delle immagini dell’alterità, sulla storia della rappresentazione dell’altro e sul costituirsi, attraverso

l’uso del cinema, di un’immagine del mondo. La cronologia di questa ricerca muove dagli ultimi anni dell’Ottocento, per sfiorare i sessanta del secolo appena trascorso. I materiali di questa ricerca sono, per lo più, immagini in movimento, talvolta immagini statiche. Esiti fotografici. Materiali dell’immaginario e della conoscenza, la cui destinazione è stata, a volte, il cinema, a volte i musei, occasioni di convegni scientifici, pratiche di ricerca o di restituzione accademica. O, talvolta, il silenzio di un archivio, una relativa invisibilità, una difficile accessibilità. Questi materiali, seppure diversi, e diversamente problematici, si restituiscono come immagini di natura antropologica, o, piuttosto, mostrano tensioni e posture di carattere etnologico. Il field di questa ricerca si disegna di archivi cinematografici, archivi fotografici: stanze di immagini e istanze da queste prodotte. La memoria di quest’archivio genealogico sono dei taccuini, tracce di accessi negati e ottenuti, segno di difficoltà simili a quella di un field, incertezze di metodo diverse, altre forme di invisibilità. La negoziazione avviene con istituzioni, collezionisti, musei. Lo stato precario e fragile di queste immagini produce un’istanza di salvage tale da occultarli allo spazio pubblico della visione, come all’accesso guidato e selezionato. In nome delle ragioni di conservazione e studio ci sono immagini che scompaiono, in attesa di tempi migliori. C’è poi un mercato delle immagini, prodotto dagli archivi, nella forma dei servizi, degli accessi negoziati dalla capacità di spesa del singolo o dell’istituzione, dalla necessità di produrre il materiale su nuovi e più costosi supporti, dalla necessità e opportunità di costosi restauri. E attraverso questo il recupero di testi, talvolta l’invenzione di testi, rieditati alla luce di un buon senso etnologico politicamente corretto, teso a minimizzare i contesti di origine, le condizioni di produzione, le trame spettacolari, commerciali, coloniali, spesso sottostanti. O a sviluppare, invece, una pratica di restauro partagé, sollecitando sopravvissuti, discendenti, nativi, all’interpretazione autentica del materiale, alla lettura di indici.7 2. La forma di questo testo nasce come risposta a queste constraints ineludibili, a queste geografie di campo della memoria e dell’immaginario di due discipline, il cinema e l’antropologia, nell’analisi incrociata di materiali relativi al cinema etnografico, esempi di analisi filmica del movimento e della cultura, esempi etnicizzanti di cinema delle origini, per un verso leggibili nella traiettoria del cinema delle attrazioni, per altro verso estranei, o più semplicemente prodotto di altre cronologie e forme di consumo – il consumo museale e di educational ad esempio. Materiali di registrazione filmica di quadri etnici, foto di terreno, foto posate di terreno e ritoccate per usi scientifici e commerciali, film girati in studio, on location, restituzioni di field, oggetti complessi dove trame di set e terreno si sovrappongono, tra scienza e spettacolo, nelle misure del pittoresco, dell’espressivo, dell’esotico. In un quadro dove film hollywoodiani degli anni venti e trenta convivono con etnofiction e documentari tradizionali. Assumendo il cinema come strumento di indagine o risoluzione spettacolare dell’altro. Che poi vuol dire del mondo, sia in forma analitica, sia discorsiva e narrativa. 3. Dar credito alle immagini ha significato porsi il compito e il fine di una visione diretta di queste, l’elaborazione di una fiche di domande diversa per ciascun oggetto, film o foto che fosse, nel segno di una ricerca genealogica sulle intenzioni di verità di questi approcci ed esiti. Ha significato disporsi alla paradossale ma usuale coevalness antropologica, nel senso di Johannes Fabian,8 nell’entrare in contatto con esse, nell’iscriverle in una genealogia:

nell’obbligo di dover far storia muovendo dal presente, dalla propria etno-grafia, dalla storicità di questo tentativo. Dalla leggibilità di certe immagini, dallo stato di certe immagini che vengono a leggibilità in un tempo dato, come scriveva Walter Benjamin,9 come ha scritto, più di recente, Georges Didi-Huberman.10 Ritornare quindi a fotogrammi delle origini, a immagini di riti, registrazioni di semplici attività, immagini rituali e rituali re-enacted del lavoro e del primitivo, porsi dinanzi a una grammatica visiva dell’altro come speranza occidentale di uno specchio, di una pre-istoria dove rispecchiarsi. O dove cogliere, visivamente, l’origine, nella visione mimetica dell’altro come premessa dell’universale: come Darwin alla Terra del Fuego. Questo il progetto. Così com’era utile ritornare a film di grande impatto spettacolare, capisaldi e icone della storia del cinema, oggetti di ricezione ampia, che segnano l’immaginario di molte epoche e tempi del cinema, come le genealogie di studi e le ricostruzioni critiche della storia dell’alterità, decidendo di tracciarne il senso e la posizione. Rivendendoli come matrici di questioni ancor aperte, iscrivendoli nel palinsesto delle immagini storiche, pensando ai film come palinsesti del nostro immaginare. Ecco allora l’analisi di Nanook of the North di Flaherty e di Grass di Schoedsack e Cooper. E nel dar credito alle immagini, considerandole il testo da cui muovere un sistema di domande, da cui esercitare una griglia d’ipotesi, era opportuno dar credito alle diverse forme di testualità che le accompagnano. Testi, diari, indici autorevoli e secondari di informazione, interviste, colloqui, dichiarazioni dirette e indirette, interventi, nella costituzione, dove possibile, di un primo albero di interpretazione a partire dagli autori stessi, dalle autor-izzazioni di ciascuno, nel lessico di Clifford Geertz.11 E di queste fare un uso diverso di ordine e grado, usare le autor-izzazioni come griglia di interrogazioni, chiamarle in causa come prova e testimonianza, ricostruendo un ordine documentale e congetturale. Porsi nella posizione di una radical historicity, come ne ha scritto Phil Rosen,12 sulle tracce di Michel Foucault,13 interrogando le riflessioni di storici e teorici di antropologia e cinema. Usare le immagini per disvelare un occultamento, ad esempio producendo il rendering di alcuni relitti di immagini storicamente cruciali e interrogarsi sulla volontà di sottrazione delle stesse da parte dell’autore, come nel caso dei film di Claude e Dina Lévi-Strauss. Proporre un paradigma indiziario, nel senso immaginato da Carlo Ginzburg. Per ritornare, comunque, all’archivio, assumendolo come pegno del futuro, come dispositivo, tutt’altro che innocente, di mondi possibili. Nella misura di una coscienza storica che assume la pluralità delle storie possibili, dove la verità storiografica si dispone nella cifra di una rete di relazioni, di una costellazione di dati e di senso, come proponeva nell’incipit della Storia del cinema italiano Gian Piero Brunetta.14 Nell’avvertenza, poi, che non c’è storia senza teoria, e che ogni storia è, anche, storia delle teorie. Da cui il bisogno di storia, da cui la pervasività della teoria, come scriveva Francesco Casetti alla conclusione di Teorie del cinema: 1945-1990.15 4. Se le immagini filmiche e fotografiche sono la resa visiva di un contatto, la forma di una pratica del contatto, le immagini vanno chiamate in causa, né assolte, né risolte, ma interrogate. Appostate come traccia e contingenza temporale, riesumate come fossili, forme di intenzionalità, da rileggere insieme a trattati, protocolli, manuali disciplinari, alle interpretazioni che le hanno, di fatto, prodotte: esitate come tracce del vero. Immagini spesso irrisolte, le immagini dell’altro raccontano la formazione di uno sguardo storico, l’emergenza di questo tra shock disciplinari, strategie di comodato d’uso sulle immagini stesse, vissute e

viste nel regime della ragione grafica, ancelle del visibile ammesse alla lezione di scrittura dove scienze sociali e storiche tradizionalmente radicano la trasmissibilità e l’autorevolezza del sapere. Sulle tracce del vero le immagini antropologiche si insediano tra pratiche di stereotipi, sistemi di giudizio nella grammatica visiva della restituzione, nella risoluzione spettacolare di questa come tattica di separazione tra immagini e conoscenza, tra scienza delle immagini e spettacolo della scienza.16 Stadio di supplenza alla verità del linguaggio della scrittura, alle sue forme di descrizione e interpretazione del mondo. Strategia intensa dell’accademia, consueta all’uso e al riuso delle immagini, alla performance di queste in nome del vero, eludendo le tracce, sublimando e rilocando indici e icone come finzioni necessarie. Ecco allora il ritocco fotografico praticato come forma del presente etnografico, visto e vissuto come interpretazione della traccia.17 Così l’altro di cui si scrive, le immagini dell’altro di cui si scrive, sono il prodotto di immagini storiche di soggetti etnicizzati e rivissuti come oggetti, tra studio e spettacolo, tra salvage e narrazione, tra strategie del senso e strategie del consenso, nel carrefour di scienza e spettacolo, pittoresco e cognitivo, coloniale e postcoloniale. Tuttavia l’altro di questa ipotesi è comunque vivo. Vivo di una vita paradossale, nella memoria chimica dei supporti, nella nuova memoria magnetica o digitale attualizzata dalle interpretazioni e dal consumo. In queste etnografie per immagini, una pratica originale di segni si dispone e compone: questa pratica visiva dispone, sulla scena, dell’altro come scena: tra etnotopie ed eterotopie, il field si fa set e viceversa. All’insegna dello spettacolo, nel segno della scienza, nel segno della scienza stessa come spettacolo, come nei diorami di Boas, sul finire dell’Ottocento; o nel set balinese di un geniale ma paradossale romance di foto antropologiche, l’atlante per immagini di un ethos e di un’intera cultura prodotto da Bateson e Mead, nel progetto di una psicologia della cultura i cui strumenti di analisi erano la fotografia e il cinema scientifico-analitico. E il cui esito, come vedremo, saranno diverse negoziazioni spettacolari in nome della potenza della fotogenia. Se, infatti, l’esotismo suggerisce immediatamente la storia di uno sguardo etnicizzato, le immagini scientifiche dell’altro sono diversamente suscettibili di domande, si eleggono intrinsecamente in un diverso e più rigoroso ordine di risposte, immagini paradossalmente idiosincratiche. Ma l’ambiguità, la polisemia irriducibile di un’immagine, abita tanto in una cronofotografia di Régnault, quanto in una etnofiction di Jean Rouch. Anzi, nella prima, il récit della scienza si spaccia per legge attraverso le immagini, nel segno del record come principio di verità automatica della cinepresa. 5. E tuttavia siamo ancora dinanzi alle immagini, e con le immagini giochiamo o siamo giocati, nella storia complessa dell’intero Occidente, che dal secondo concilio di Nicea ci conduce all’oggi in cui siamo. Nel corpo di una longue durée fitta di discontinuità tecnologiche e di storie di ricezione, nella produzione e proiezione dei fuochi (fatui) della distanza, fuochi che riportano insieme alle ottiche e alla storia. Agli apparati fotografici e filmici, ai dispositivi, come pure alle ideologie e alle intenzioni, ai progetti di restituzione e interpretazione, alla potenza di mezzi di registrazione che si fanno medium, istituzioni spettacolari, attivando trame di intrattenimento, ma anche di conoscenza. Una storia lunga di sopravvivenze ed emergenze, quella storia che induceva Aby Warburg a cercare tra gli Hopi, nelle loro danze rituali, il pathosformel da cui pensare, dall’antico, il proprio tempo, con cui rigiocare il tempo storico nelle sue diverse contingenze e con-presenze. O che tentava

Ejzenštein, sulle tracce del primitivo e dell’arcaico, tra Lévy-Bruhl, i Bororo, il Messico delle vasiladas, nei saggi e nei film mancati, lì nel cuore degli anni trenta, quando Fejos, Bateson, Schoedsack e Cooper, Lévi-Strauss, disegnavano carte dell’immaginario da posizioni e linguaggi diversi. La nostra storia è una storia etnicizzata, complicata dalla relazione ambigua tra tecnica e ideologia, tra grammatica necessitata e disposizione grammaticale della tecnica di rappresentazione. Il come vediamo, tecnicamente, risponde, com’è ovvio, alla storia delle leggi dell’ottica. Tuttavia, declina e coniuga l’ideologia stessa della rappresentazione come motore della produzione di strumenti per la rappresentazione, come motore dell’inconscio ottico benjaminiano, del programma, nell’accezione di Flusser,18 di un inconscio tecnologico che muove da Bateson a Franco Vaccari,19 con scopi e ragioni storicamente diverse, ovviamente. 6. Le immagini irrisolte sono le immagini di una pratica visiva qui esaminata nella forma di un’etnostoria, etnostoria di pratiche, di teorie, di oggetti pensati per la fruizione pubblica, di materiali prodotti per la comunità scientifica. Queste immagini sono film e fotografie, non sono disegni, né pittogrammi, né dipinture facciali, né immagini mentali e verbali. Ci sono film e foto di pittogrammi o di dipinture facciali. E immagini verbali, nelle descrizioni e nei testi di autori e storici, scholar e testimoni. Nella storia dell’antropologia sono molte le etnografie visivamente magnifiche, splendidamente descrittive; come pure vi sono informatori il cui immaginario visivo, restituito in forma scritta, pur nel tradimento inevitabile di una traduzione, immaginano, letteralmente, nelle loro parole il mondo, come alcuni Songhay nella monografia di Rouch. Ci sono mondi, come il mondo dei morti dei Bororo, descritti nei bollettini salesiani di inizio secolo dove le immagini traboccano di bellezza e di senso, ma queste immagini appartengono a un dominio diverso. Ereditano, in un certo senso, la pluridiscorsività introdotta dal romanzo, “il discorso altrui in lingua altrui” di cui scriveva Bachtin, la parola bivoca di cui descrizione e racconto antropologico si alimentano, dove le immagini si fanno contesto, evocazione situata, o tecnica di localizzazione di eventi.20 Qui si scrive di immagini producibili attraverso mezzi, e riproducibili attraverso altri mezzi. L’affascinante isocronia di Flaherty e Malinowski, e delle rispettive opere, è come l’elemento di un probabile Zeitgeist. Tuttavia congetturare sulla scrittura visiva di Malinowski e sulla pittoricità di Nanook come esempi dell’emergenza del visivo tra cinema e antropologia è certamente paradossale. Kafka e Einstein lavoravano a Praga a poche centinaia di metri di distanza: entrambi, in atto, vedevano e descrivevano altrimenti il mondo. La loro incommensurabilità rende l’isocronia più ricca, esplicita due diversi processi e progetti di senso. 7. La mia etno-grafia si produce certamente in questa ricostruzione. Un’etnostoria dell’Occidente nelle forme del cinema e della sua relazione con l’antropologia è un progetto di lunga durata, un progetto intrapreso da molti studiosi, come Shohat e Stam21 ad esempio, nel dominio dei film studies, o come Henley22 e MacDougall,23 alla luce dell’antropologia visiva. Altrettanto complesso è il percorso inverso, la ricostruzione, attraverso la storia dell’antropologia, di un’immagine dell’alterità che l’immaginario popolare amplifica e rimedia nella forma del cinema. Si tratta comunque di indagare sulle forme storiche della restituzione dell’alterità, sulle forme delle finzione, anche delle finzioni antropologiche, nel

senso di Kilani,24 così come delle più triviali finzioni spettacolari, nelle pratiche visive di consumo: attraversare lo spettacolo e decostruirne il regime di credenza, l’immenso mercato degli sguardi ridotti ad occhi. Si tratta di leggere l’emergenza di un pensiero postcoloniale nei film studies, di leggere ad esempio Grass nella sua ricezione iraniana, come vi accenna Naficy.25 O di leggere, con gli occhi della letteratura algerina, le immagini de l’Aurès filmate da Hilton-Simpson e Haeseler nel 1925 in An Unknown Race. E, di converso, rivedere, storicamente insieme, entrambi i film come restituzioni diverse della nozione di unknown race. Così come leggiamo oggi i Dogon come l’esito di Griaule, della sua scuola, e di Rouch, nell’obbligo e nell’opportunità di ripensarli non solo attraverso i commenti e le osservazioni dell’antropologia occidentale, ma anche nella possibilità e necessità postcoloniale di rileggere queste letture attraverso il formarsi di una riflessione antropologica locale, africana.26 8. Davanti alle immagini, a queste immagini storiche dell’altro, si produce insomma la scena di una rappresentazione, forse di un’allegoria: questo teatro della memoria vede comparire in ordine di apparizione, gli sconosciuti ma non ignoti operatori della Edison, Felix Régnault, i fratelli Lumière, Alfred C. Haddon, Franz Boas, Edward Curtis, Robert Flaherty, Marius Barbeau, Harlan Smith, Ernest Schoedsack, Paul Fejos, Gregory Bateson, Margaret Mead, Claude Lévi-Strauss, Dina Dreyfus Lévi-Strauss, Roberto Rossellini, Jean Rouch. Non è un teatro di ombre, ma un mondo di immagini filmate, diversamente vive. L’elezione di questi mondi non è rituale. Tutti, in diverso modo, nell’ordine del record, della scienza o dello spettacolo, pensavano davvero che il cinema potesse descrivere il mondo, analizzarlo o riviverlo. Del resto, The World Viewed,27 come L’occhio del Novecento,28 non sono soltanto testi essenziali della riflessione teorica sul cinema, ma anche, già dai titoli, l’economia di un’interpretazione, il buon senso di ciò che è stato il Novecento. Di cui è faticoso e difficile rendersi conto. Disponendosi, così, a questa resa dei conti con le immagini in movimento e col cinema come logos popolare del secolo scorso. Ma anche, come e diversamente dall’arte visiva, analizzando la frattura di questo logos, il campo di tensione di una radicale antropologia delle immagini, di cui il cinema e i film si fanno istituzione e mnemotecnica, disciplina e dissoluzione, pubblicità del ricordo e iconizzazione di eventi, macchine di chimere culturali. Bateson e Mead credevano davvero di potere pensare il mondo dell’alterità nella forma dell’analisi filmica del movimento, alla ricerca di un metalinguaggio delle culture, come poi, con diversa fortuna, avrebbe tentato la semiotica tipologica della scuola di Tartu. Così come Rouch e Rossellini pensavano di poter scoprire l’alterità nello splendore del vero, attestandosi sulla soglia filmica in forme del tutto diverse, tra pathos rosselliniano cattolico e romano e cinetranse africana. Così come Lévi-Strauss, al contrario, non potrà non produrre un movimento di allontanamento dalle immagini da lui prodotte: distaccarsi, disfarsi, in un certo senso, di esse, perché le tracce del vero possano infine risiedere nelle strutture, e perché il cinema, come macchina di immagini, rischia di occupare davvero lo spazio rituale e soddisfare, nel rito, l’assenza del mito, la sua possibile risoluzione, allontanandoci dalla verità non tanto nella seduzione dello spettacolo quanto nella promessa serpentina di una conoscenza per immagini, nel diabolico dell’immagine intellettuale. Del cinema intellettuale. Del progetto ejzenšteiniano di un cinema come forma di antropologia per immagini del presente così come della storia, nutrito, non a caso, di una teoria del primitivo e dell’arcaico.

Il mondo visto, the world viewed, come set e come field, mette in scena, sin dalle sue origini filmate, le forme dell’intenzionalità, la produzione di alterità, vera o presunta, la presa d’atto filmica di allocronie e altri mondi, dal finire dell’Ottocento fino a metà del secolo scorso. Il dramma antropologico del terreno, nelle forme del cinema, diventa la drammaturgia dell’indessicale, la traccia del vero come trama e trauma della realtà, nella frizione formidabile del profilmico, nella irresolutezza di questo dinanzi alla distanza culturale dell’altro nelle sue manifestazioni, schiacciato tra picturesque e oggettivazione, realtà negoziata e re-enactment metodologico del vero… Dazed and confused dinanzi all’impossibile elusione del discorso come della narrazione, della discorsività come cornice sociale e drammaturgica della restituzione, della rappresentazione come del racconto. Degli ordini di finzione, impliciti ed espliciti cui l’attività sociale umana soggiace. Che gioca i suoi giochi di linguaggio nelle forme di vita in cui abita e si produce. Giochi linguistici da cui le immagini non sfuggono, sia allo stato della produzione, e, soprattutto, nel tempo e nei modi della ricezione. Termini che nel caso delle immagini antropologiche si amplificano, rovesciando la mitologia culturale del primitivo come terreno di immagini semplici, spazio di cui le immagini fotografiche e filmiche sono ordine di verità in quanto registrazione. Tracce del vero che sono qui appunto impronte e iscrizioni filmiche, corpi e luoghi che come indici riemergono da contesti neutralizzati da ricostruire e intendere, da progetti di risoluzione della realtà come invenzione del campo – Lévi-Strauss che fotografa i Nambikwara eliminando dal quadro i pali telegrafici, per produrre l’allocronia dell’uomo allo stato di natura; o da progetti di restituzione che nella transe, o nell’inconscio meccanico, radicano il fondamento di un azione di ripresa filmica, congiunzione paradossale di Rouch e Bateson, alla ricerca della verità possibile del gesto filmico. Thick inscription che si formano accanto alle thick and thin description dell’etnografia classica descritte acutamente e problematicamente da Geertz,29 criticate dalla tensione postmoderna degli studi di Clifford,30 Marcus,31 Rabinow,32 Rosaldo,33 ma anche da Herzfeld e Bloch, su altri versanti. Thick inscription che portano alla luce, con evidente anticipo, lo spazio sdrucciolo della registrazione, la storia periclitante dell’osservazione partecipante, che rassegnano l’evidenza del come, trama di sovraimpressione al field. Che, nel segno della macchina, mettono in scena il dispositivo di negoziazione tra nativi e antropologi, tra osservatori e osservati, tra noi che filmiamo e chi è filmato. E poi esitato, spettacolo o scienza, nella chiave del montaggio, nei modi e nelle forme di rilocazione accademica e commerciale, nelle procedure di iscrizione alla glosse dei media o delle riviste universitarie. Autorizzato da un soggetto che ne fa usi diversi, articoli di costume, o raffinate interpretazioni, come accadeva nell’antropologia francese dagli anni trenta ai cinquanta. Logos popolare della scienza dell’altro. Memoria testuale che nella forma filmica emergeva come tensione, traccia pluridiscorsiva di corpi e lingue altrui rifratte nelle immagini movimento. Di spazi e tempi irriducibili nella misura delle convenzioni e durate occidentali, delle abitudini e cogenze profilmiche, delle grammatiche come delle strategie narrative occidentali. Ringraziamenti Nel corso di questa ricerca diversi sono stati gli incontri, diverse le conversazioni che hanno formato la traccia di alcune premesse, il percorso di molte domande. Questi incontri si sono

prodotti in forma di relazioni occasionali, di progetti più duraturi, di messe a fuoco mosse dalla distanza di tragitti e punti di vista precedenti. Il teatro della memoria di questi nomi propri di persona, non si forma, né si legge, in forma di una lista. Il grazie va indirizzato a quanti con me hanno condiviso interessi e passioni in forma generosa e acuta, presso il Cer.co dell’Università di Bergamo, in particolare negli anni di ricerca e insegnamento presso la Scuola dottorale, nel Dipartimento di spettacolo dell’Università Cattolica di Milano, presso lo IULM di Milano, nel CLEAC dell’Università Bocconi, presso la Facoltà di design e arti dell’Università di Bolzano e, infine, nella Facoltà di scienza della formazione dell’Università di Messina, dove oggi insegno. Questo lavoro di ricerca è stato reso possibile dalla disponibilità di istituzioni e archivi che qui ringrazio: l’archivio di Fuoriorario, il British Film Institute, la Mediathèque del Musée du quai Branly, la Cinémathèque Française, il Danish Film Institut, lo Svenke Filme Institute, il Moma di New York, la Motion Picture Section della Library of Congress, il dipartimento Microfilm, il fondo speciale Mead della stessa biblioteca, la Oral History Section della Columbia University, il Natural History Museum di New York, il Burke Museum di Washington, la Cineteca di Gemona, collezionisti privati. Allison Yablonko mi ha introdotto alla tradizione della chorometrics post-Mead e al lavoro di Bateson, Silvia Paggi ha fatto altrettanto con alcune tracce e pratiche di Rouch. Devo a Marco Melani, Enrico Ghezzi, Jean Douchet e Luciano Emmer diverse conversazioni e suggestioni su Paul Fejos. A Gianni Canova, Roberto De Gaetano, Ruggero Eugeni, Federica Villa e Augusto Sainati diversi suggerimenti e incoraggiamenti. A Enrico Giannetto, Matilde Callari Galli, Emanuela De Cecco, Sergio Manghi, Marino Niola, la lettura di una prima stesura di questo testo. A Barbara Fiore Donati alcune suggestioni di metodo e pazienza di ascolto. A Silvia Pacciarini la pazienza in forma di attenzioni. A Mario Perazzi l’amicizia di un primo editing. A Gabriele Micciché e Nadine Bortolotti suggerimenti e sostegno. A Melinda Mele il confronto su alcune traduzioni. Ad Adriano Aprà l’invito ad un convegno seminario su Rossellini in cui conobbi Enrico Fulchignoni, e, grazie a lui, Jean Rouch. Di India e Rossellini, ho discusso a Parigi con Caterina Guenzi. Lita Osmundsen, oltre dieci anni fa, in un diverso contesto per chi scrive, mi illustrò con pazienza il lavoro antropologico del suo defunto marito Paul Fejos. Sull’etnicità dei punti di vista e sull’etnicità delle rappresentazioni nella forma del cinema, devo molto a diversi incontri avuti in questi anni con Abbas Kiarostami, Moshen Makhmalbaf, Babak Payami, Amir Naderi, Amos Gitai. Sulla relazione tra cinema e spazio Luciano Marabello mi ha disciplinato nel segno delle differenze. Sulla metodologia di campo e sul problema delle rappresentazioni come condizioni di campo, Selenia Marabello mi ha spiegato, davvero, tutto quel che so. Con Cristina Grasseni la frequentazione e lo scambio di idee è stato assiduo, e alcune tracce sono ormai comuni. Berardino Palumbo mi ha chiarito, spesso, alcune questioni etnologiche, in fase di ultima stesura. Chiara Brambilla, Alice Cati, Alessia Cervini, Martino Doni, Mauro Gerace, Guido Guerzoni, Marco Senaldi, Antonio Somaini, Luca Venzi, sono compagni di questo viaggio tra cinema e antropologia. La cura editoriale di Anna Maria Lorusso ha reso questo lavoro migliore. Elisabetta Sgarbi ne ha reso possibile la pubblicazione. Infine, due ringraziamenti sono davvero urgenti e necessari. Francesco Faeta, in forma pubblica, attraverso i suoi testi, e in forma privata, in lunghe conversazioni, mi ha incoraggiato e sostenuto. Dal giugno del 2007 all’estate del 2010, prima del suo trasferimento a Yale, ho avuto la fortuna di frequentare un precettore speciale sulla via della teoria e della storia del cinema. Senza Francesco Casetti questo libro non avrebbe questa forma, come in

parte anch’io. Da entrambi so che riceverò nuove idee e suggerimenti. Nel corso di questa ricerca, sia mio padre che mia madre, cui devo indubbiamente la mia materialità e molto anche della mia immaterialità, mi hanno accompagnato ad un altro rito di passaggio: la presa di congedo da entrambi. Molto di quanto è scritto qui ha cominciato a prender forma tra le due cerimonie di saluto. Dinanzi alle immagini irrisolte, le immagini di entrambi si sono spesso sovraimpresse, trascorrendo. Orientandomi, spero, sulle tracce del vero. Devo un grazie ad Andrea Trenker per l’elaborazione delle mappe.

NOTE 1 Malinowski 1923 (tr. it., pp. 333-383). Cfr. Malinowski 1935; Joly 1983. 2 Latour 1985. Cfr. Kilani 1995 (tr. it., p. 122 ss.).

3 Calame Griaule 1965, p. 65. Cfr. anche Cardona 1976, § 6.3.

4 Clifford 1997 (tr. it., p. 73). Cfr. Rosaldo 1986 (tr. it., pp. 119-144). 5 Régnault 1922.

6 Hilton-Simpson - Haeseler 1925.

7 Cfr. le pratiche di restauro del film di Curtis e Boas curate da Bill Holm e discusse da

Wakeham 2008. 8 Fabian 1983. Dello stesso autore si veda Fabian 2001, e ancora Fabian 2007, parte I e II e pp. 92-119. 9 Benjamin 1974; sempre di Benjamin si vedano i “Materiali dal Passagen-Werk” in Benjamin 1997. 10 Didi-Huberman 2000 e 2003. 11 Geertz 1992. 12 Rosen 2001. 13 Foucault 1966a, 1969, 1971. 14 Cfr. Brunetta 1982, p. 13. 15 Cfr. Casetti 1993, p. 336. 16 Taylor 1996. 17 Mydin 1992, pp. 250 ss. 18 Flusser 1983 (tr. it., pp. 51-59). 19 Vaccari 2011. 20 Bachtin 1975 (tr. it., p. 133 ss.). 21 Shohat-Stam 2003. 22 Henley 2009.

23 MacDougall 1998, 2006.

24 Kilani 1994, 1995 (soprattutto le pagine dedicate alle procedure di testualizzazione del

discorso antropologico: tr. it., pp. 121-124). 25 Naficy 1925 (tr. it., pp. 117-138). 26 Ciarcia 2003; Douyon 2008 e, infine, Wanono 2001. Cfr. inoltre Douglas 1975. 27 Cavell 1979.

28 Casetti 2005.

29 Geertz 1973 (tr. it., pp. 9-45).

30 Clifford 1986a (tr. it., pp. 25-59) e 1986b (tr. it., pp. 145-174). 31 Marcus-Fischer 1999. 32 Rabinow 2007. 33 Rosaldo 1993.

2 SULLA SOGLIA DELLE IMMAGINI L’evento non è, certo, né sostanza, né accidente, né qualità o processo; l’evento non è dell’ordine dei corpi. E tuttavia esso non è immateriale; esso prende effetto, è effetto, a livello della materialità; esso ha il suo luogo e la sua consistenza nella relazione, nella coesistenza, nella dispersione, nel ricupero, nell’accumulo, nella selezione d’elementi materiali; non è né l’atto né la proprietà di un corpo; si produce come effetto di e in una dispersione materiale. Diciamo che la filosofia dell’evento dovrebbe procedere nella direzione, paradossale a prima vista, d’un materialismo dell’incorporeo. […] Di modo che, nella sottile sfasatura che ci si propone di mettere in opera nella storia delle idee, e che consiste nel trattare non tanto rappresentazioni che possono esserci dietro i discorsi, quanto i discorsi come serie regolari e distinte di eventi, in questa sottile sfasatura, temo di riconoscere qualcosa come un piccolo (e forse odioso) macchinario che consente di introdurre alla radice stessa del pensiero, il caso, il discontinuo e la materialità. M. Foucault1

2.1. Il contatto, la teoria, le pratiche: quattro film dalla costa nord occidentale: 1914-1931 2.1.1. Sincronie, cronotopi di ricerca, genealogie, scienza di luoghi e popoli, altre glosse Nei primi decenni del Novecento il mondo delle culture native del nordovest americano è oggetto di profonde attenzioni etnografiche e ripetute restituzioni filmiche. Da Edward S. Curtis, autore di una campagna fotografica e di In the Land of Head Hunters sino ai materiali filmati da Franz Boas all’inizio del 1930, a Baffinland, l’area è oggetto di numerose e diverse forme di etnografia visiva, photoplay, film di soggetto etnografico, travelogue nel mondo degli indiani del nord. Quando, nel 1933, Franz Boas scriverà a Willam Hays valutando l’importanza di film a soggetto di contenuto etnografico, nell’elenco dei titoli richiamati, quasi una genealogia, l’unico film, girato a nord degli Stati Uniti degno di citazione è Nanook of the North. Perché nessuno dei film realizzati in questa cornice spaziale e temporale è citato nella lettera di Boas, né è oggetto di riflessione, anche episodica, da parte dell’antropologia coeva? Le ragioni di questo silenzio sono molteplici. Film di destinazione museale, come quelli firmati da Harlan Smith, archeologo e antropologo, autore di importanti ricerche etnografiche tra i Bella Coola,2 circolano esclusivamente in ambito scolastico e universitario. Materiali di salvage, visti e vissuti come sussidi educativi e scientifici, prodotti tra il 1920 e il 1935 dal National Museum of Man, tracciano la storia dell’istituzionalizzazione dello sguardo etnografico, la patrimonializzazione complessa delle culture native. Sorte simile è quella di film come Nass River, Fish and Medecine Man, Saving the Sagas, a firma di Barbeau e MacMillan, prodotti da Norrish, cui negli stessi anni si deve la collaborazione tra Fox Movietone e Associated Screen News nella produzione di attualità cinematografiche dedicate al mondo indiano e destinate alla sala, in virtù della legislazione canadese che dal 1920 obbligava le sale alla proiezione di materiali documentaristici di produzione governativa.3 Il concorso di istanze diverse di istituzionalizzazione della memoria, dalla ricerca accademica alla conservazione museale, come la presenza di newsreel di carattere etnografico nelle sale commerciali, produce così una rete di senso, da indagare in quel dominio di relazioni che etnografia e spettacolo intrattengono sin dalle origini. Complesso di relazioni da riconsiderare alla luce dell’amplificazione del fenomeno che i nuovi media realizzano, delle politiche della visione che musei e istituzioni cominciano a disciplinare tra scienza e intrattenimento, osservazione che vale sia per l’area canadese che, in forme diverse, nel territorio statunitense. Il corpus di questi materiali riemerge dagli anni settanta dello scorso secolo, sia in forma di restauri e edizioni, grazie a Bill Holm cui si devono tanto l’edizione di The Kwakiutl of British Columbia di Franz Boas che il restauro di In the Land of Head Hunters, rititolato come In the Land of War Canoes e, recentemente, grazie a Linda Jessup, cui si deve la riproposta e il restauro di Saving the Sagas; sia attraverso un rinnovato interesse di ricerca storica e teorica sulle origini del cinema etnografico, sulle problematiche inerenti al recupero e restauro di materiali di questa origine, sull’attualizzazione e la contestualizzazione della lettura critica di film e foto di ambito antropologico.4 Tuttavia alcuni film realizzati in quest’area si presentano

come nodi di una riflessione più ampia sulla natura e la storia del cinema etnografico, si restituiscono oggi come pratiche diversamente pertinenti, come esempi di teoria in atto, nel duplice senso del termine: visione e riflessione. Si mostrano come esiti di un contatto storico con i luoghi e le comunità indiane, forme dell’intenzione antropologica di una tassidermia teorica o romantica, nel lessico della Tobing Rony,5 e, più recentemente, di Pauline Wakeham,6 segni di un progetto culturale e spettacolare pertinente alla comunità antropologica in senso lato, ma sopratutto alla comunità disciplinare delle origini del secolo, nel contesto di politiche dell’integrazione indiana, di salvage di culture in decadenza. Quattro film, tra gli altri, sono l’emergenza delle tensioni e delle questioni che segneranno profondamente l’ambito del cinema etnografico e la sua transizione verso le forme recenti di antropologia visiva, quattro film girati tra il 1914 e il 1931, la cui pertinenza teorica è davvero sorprendente. Film che come relics riemergono con un ricco corredo di domande da offrire al potlatch delle teorie. Si tratta di In the Land of Head Hunters, oggi In the Land of War Canoes (1914) di Edward Sheriff Curtis, Tsimshian Indians of the Skeena River of British Columbia (1925-27) di Harlan Ingersoll Smith, Vanishing Sagas di Marius Barbeau e Ernest MacMillan, The Kwakiutl of British Columbia di Franz Boas, materiale filmato nel 1930 editato nella forma attuale nel 1973 da Bill Holm, film girati da antropologi, ad eccezione del primo firmato da Curtis, la cui carriera si muove ai bordi della disciplina, in senso accademico e museale, tuttavia autore di notevoli, seppur criticabili, lavori etnografici. Siamo dinanzi a un corpus minimo di titoli, le cui vicende storiche sono utili ai fini dell’analisi. Un film pensato per il pubblico, quello di Curtis, due film prodotti per il circuito museale e scolastico, i film di Smith e Barbeau, materiale filmico girato tra i Kwakiutl da parte di Boas e usato a fini di studio, mai montato dall’autore. La destinazione d’uso, i contenuti, le scelte formali e narrative, disegnano la trama delle intenzioni, ci consegnano la fiche delle questioni. Film on location, film di terreno, di field, materiali di salvage through image e memorie delle vanishing culture, materiali di analisi della danza e del movimento, o più in generale delle tecniche e delle attività native. Film che tracciano subito le coordinate stesse del lavoro antropologico delle origini, producendo la forma visiva del contatto, la messa in scena della restituzione etnografica, la possibilità di una analitica filmica: in altri termini la relazione tra profilmico e diegesi, tra film scientifico e tradizione narrativa, tra archivio e spettacolo, didattica di massa e didattica di futuri scholar. Film che si disegnano al cospetto del cinema come oggetti narrativi, come deviazioni o riprese di generi codificati nel cinema delle origini – travelogue, melodrammi – come ibridi tra documento e finzione, come documentari della finzione negoziata e realizzata. Film che emergono dalle tradizioni delle lecture dei primi anni del Novecento e che, nei circuiti museali canadesi, rientrano in quella tradizione nella forma di conferenze spettacolo, o di supplenza e integrazione di percorsi espositivi. O che diventano attualità cinematografiche, newsreel da vedere e godere con stupore e curiosità prima dei feature-film. Emerge subito il circuito delle domande, il sistema dei luoghi di fruizione, la condizione di visione come elemento della lettura, la formazione di immaginari e tradizioni, di glosse intorno ai film. Emerge la dimensione spettacolare insieme alla pratica produttiva di questi film. Pratica la cui ambiguità teorica è diversamente esemplare, il cui esito teorico è di fatto esemplare.

2.1.2 Bronze in action

Il lavoro di Curtis fotografo è ormai molto noto e analizzato: un lavoro di estetizzazione profonda della cultura indiana americana, dove la tradizione pittorialista emerge con forza. Come ha mostrato il lavoro di Gidley, l’esperienza produttiva di In the Land of Head Hunters va letta sulle tracce delle lecture degli anni dieci e di lavori antecedenti – film di cui non si ha più copia, realizzati da Curtis già del 1904, filmando la Snake Dance a Oraibi tra gli Hopi.7 Già da quell’epoca Curtis recava con sé, nel suo equipaggiamento fotografico, una cinepresa. Nel 1911, tre anni prima delle riprese del film, Curtis progetta e realizza delle serate musicali, spettacoli di ambientazione indiana, con musica dal vivo – riscritture di temi originali indiani – proiezioni di foto, narrazioni e racconti, e film, come testimoniano le locandine d’epoca,8 spettacoli evidentemente nostalgici, pensati nei termini di una performing ethnography, spettacolarizzazione dei life groups dei musei e delle esibizioni scientifiche coeve. Il film, del 1914, recupera matrici letterarie evidenti, da Romeo e Giulietta al poema popolare The Song of Hiawatha di Henry Wadsworth Longfellow, del 1855, reinvenzione poetica di canti tradizionali indiani, ambientando tra i Kwakiutl l’amore contrastato di Nadia e Motana, in un susseguirsi di rapimenti, vendette, interventi magici, il matrimonio dei due innamorati, uccisioni e riscatti. Se il plot è leggibile come un melodramma tragico, la cornice degli eventi si organizza intorno alla messa in scena di cerimonie, all’ostentazione di pratiche rituali, alla descrizione di villaggi e attività. I villaggi, le canoe, i totem, le danza in maschera, consentono a Curtis la drammatizzazione dell’arte Kwakiutl. Nei modi del cinema, i gesti e le danze rituali si producevano come la verità plastica della vita dei corpi al cospetto della natura secolare di alberi e sculture lignee, i bronze in action salutati da Lindsay,9 eroi di una statuaria moderna ritti sulle grandi canoe cerimoniali. Non si tratta qui di re-enactment, piuttosto di messa in scena, di un film on location: il villaggio di Deer Island è un set, come le foto di scena dimostrano,10 un set per attori performer di danze e cerimonie,11 in un esito complesso, frutto di una lunga frequentazione etnografica del terreno, mediata da George Hunt, collaboratore di Boas, figlio di una Tlingit e di un bianco, etnografo e fotografo, il cui ruolo nel film è essenziale. Pur essendo critico nei confronti del lavoro di terreno di Curtis, della sua teatralizzazione della vita indiana ai fini fotografici, opinione condivisa con Boas,12 tuttavia Hunt offre qui la sua abilità ai fini del film, di un film dove la sua famiglia è largamente impegnata, e in cui il figlio recita la parte di Motana, il protagonista. Presenza ricorsiva e significativa, quella della famiglia Hunt, che occorre nei materiali filmici girati da Boas quindici anni dopo, come nei materiali dei primi anni venti girati da Pliny Goddard e nel film di H.I. Smith Totem Land. Qui, una foto di scena ne evidenzia il ruolo sul set: con un megafono dirige i nativi attori nella lingua locale. Hunt è essenziale ai fini dell’organizzazione del film, di un film che prevede la costruzione di quinte di grandi case decorate, di maschere nuove di zecca, di totem. Logistica della produzione, della produzione della verità dei luoghi ai fini del set, della verità del set al fine della verità del film: realizzare il paradigma del villaggio Kwakiutl, tra finzione consapevole e traiettoria della messa in scena, nella logica del picturesque e del documento della cultura nativa. Produrre nello spazio della costa del nord, tra laghi fiumi e boschi il luogo della cultura. Il film dopo alcune proiezioni, non raccogliendo il consenso del grande pubblico, scompare dalla scena commerciale. Flaherty pochi mesi dopo l’uscita lo vedrà in una proiezione privata nello studio di Curtis a New York, come testimonia il diario della moglie. Curtis stesso cercherà di venderlo ai musei al fine di rientrare dalle spese di produzione. Né migliore fortuna sembrano avere i testi prodotti a seguire come il

photoplay, la novellization dal titolo omonimo, arricchita da foto tratte dal film stesso e pubblicata sul finire del 1915. Ritorna, infine, sulla scena della fruizione, come oggetto di studio sul cinema etnografico delle origini, nel 1973, dopo un oblio di quasi sessant’anni, grazie al restauro di Holm e Quimby, restauro complesso, realizzato con il coinvolgimento della comunità nativa e di alcuni dei protagonisti, allora ancora vivi.13

2.1.3 Genere: travelogue. Stile: pittoresco. Oppure: genere documentario. Stile: etnografico Harlan Ingersoll Smith è l’archeologo responsabile di scavi della spedizione Jessup del 1887-1889, diretta da Franz Boas, spedizione cruciale nella formazione dell’antropologo tedesco ed essenziale ai fini della definizione storico-antropologica dell’area della British Columbia. Alla missione partecipa, come etnografo e interprete, George Hunt.14 Assunto, nel 1911, da Edward Sapir presso il National Museum of Man, nell’arco di oltre venti anni firmerà numerosi film di contenuto etnografico dedicati all’area, di prevalente destinazione museale e scolastica.15 Tsimshian Indians of the Skeena River of British Columbia, 1925-27, è uno di questi film. Nella durata di dieci minuti il film descrive la vita degli indiani Tsimshian, le attività tradizionali maschili di pesca e scultura di totem e maschere lignee, le attività femminili di tessitura e lavorazione della lana, in una sequenza di eventi che va dalla localizzazione di un villaggio lungo il fiume sino al racconto della morte presso la comunità indiana. I cartelli sono la traccia diegetica, la sutura grafica e cognitiva che dà forma di quadri alla successione di fatti sociali, descrizioni di questi. Tuttavia la cornice è l’elemento più interessante: sin dall’inizio, dal primo cartello, il disegno della ferrovia illustra la presenza dell’impresa di comunicazione codificata nel tema del viaggio, illustra il tragitto della nuova modernità.16 Nelle sequenze finali i riti cerimoniali sono, infatti, oggetto della vista di turisti, della presenza di sguardi curiosi in viaggio dal moderno verso l’arcaico e le sue sopravvivenze. Nella cornice del travelogue il mondo passato si configura come traccia di cui viaggi e cammini si prendono cura, nelle forme dell’antropologia come del turismo, nello sguardo documentario dell’etnografo, come nelle fotografie dei totem che i turisti scattano nel finale del film, la cui chiusura ci mostra un francobollo governativo la cui effige è appunto un totem. Nel segno della modernità ferroviaria, e postale, il moderno e la storia si incontrano, tempi di una coevalness che i turisti fotografi ci presentano plasticamente, drammaturgia leggera di indici e corpi, nuovi stati della tecnica del contatto. Nella cornice del travelogue il contenuto etnografico si presenta all’interno di una mise en abyme dell’indicale: filmare culture sulla via della scomparsa e fotografi turisti che ne fanno indici nell’atto di tracciarla come memoria, memoria una volta di più volta indicale di un esser stato lì, per luoghi e segni, tra corpi e cerimonie, nel tempo del contatto di cui il film si fa prodotto, traccia attiva di ulteriori contatti e forme nuove di coevalness tra musei e sale. Il documento etnografico è assunto così nel genere popolare del travelogue, rivelando il movimento dell’etnografo come un movimento di viaggio. Riassumendo nel genere e nella restituzione figurativa del fotografico l’invisibile della restituzione etnografica tradizionale: il viaggio che la monografia espunge. Da cui emerge la seconda lettura possibile: se nel travelogue il pittoresco assume spesso, sin dalle origini,17 le forme del primitivo indiano, nel documentario, i cui principi Grierson illustrerà nel 1932,18 l’etnografico assumerà il tratto di uno stile, oltre che di un

contenuto. Il pittoresco diverrà qui l’“espressivo” dei popoli senza scrittura, la cui dimensione cerimoniale sarà presentata come forma d’arte in grado di restituirci il sentimento estetico di etnie e tradizioni, nella misura del climax narrativo del documentario stesso, della convenienza e concorrenza formale di estatico ed estetico ai fini del diegetico: il documento come fatto sociale si presenta, grazie al cinema, nelle forme della narrazione piuttosto che della spiegazione. Nella cogenza e compresenza di spettacolo e racconto, che l’immagine cinematografica sintetizza nelle misure dell’intrattenimento, come logos popolare assolto nel canone produttivo di generi e stili che, come marche di codifica e trattenimento, attiveranno i modi della ricezione e del consumo conoscitivo.

2.1.4 Spettacoli di salvezza. O della messa in scena del lavoro etnografico Se King Kong, come vedremo, mette in scena, nel segno di Holly​wood, lo spettacolo stesso del film etnografico come matrice dello spettacolo e della drammaturgia della conoscenza grazie alla sua natura di metafilm,19 Saving the Sagas, 1927, di Barbeau e MacMillan è la messa in scena del lavoro etnografico come progetto di salvage.20 Prodotto dal National Museum di Ottawa, firmato da un antropologo, folclorista ed etnomusicologo, Marius Barbeau, e da Ernest MacMillan​ allora a capo del Conservatorio di Toronto, il film sin dal suo cartello d’inizio restituisce la cultura del progetto: la civiltà bianca e il jazz cancellano via via la tradizione degli antichi canti indiani e le tradizioni dei popoli nativi di quelle aree. Così il film, nelle sue scene esemplari, vede all’opera i due protagonisti, l’etnografo e il musicista, impegnati nel lavoro di trascrizione e notazione di canti nativi, con l’aiuto di traduttori locali, di registrazione con l’ausilio di cilindri di cera, altoparlanti dove gli indiani cantano le loro melodie, vestiti in abiti occidentali. La scena della tecnica qui è declinata diversamente dalla celebre scena di Flaherty: gli indiani qui cantano, nella scena muta, coscienti dell’atto, alla presenza autorevole dei testimoni etnografi intenti all’impresa di salvezza, votati alla memoria della cultura in estinzione. Saving the Sagas fu prodotto per la mostra “The Exhibition of Canadian West Coast Art, Native and Modern”, alla National Gallery of Canada, presentato nell’ambito dell’inaugurazione che prevedeva, nel programma, la proiezione di Totem Land, di Harlan Smith, prodotto dalla Canadian Pacific Railways, storia di un soprano votata allo studio dei canti originali indiani. Nel gennaio dell’anno seguente, nell’ambito della mostra, una serata evento ebbe come protagonista Juliette Gaultier de la Verendrye, famoso soprano dell’epoca, che in abiti originali indiani, provenienti dalle collezioni museali, interpretò le trascrizioni indiane di Barbeau e MacMillan, adattate per l’occasione. Saving the Sagas nasce come un progetto destinato ad una sorta di installazione multimediale, nella logica del displaying, nel segno dell’ibridazione di media diversi, realizzandosi come un oggetto, un film, ulteriormente performato dai materiali programmati e presentati nella mostra stessa, reinterpretato dagli eventi live, come il concerto organizzato da Barbeau. Il tutto all’interno di una pratica di salvage etnografico delle culture native e di una contemporanea politica di espansione turistica alla ricerca del paesaggio delle vanishing culture alimentata dalla Canadian Pacific Railway, di cui l’attività museale e istituzionale diventa fonte di legittimazione scientifica.21 Un complesso e insidioso marketing territoriale, in una logica di patrimonializzazione del

mondo etnicizzato, nell’anticipazione di disegni eco-museali, di pratiche di etnografia come antropologia applicata, come ipotesi di sviluppo economico locale e di integrazione politica della presenza indigena, nella costruzione culturale della wilderness come paesaggio teorico dove far convivere l’espansione pioneristica e l’idea di natura, individualismi liberali ed ethos protestante, dove infine confinare, ancor più che nelle riserve statunitensi, il mito e la vita indiana. Saving the Sagas è così un metafilm disciplinare, uno spot del lavoro antropologico, una forma di legittimazione nella costruzione del consenso, un complesso tool della presenza e dell’attività antropologica sulle tracce del mutamento sociale e culturale. Al cospetto di modernità incipienti e nativi contigui, nella coevità, ma anche nella co-occorrenza, spaziale e geografica, di istanze ed etnie diverse.

2.1.5. Corpi che danzano, coreo-grafie in corpo. Corpi filmabili, soggetti filmati The Kwakiutl of British Columbia di Franz Boas è un restauro, un artefatto cognitivo nel senso puntuale del termine, firmato da Bill Holm, cui si deve la ricostruzione del progetto, l’edizione dei materiali originali boasiani, infine la versione esistente, attraverso una complessa metodica di lavoro tesa a incrociare note d’archivio, testimonianze accademiche, testimonianze e memorie di filmati, criteri di ecdotica.22 Il film consta di due rulli: il primo dedicato alle attività e alle tecniche; il secondo alle cerimonie e pratiche sciamaniche, e alle danze. Negli anni trenta la nozione boasiana di cultura si definisce sempre più a partire dal linguaggio, sino ad ipotizzare, nel 1938, che le categorie grammaticali di una lingua impongono, a chi le usa, delle scelte obbligate così come accade ai soggetti sociali nei confronti del sistema di regole della propria cultura – temi che Boas aveva già affrontato, seppur con minore radicalità teorica, nella prefazione a l’Handbook of American Indian Languages del 1911.23 Per Boas la cultura non può che esser situata e puntuale, comparabile per differenza e analogia con culture altre, tuttavia delimitabile e leggibile nel contesto territoriale e spaziale di cui è espressione: la lingua si costituisce sia come oggetto di indagine – nella sua dimensione fonetica e più in generale formale – che come strumento di interpretazione antropologica, come dimostrano gli studi di toponomastica indiana Kwakiutl del 1934, centrali nella definizione dei concetti di spazio reale e mitico presso quella cultura, coevi di fatto della concezione linguistica dell’esperienza, espressa dal suo allievo Sapir nel 1929 e matrice, più in generale, del futuro modello Sapir-Whorf.24 La lettura di Ruby25 restituisce il film come pratica di analisi del movimento, mettendo a fuoco il lavoro boasiano di studio del movimento e del ritmo come traccia ipotetica di un universale linguistico, meglio di un grado intermedio tra denotazione e connotazione che la cinesica restituisce nell’architettura del ritmo, nella pregnanza delle forme espressive corporee, e che trova nella metrica cerimoniale, nelle danze rituali, il terreno di elezione. Il sapere gestuale si incorpora e la ritmica diviene la mnemotecnica radicale dell’apprendimento, come della trasmissione di questo. Che cosa filma Boas, quindi? Come filma questa emergenza di senso nelle forme della corporeal image? Piani sequenza di scene di danza: diciassette forme di danza, inquadrate in campo lungo, con talvolta, ai bordi del quadro, elementi circostanti, o addirittura l’apparato fonografico. Nel primo dei due rulli appaiono invece le attività quotidiane dei Kwakiutl. I titoli indicati da Holm suggeriscono e definiscono lo spazio profilmico, si presentano come

elementi verbali di questo.26 Boas non aveva, nel 1930, competenze filmiche particolari, da cui il fuori fuoco di alcune sequenze, o la relativa povertà visiva di alcune immagini. Né la sua intenzione si manifestava come cinematografica. Boas filma nel segno di una cinegrafia, di una captazione ai fini di studio, nel segno del record. Sul terreno è con lui, come assistente, Julia Averkeieva, la cui formazione antropologica si alimenta di un’abilità particolare: la danza. La Averkeieva, infatti, apprende le danze, si fa strumento di registrazione, incorpora i saperi nativi, si fa notazione cinesica di questi. Assistiamo qui a un processo multimediale di registrazione: fonografica, filmografica, testuale, nella forma di notazioni del movimento, antropomorfica – il corpo come thick inscription di un sapere, come impronta e traccia della performance, strumento della sua riproducibilità, della sua ri-locazione. Più interessante è cogliere poi il dato attraverso una sua manifestazione: gli interpreti del materiale di Boas – della danza come di molte attività – appartengono alla famiglia di George Hunt, già protagonista del film di Curtis, qui sapienza corporea dinanzi alla cinepresa sedici millimetri di Boas. La verità della tradizione, inscritta nel corpo, trova, come medium, l’azione scenica e interpretativa di Hunt, meticcio di origine Tlingit, etnografo dei Kwakiutl, qui performer di un sapere cinesico acquisito nel lavoro di campo. La verità filmica traccia e naturalizza la verità dell’interpretazione: fictio esperta, maturata attraverso attori forgiati dal metodo etnografico, dall’osservazione partecipante. Anticipazione paradossale e radicale del metodo Strasberg. Boas si muove in un progetto di analisi filmica, progetto che ritroveremo in Bateson e Mead, qui pensato a fondamento di un analisi del dato corporeo cerimoniale come luogo dell’embodiment culturale del sacro, come pratica della religio – il legame tra divinità, antenati e comunità che la danza inscena. Il film si fa captazione e tuttavia mette in scena la cultura come analisi: la dimensione metalinguistica si nutre della pratica etnografica e della competenza dei filmati, informatori di Boas, addirittura, nel caso di William Hunt, autori di etnografie, fotografi delle culture indiane, collaboratori, in proprio, di istituzioni museali. La verità filmica si presenta come verità profilmica, come finzione esperta e condivisa di filmati e antropologi, verità di terreno come progettazione dell’oggetto etnografico in quanto interpretazione autorevole dello stesso. Come sarà poi, in forma originale nel film degli anni quaranta di Paul Fejos, tra gli Yagua. O come accadrà nella relazione tra osservatore e osservato in un ritratto tra i Bororo di Lévi-Strauss, la cui natura culturale è restituita dalla nota di archiviazione dell’etnologo francese, volutamente omessa e sottaciuta nelle edizioni successive della stessa foto nell’arco di circa sessant’anni dalla prima versione pubblica.

2.2. Questioni di storia e di teorie, di storia delle teorie Tra il 1915 e il 1930, nella cronologia dei quattro film etnografici localizzati nella costa nordoccidentale e analizzati, gli scritti teorici dedicati al cinema nella ricerca antropologica sono piuttosto esigui.27 Tre sono i testi che meritano comunque di essere richiamati, due dalla letteratura inglese e americana, uno di origine francese. I due testi di area angloamericana, Motion Picture Recordings e Cinema and Ethnology firmati da Goddard e da Hilton-Simpson e Haeseler, datano rispettivamente 1915 e 1925. Pubblicati, rispettivamente, su American Museum Journal e Discovery tracciano alcune questioni cruciali per una possibile teoria del cinema etnografico, teorie assolutamente embricate e derivate dalle pratiche filmiche

dell’epoca, pratiche tuttavia da inscrivere in quelle più generali del cinema. La sede di pubblicazione implica una differenza profonda sul tono delle questioni e sulla ricezione futura: se la prima testata è la sede del dibattito museografico e museologico americano, Discovery è un giornale britannico di divulgazione scientifica. Goddard, etnolinguista ed etnografo, si confronta direttamente col cinema nel 1914, girando a San Carlos, tra gli Apache, in Arizona. Goddard è consapevole, sin da subito, della difficoltà di filmare cerimonie complesse come le danze, producendosi, di fatto, come elemento di disturbo nell’atto di filmare. Nello scritto del 1915 il tema cruciale dell’intervento è quello del record del movimento, della possibilità cinematografica di filmare gesti e moti volontari e non, registrandoli ai fini di studio, obiettivandoli. Tuttavia, Goddard, conscio della sua esperienza di filmmaker, assume come dato la non neutralità della presenza sul terreno dell’antropologo, l’elicitazione prodotta dal gesto del filmare, persino la consapevolezza del filmato dinanzi all’estraneo, alla forma che la presenza sul terreno esplicita nell’intenzionalità mediata da tecniche e strumenti. Nelle dinamiche dell’alterità la cinepresa processa ulteriormente le forme delle intenzioni e delle attenzioni, esitandole altrimenti, producendo uno spazio di negoziazione evidente: la tensione del profilmico.28 L’intervento su Discovery, firmato da Hilton-Simpson e Haeseler, esito e conseguenza del film realizzato da entrambi An Unknown Race, girato tra gli Shamya, nell’Aurès algerino, attesta la sostanziale compresenza di spettacolo e scienza nei materiali dei film etnografici, nella materialità produttiva di essi. Filmare vuol dire, inevitabilmente, fare della cinepresa un attrattore fatale, un elemento di perturbazione spettacolare del terreno, sfaldarlo, trasformarlo, almeno, in parte, in set. D’altra parte i nativi manifestano una scarsa consapevolezza del mezzo, e questo si rivela un punto a favore nella possibilità di usare la cinepresa come strumento di registrazione scientifica. Peraltro, quest’affermazione è parzialmente smentita dalla considerazione successiva: la possibilità di filmare primi piani comporta la necessità di negoziare con gli indigeni le condizioni stesse dell’atto di ripresa. La complessità poi del dato, come quella di un set cerimoniale ad esempio, comporta un surplus di attenzione: dinanzi alla cinepresa i nativi possono omettere dettagli essenziali, così come il cineasta può affrontare il visibile nel segno dell’attrazione e dello spettacolo, falsificando il dato stesso.29 Il terzo testo prodotto negli stessi anni è forse il più interessante e significativo ed è di F. Régnault.30 Sin dal titolo, L’histoire du cinéma et son rôle en antropologie, il testo cerca di designare, per differenza, il ruolo del cinema e il contributo specifico del cinema etnografico. Régnault, assistente di Marey, e autore delle cronofotografie etniche realizzate nel 1895 a Parigi nel corso dell’Esposizione coloniale, così come di altri film di Marey, com’è emerso pochi anni orsono,31 sin dal 1900 teorizza l’uso del film a fini etnografici, immaginando una pratica di collezione di materiali etnologici filmici a fini museali, nella prospettiva di un catalogo universale del movimento etnicizzato, nell’orizzonte di musei del cinema etnico come archivio dei viventi.32 Nell’articolo del 1922 Régnault classifica la storia del cinema in due fasi: Cinema 1 e Cinema 2. Il Cinema 1 è il cinema scientifico, nel segno di Marey, nella tradizione della metrica e del record, nella definizione di etnie e corpi come glifi in movimento, geroglifici di un mondo, per definizione e riduzione, misurabile. Fisiologico e presociale. Dove gli indici culturali si etnicizzano, e dove lo sguardo dell’etnografo si posa sul piano apparentemente leggibile dell’esteriorità, del gesto come memoria e dell’espressione senso-motoria. Formando un oggetto di studio come etno-grafia strumentale, ottica e

meccanica. Il Cinema 2 è lo spettacolo, il cinema fatto intrattenimento, audience, divertimento, narrazione. Cinema dove talvolta si esitano tracce del Cinema 1, come mostreranno meglio i teorici come Faure e Epstein. Cinema, da cui il lavoro dell’etnografo devia verso il rifugio nell’analisi filmica del movimento, verso la sequenza cronofotografica, dove la successione di istanti e istanze del corpo si presenta come traccia e impronta del discreto, piuttosto che teoria del continuo, processione di stati verso la condizione dell’evento, ovvero verso la nascita del diegetico. Per destinarsi, invece, nella scrittura come registrazione automatica, nell’ipotesi dell’automatico come chiave di restituzione della normalità, come dell’alterità. Che cosa rassegnano i tre testi? Che questioni tramano e formano? Innanzi tutto la dimensione del record e la tracciabilità del movimento, poi la tensione del profilmico come frizione tra dato e film, tra automatico e intenzionale; quindi il tentativo di neutralizzare, in nome della scienza, la storia nascente del cinema – ovvero lo spazio pubblico della restituzione in forma narrativa –, la storia pubblica dell’immagine cinematografica, perché territorio mobile e più infido del displaying museale, con cui, tuttavia, l’etnologia intrattiene, tra fine Ottocento e prima metà del Novecento una relazione articolata e ambigua, nel segno dell’audience e della divulgazione. Che relazione intrattengono con le coeve teorie antropologiche e con le nascenti teorie del cinema? Qui la questione si fa semplice e sdrucciolevole al tempo stesso. Se le teorie del cinema sembrano misconoscere le pratiche e le teorie del cinema etnografico, in attesa della riflessione di Grierson sul documentario come forma di genere e attitudine cinematografica alla relazione col dato, le pratiche antropologiche si attestano invece sulla tradizione del cinema scientifico, o si declinano nel quadro complesso del displaying museale di inizio secolo, dell’etnografia tra divulgazione e spettacolo, di cui la traccia filmica diviene sussidio di conferenze e lecture, o programma di diffusione popolare di un sapere per immagini delle culture in via d’estinzione. Oscillando tuttavia tra cinema 1 e cinema 2, in un pendolo davvero foucaultiano, tra sapere e potere. In forme diverse di descrizione e restituzione del sapere, nella formazione di un potere per immagini fragile e incerto, al cospetto della potenza spettacolare del cinema 2. Nelle cui teorie il cinema etnografico si fa, semplicemente, eco attraverso qualche oggetto film destinato al grande pubblico, come il film di Curtis, del 1915, i cui indiani, sono salutati come bronze in action, forgiati come tali dal lavoro dell’immaginazione filmica. Nella felice ambiguità del termine fictio, il cui campo semantico allude alla finzione narrativa come attività del forgiare, cifra che segna, in modo proprio, la costruzione stessa dell’alterità dell’antropologia scientifica.

2.3. Questione di metodi e teorie: variazioni tra Wittgenstein e Geertz 2.3.1. Iscrizioni dense, regole e usi: sul senso delle immagini Il concetto di thick description, la descrizione densa, è centrale nella riflessione di Geertz. L’etnologo è posto di fronte a eventi complicati, fugaci comportamenti strutturati, che come

lettere di un alfabeto non convenzionale lo invitano a una lettura attenta, per certi versi orientata alla ricerca di indizi, talvolta nel segno del sospetto più che della confidenza. Dai comportamenti visibili si cerca di verificare, intuire, rappresentare una forma culturale, restituendola come oggetto di analisi e interpretazione, come processo di entrambe. Nel paradosso che le regole, le prescrizioni, i protocolli si presentano talvolta come strumenti, talora soluzioni: La regola, in quanto regola, è indifferente; essa, per così dire, sta nella sua magnificenza, benché ciò che le dà importanza siano i fatti dell’esperienza quotidiana.33 Ne consegue che l’etnologia non può occultare la sua dinamica interpretativa: rappresentazione e oggetto si embricano così, irresistibilmente.34 Se tuttavia i comportamenti superficiali ci descrivono la sfera delle relazioni come dei significati, una volta compresi e analizzati, se la sfera del significato è pubblica, nel senso di Wittgenstein, allora questa sfera dei comportamenti può essere filmabile, oggetto, come sostiene Ruby, di una attenzione il cui esito siano dei film thick.35 Il film denso, in questa luce, è il film etnografico, film pensato e realizzato dall’etnografo. Al di là della dimensione deontica, evocata da Ruby, i termini di Geertz implicano diverse conseguenze, considerando la sostanziale riluttanza dell’antropologo americano nell’ammettere l’uso della fotografia e del film come strumento di analisi e registrazione di dati, di costruzione di interpretazioni in forma diversa dalla testualità etnografica tradizionale. Suggeriscono la definizione di pratiche di attenzione, sollecitano la lettura delle possibili restituzioni come forme delle intenzioni, come trame negoziali e interpretative. Citando Wittgenstein e Cavell, Geertz allude alla dimensione dell’esperienza come differenziale spesso irriducibile, alla impossibilità di assumere i panni dell’altro e al tentativo di far parola all’altro e con l’altro, come se parlare a un altro non sia di per sé abbastanza complesso, o addirittura misterioso, nel lessico di Cavell.36 Così le tre caratteristiche della descrizione etnografica, ciò che la rende densa, si riassumono in questo modo: è interpretativa; interpreta il flusso sociale; l’interpretazione ad essa inerente consiste nel tentativo di preservare il detto dell’altro,37 il manifestato oltre che il detto, l’implicito. Tuttavia, se la cultura, in questi termini è un documento agito, l’altro o l’alterità non può non essere tale: la dimensione iconografica, fotografica della restituzione per immagini, evidenzia la dimensione dell’azione, nella tensione profilmica, che ridefinisce lo spazio della negoziazione, così come nella tensione diegetica, nell’esito filmico, thin o thick che sia, nell’oscillazione tra registrazione e ricostruzione, tra taccuini visivi e orizzonti di testualizzazione.

2.3.2. “Una buona metafora ravviva l’intelletto”: schermi di Wittgenstein… Nell’edizione del Big Typescript di Wittgenstein, curata da Rush Rhees, quattro capitoli furono esclusi, e, tra questi, il capitolo denominato Filosofia, pubblicato infine nel 1989.38 Nel testo, ai paragrafi 428 e 429, alcune osservazioni evocano la dimensione dell’esperienza in

termini cinematografici: Quando diciamo che tutto scorre sentiamo di essere impediti a tenere fermo l’effettivo, la realtà effettiva. Ciò che si svolge sullo schermo ci sfugge, proprio perché si svolge. E tuttavia, descriviamo pur qualcosa; è forse qualcos’altro che si svolge? La descrizione, peraltro, è chiaramente connessa all’immagine sullo schermo. Deve esserci una falsa immagine alla base della nostra sensazione d’impotenza. Poiché ciò che vogliamo descrivere, lo possiamo descrivere. Questa falsa immagine non è forse quella di una pellicola cinematografica che scorre così velocemente da non lasciarci il tempo di cogliere un’immagine? Infatti, in questo caso, saremmo tentati di correre dietro all’immagine. Ma, nello svolgersi di un processo, non c’è niente di analogo a tutto ciò. Wittgenstein, come poi farà Geertz, contrappone e sovrappone l’esperienza comune quotidiana all’esperienza filmica, meglio alla forma e alla possibilità della descrizione, di una descrizione di ciò che accade nel mondo e dei termini – del linguaggio – necessario a questa. Tuttavia è la descrizione stessa che si configura come esperienza, per cui essa si dà, in qualche modo e misura, come una pratica, invece che una regola, come un’attitudine che accade e accede ai processi intorno a noi, mediati o immediati. Che cosa ci riserva allora l’esperienza e come differisce nei contesti o luoghi in cui si vive? Se rileggiamo i testi teorici prodotti da Goddard e da Hilton-Simpson con Haeseler, osserviamo come l’urgenza del terreno, l’istanza delle pratiche, metta radicalmente in gioco la nozione di regola, il sistema delle prescrizioni. L’etnologo si muove comunque in un sistema di regole, prescrizioni, interdetti, obblighi, cerimonie, giochi linguistici che gli sfuggono, pertinenze di vite altrui i cui panni non può indossare, di cui cerca di restituire il detto e il manifesto nei modi di una descrizione, descrizione embricata all’esperienza stessa nel suo farsi: essere lì, presenza e perturbazione, negoziare nel linguaggio e nella traduzione il linguaggio stesso di quella traduzione tra culture, addirittura filmarlo. La pratica filmica, infatti, introduce nuove ferite nel mondo della descrizione: il processo avviene e si svolge nella determinazione di due temporalità, il tempo del rito o dell’attività e il tempo del film tra profilmico e registrazione. Ciò che accade dinanzi agli occhi dell’etnologo, alla sua protesi tecnologica, la macchina da presa (mdp), è talvolta così veloce da non poterne cogliere l’immagine, estraneo ed enigmatico, ritmico e iterativo invece che diegetico. Gioco linguistico incarnato in gesti e atti che la pellicola cerca di tracciare, nella forma di un’impronta descrittiva, nella tensione di un’intenzione che orienta la descrizione stessa. Che la natura del mezzo per un verso sembra assolvere, peraltro elicita, in virtù della sua natura di protesi visibile sul terreno delle relazioni. Rinviando drammaticamente al diegetico ogni qualvolta intercetta e filma cerimonie e rituali assolti e risolti nel logos del montaggio invece che della durata, nel differenziale tra film e tempo rituale, tra convenzioni e obblighi di restituzione e codici e convenzioni di un atto religioso: minuti a fronte di giorni o mesi, pagine a fronte di occorrenze di vita. Se torniamo ancora a Wittgenstein, negli stessi paragrafi, osserviamo come la dinamica tra esperienza comune e situata alimenti il riferimento al cinema e alla fotografia, e di entrambi, metaforicamente si nutra:

Noi non percepiamo il fatto di vedere lo spazio in prospettiva, oppure che l’immagine visiva è in un certo senso sfumata ai bordi. Non lo notiamo e non possiamo notarlo mai, perché si tratta del modo della percezione. Non ci pensiamo mai. Ed è impossibile farlo, perché non c’è alcun contrario della forma del mondo. Volevo dire che è degno di nota che quelli che attribuiscono realtà solo alle cose, e non alle nostre rappresentazioni, si muovono con tanta naturalezza, nel mondo della rappresentazione e non guardino mai al di fuori di esso. Cioè com’è ovvio il dato. Dovrebbe proprio averci messo lo zampino il diavolo, se esso fosse una piccola fotografia presa da un angolo obliquo. Qui, però, si configura il paradosso: se la visione comune attiene alla percezione, la visione schermica, introdotta dal cinema, produce la percezione del bordo, così come restituisce, accentuata, la dimensione prospettica, grazie alla potenza mimetica e fotografica di corpi e luoghi. I cineasti, infatti, soprattutto se antropologi, scattano foto da angoli obliqui, angoli mentali obliqui, pur se nelle prescrizioni disciplinari affermano la necessità di grammatiche della restituzione esemplari e sinottiche. Il cinema e la fotografia, soprattutto alle origini dell’etnografia visiva, producono, nel linguaggio della restituzione, l’illusione del record e la tensione dello spazio di ripresa, l’evidenza di una presenza nuova, strumentale, sul terreno della negoziazione, nella fabbrica delle immagini.

2.3.3. Descrizioni, aggettivi, prescrizioni Le pagine del testo Filosofia si chiudono con alcuni frammenti altrimenti pubblicati e conosciuti come “Note sul Ramo d’oro”. Ritroviamo qui alcune delle note di lettura già pubblicate da Rhees nel 1967 su rivista.39 Colpisce soprattutto la prima di queste, dove il filosofo austriaco traccia un parallelo tra le complesse forme di linguaggio gestuale e la natura linguistica delle metafore. Pur essendo nota, è la sua posizione nel testo a renderla intrigante, cerniera di due obiettivi di cui la filosofia, nel senso di Wittgenstein, è matrice: se il compito della filosofia è dissodare l’intero linguaggio,40 allora si tratta anche di riconoscere che un’“intera mitologia è depositata nel nostro linguaggio”.41 Il corpus di Wittgenstein è, com’è noto, attraversato da continui rimaneggiamenti e riposizionamenti, che impongono cautela, che ri-orientano contestualmente approcci e orizzonti di senso. Il “corpo a corpo” tra filosofia e senso comune, tra linguaggio e regole, affida un valore detonante al terreno antropologico. Attiva, per così dire, la faglia del buon senso, rinviando alla descrizione come rappresentazione perspicua, übersichtliche Darstellung,42 come luogo dell’emergenza di giochi linguistici originali. Soprattutto, si definisce eleggendo la regola come un’attività in un certo senso, un’attivazione appunto. Le regole si seguono, appartengono al dominio del saper fare piuttosto che del sapere. Capacità invece che disposizione. Capacità di disporsi alle situazioni attraverso una matrice di regole piuttosto che di prescrizioni o interdetti, una matrice che non prefiguri, mitologicamente, la futura performance di chi agisce. Che si accordi in forma di routine alle pratiche della comunità di cui è membro, ancor prima di accordarsi sul linguaggio capace di descriverle.43 La rappresentazione perspicua di Wittgenstein rinvia, quasi per assonanza, al posizionamento dell’etnologo fotografo e cineasta immaginato e prescritto da Haddon in

Notes and Queries del 1929. La dimensione di inappariscenza – l’unperspicuous – richiesta all’etnologo è il focus dell’ipotesi di lavoro di Haddon, la regola del gioco, la regola da cui generare il gioco linguistico della possibile rappresentazione perspicua, sinottica, di cui camera e antropologo dovrebbero farsi garanti. Il terreno delle prescrizioni comunitarie è, però, infido: sul terreno epistemico come su quello delle pratiche di field, come, infine, sul terreno delle tecniche e dei limiti di queste. Elementi questi che costringeranno, di volta in volta, gli etnologi a pensare per immagini in forma diversa, a produrre immagini dalla posizione accidentata del profilmico, nel rischio della messa in scena, nella pratica consapevole del re-enactment, nella ricerca di un accordo tra linguaggio e mondo, nella sfera di attrazione della narrazione. Se la riflessione di Wittgenstein produce, sul piano euristico, queste conseguenze, la stessa riflessione, tradotta nei termini di Geertz, istituisce le ragioni di una pratica interpretativa, di una sfida di giochi linguistici, da osservare e intendere come pratica di regole. Filmare l’alterità vuol dire, nello spazio del cinema e delle pratiche etnografiche, dalle origini a oggi, confrontare sistemi di regole diversi, forme diverse del perspicuo, attestare la descrizione densa o perspicua come la regola di un saper fare piuttosto che di un sapere, da Boas a Rouch, come vedremo. Ciò implica non soltanto un modo di filmare, o una pluralità dei modi, piuttosto un modo di agire da esplicitare via via, quantomeno da rendere visibile. Scegliere un set di categorie e una grammatica della rappresentazione non può non avere delle conseguenze. Prescriverle come metodo, altrettanto. Verificare che le prescrizioni sono di fatto interpretate o eluse, obbliga, prima che a una spiegazione storica o causale, a una rappresentazione delle pratiche come delle elusioni. Invita a collocarle nell’ambito più vasto delle immagini cinematografiche e fotografiche, all’uso di queste nel mondo delle routine, delle abitudini di consumo, delle traiettorie narrative, diegetiche, che il cinema amplifica e produce nella forma dello spettacolo, traiettorie che agiscono sul fronte della ricezione, certo, ma anche sul fronte della produzione, come abbiamo visto nei film esaminati: Infatti poiché il linguaggio riceve il modo del suo significato soltanto dal suo significato, dal mondo, non è pensabile nessun linguaggio che non rappresenti questo mondo.44 Documenti agiti, i film etnografici si presentano piuttosto come thick inscription, invece che thick description, dove le impronte sono l’esito di forme delle intenzioni e negoziazioni, di attitudini e competenze, come di pratiche di approssimazione nel cuore delle pertinenze – atti, cerimonie, soggetti. Senza per questo sottrarsi, di fatto, all’attrazione della sfera narrativa, come pratica di restituzione routinaria, perché storicamente data, come forma autorevole di cornice dove situarsi, dove echeggiare o pronunciare il detto di Velasquez: “Tu sei là, perche io vi sono stato”, matrice dell’affermazione pronunciata poi da Lévi-Strauss, nella sua lezione inaugurale del 1960 al Collège de France: “Ero lì, quella cosa mi successe. Crederete di esserci anche voi”. Paradosso della soggettività autorevole dell’etnologo sul campo, capace dell’ekfrasis nella forma della scrittura, dimidiato, invece, quando la testimonianza sia il prodotto di una protesi. Come se, seguendo Geertz, il mito del terreno non si fosse prodotto poi come una sorta di moderno veni, vidi, vici dove tradurre la triade “osserva, registra, analizza”.45 E dove il motto cesarista riverbera bene il quadro storico,

coloniale, della tradizione dell’antropologia scientifica.

2.4. Questioni di teoria: come vedere, alla luce delle teorie del cinema, i film etnografici? In the Land of Head Hunters, oggi In the Land of War Canoes (1914) di Edward Sheriff Curtis, Tsimshian Indians of the Skeena River of British Columbia (1925-27) di Harlan Ingersoll Smith, Vanishing Sagas di Marius Barbeau e MacMillan, The Kwakiutl of British Columbia di Franz Boas sono i quattro film proposti come corpus e matrice delle questioni di teoria proprie dei film etnografici, nell’intento di circostanziare gli esiti e i limiti del cinema antropologico sino agli anni trenta. Se in questo corpus includiamo i titoli che Franz Boas citerà nella sua autorevole lettera del 1933 a William Hays, Nanook of the North, Moana, Grass, Chang, il confine tra cinema e spettacolo etnografico si indebolisce ulteriormente, frontiera davvero porosa. Se i film esaminati si caratterizzano come prodotti da etnologi ed etnografi di professione, destinati per lo più a circuiti museali ed educativi, o a scopi di ricerca, con l’eccezione del film di Curtis, il cui esito pubblico fu modestissimo, i quattro film citati da Boas sono, diversamente, dei peculiari prodotti cinematografici, indici di un percorso del cinema d’avventura ed esplorazione sulla via del documentario. Questo corpus, così articolato, si presta a numerose suggestioni. Si definisce per somiglianza e differenza, per analogia di temi o di linguaggio. Degli otto film qui citati, sette si producono nel segno della messa in scena documentaria, del montaggio documentale di esperienze filmate e reinventate come mondi. Esperienze di natura etnografica, in alcuni casi; esperienze inscritte nella tradizione del film d’avventura e di esplorazione, in altri. Messa in scena documentaria: nel viaggio verso il diegetico, verso un mondo fatto davvero schermo, il film etnografico ha un suo registro peculiare. Mutua dall’etnografia una competenza, evidenzia, come abbiamo visto la formazione crescente di una ragione del profilmico – sia nei film che nella teoria coeva – assume il dato per comprenderlo senza tuttavia escluderne la costruzione. A differenza di quanto scrive Rancière del documentario, riferendosi però al documentario moderno e contemporaneo,46 il partito preso del reale non è qui un’invenzione drammaturgica nel senso classico, piuttosto una negoziazione drammatica e narrativa peculiare, la cui chiave è il reenactment, le cui condizioni sono il frutto di un commercio complesso di beni, saperi, relazioni situate, occultamenti, travisamenti. L’etnologo filma – filmava – producendo, di fatto, il reale, attraversando il campo di forze di riti e cerimonie, di attività quotidiane, enucleate e rieditate dalle popolazioni native, come vedremo poi nella etnofiction peculiare e misconosciuta di Paul Fejos The Yagua, come accadrà col cinema urbano di Rouch nell’Africa degli anni cinquanta. Pur in assenza di una sceneggiatura il cineasta etnologo delle origini usa la competenza etnografica come script, il taccuino come traccia e tela pro filmica, ridefinendo le condizioni di campo, negoziando tra tecnica e ideologia – la cultura locale – la liminalità possibile dei punti di vista, nel quadro di un paradigma neutrale, oggettivo di restituzione, almeno negli intenti e nelle prescrizioni disciplinari. La fictio, qui nel senso latino di forgiare, comune sia a Geertz47 che a Rancière,48 si traduce nella condizione di produzione etnografica del reale, di relazione tra ciò che descrivo e ciò che invece inscrivo sulla pellicola, tra indici e

diegesi: gli indici come esiti della competenza situata e del profilmico negoziato, la diegesi come tensione e produzione narrativa capace di fare mondi di luoghi e alterità, nei modi del montaggio, nella cadenza e nel contenuto dei cartelli, soprattutto nella coincidenza di sguardo della cinepresa, sguardo dell’etnologo, sguardo dello spettatore nei processi di definizione identificazione.49 La competenza etnografica, in questo senso, opera come la finzione nei confronti della messa in scena nei termini di Aumont,50 di una finzione documentaria peculiare consapevole degli eventi. Quando Rouch, negli anni sessanta e settanta, filmerà il ciclo del Sigui, oggetto degli studi di Griaule e Dieterlen, il rito cosmologico sarà filmato usando l’etnografia di Griaule, come script durante le riprese, come commento extradiegetico nel montaggio finale. I film canadesi utilizzati come oggetti esemplari di questioni di pratica come di teoria del cinema etnografico mostrano puntualmente questi dati e approcci. Dal regista George Hunt – etnografo delle spedizioni di Boas, uomo della messa in scena nel film di Curtis (come le foto ci ricordano), interprete presso i nativi di uno script realizzato in lingua inglese e adattato al set di un villaggio funzionale – al filmmaker etnografo Barbeau, regista e autore delle massa in scena del lavoro etnografico, ovvero della messa in scena di se stesso al lavoro. Come leggere poi i materiali di Boas se non come una regia etnografica, una messa in scena etnologica, sia pure a fini di studio, con l’interpretazione dei suoi informatori etnografi, primo tra tutti ancora Hunt? Processi di veridizione, di diegetizzazione, di re-enactment, di casting negoziato, sono all’opera nei film etnografici: bisogna verificarli. Nanook of the North lavora a partire da una sceneggiatura discussa e illustrata ai cacciatori inuit, come mostra il diario di Flaherty, uno script in forma di to do list, un viaggio verbale tra deontico e deittici, esito di una lunga frequentazione tra ghiacci e popolazioni locali. Moana è l’esito di frequentazioni letterarie di Flaherty e di una condizione di set come costruzione del field. Persino i due film di Schoedsak e Cooper, pur votati e prodotti nel segno dello spettacolo, evidenziano procedimenti simili ai canoni etnografici; soprattutto Chang, pur ereditando la tradizione del film d’avventura, e pur essendo frutto di compromessi ideativi e produttivi affatto diversi. Elementi che li differenziano sia dai film etnografici sia dai due di Flaherty. Sulle tracce del vero, sulle tracce dell’alterità come manifestazione di una verità diversa, da salvare o rieditare, i film etnografici processano realtà e reale, elicitano e presentano dati, descrivono e iscrivono, mettono in scena la teoria etnologica e la teoria del cinema, in nome del record come del montaggio, tracciano per noi la tettonica del Cinema 1 e 2 secondo Régnault: i due continenti, uno dei quali di dimensioni modeste, ma da cui prenderà forma il documentario, scivolano l’uno sull’altro producendo frizioni e generando faglie. Così come il neorealismo, in una recente lettura di Francesco Casetti,51 l’etnografia delle origini presenta forme di reflexive indexicality, pur rovesciando il segno di alcune cues come delineate ancora da Casetti: la capacità di cogliere il reale, la visione contestuale di modernità e forme del primitivo nei film di Harlan Smith, la capacità di farsi testimone del reale come della realtà – riti e culture che svaniscono, cerimonie tradizionali, tracce ibridate di spettacolo e tradizione, restituzioni di turisti e altri sguardi nell’intento di fotografare reperti e rituali, come nei film di Flaherty, di Barbeau e MacMillan, di Smith. Infine, rovesciando qui il proposal teorico di Casetti, la produzione di una nuova forma di mediazione sin nel casting, dove informatori etnografi diventano, talvolta, interpreti autorevoli della tradizione stessa, attori sociali peculiari della drammaturgia originale dell’indessicale che il film etnografico estremizza e che culmina nella

coincidenza di antropologo e film maker. Indici di veridizione incarnata, occultata. Ma rivelata dalla competenza situata delle azioni, da gesti che si fanno interpretazioni, come nei film di Flaherty e Boas. L’Actor Studio dopo il neorealismo, insomma. Il vero si esplicita così come prodotto di realtà e reale, come fictio necessaria, nella pratica disciplinare di un antropologia delle origini attestata sulla soglia dell’altro con in mano i tools della modernità, fotografia e cinema, divenuti frattanto medium della stessa. Il mondo dell’alterità si costituiva, diegeticamente, al cospetto dei mondi esotici e avventurosi di Hollywood. Al cospetto dei mondi di generi che, inevitabilmente, influenzavano i materiali educational come i materiali museali, destinati comunque a circuiti dell’audience. Documenti agiti, i film si tracciavano come documenti in azione: nella finzione utile del record, capace di connettere realtà e visione, in termini esistenziali, quasi; nella rappresentazione filmica, avviata, nei film museali canadesi e in Flaherty, alla costruzione di un mondo verosimile dell’alterità, qualificato dalle convenzioni temporali e del montaggio coeve; nell’enunciazione di una cornice di veridizione di un cartello, di una futura voce off, di un protagonista narratore, di un testo esperto scritto da un etnografo e recitato e letto nello spazio extradiegetico dell’autorevolezza, come accadrà nei film di Mead e Bateson, per la voce dell’antropologa americana. Come avverrà infine nello spazio della comunità degli scholar, di antropologi in formazione, di frequentatori di musei e lecture, le cui glosse costituiranno il capitale di fiducia del discorso etnografico come displaying del vero, nella legittimazione e autorizzazione delle immagini filmiche come forma di restituzione etnografica sussidiaria seppure irrisolta. Come avviene nel riuso complesso, vero e proprio processo di re-enactment culturale, di appropriazione, dei film e dei documenti visivi, nel segno di nuove forme di encoding e decoding del passato da parte delle comunità indiane eredi di quel passato. Così può accadere che sequenze di In the Land of Head Hunters di Curtis, oggetto di aspra critica da parte della ricerca etnologica, divengano parte di un progetto di memoria culturale, la trama a supporto di una storia, quando nel 1992 all’American Museum of Natural History durante la “Chiefly Feasts: The Enduring Kwakiutl Potlatch”, presso lo U’mista Cultural Center e il Quadra Island Kwakiutl Museum (due musei nativi della costa del nordovest) le scene della danza e delle canoe riappaiono commentate dai discendenti degli indiani filmati, memoria della magnificenza della cultura originale di quei luoghi e popoli.52 The pattern which connects, nei termini di Bateson. Oppure: pratiche di bricolage e contestualizzazione, forme di mnemotecnica culturale.

NOTE 1 Foucault 1971 (tr. it., p. 44-45). 2 Tepper 1991.

3 Morris 1994, p. 42.

4 Essenziali per questa ricostruzione i contributi in volume di Holm-Quimby 1980; Morris

1994, pp. 39-77, per la ricostruzione del contesto istituzionale delle ricerche etnografiche e delle produzioni di materiali filmici e fotografici; Gidley, 1998, pp. 231-256, per la ricostruzione della relazione complessa con foto e film di Curtis e dell’uso di entrambi nelle lecture e negli spettacoli precedenti il film del 1915; Ruby 2000, pp. 55-66, e, più in generale, il lavoro pluriennale dell’autore nell’analisi dei materiali filmici di Boas e della sua ricerca sul movimento, sin dai primi anni ottanta; Griffiths 2002, pp. 236-248; Jessup 1999 e, della stessa autrice, Jessup 2007, per una lettura della messa in scena del lavoro etnologico come momento di trasparenza del progetto di salvage. Vedi poi Wakeham 2004, capp. 2 e 3, per la

discussione critica e teorica del restauro del film di Curtis e di Saving the Sagas / Nass River Indians come forma di sovranità, o di neoautorità etnografica. Sulla tradizione della ricerca nell’area della British Columbia cfr. Gmelich 2008 e Jacknis 1984, per la ricostruzione del contributo di Boas alla fotografia antropologica e al suo uso scientifico. Sulla figura di George Hunt, si veda ancora Jacknis 1992, nel fondamentale volume curato da Edwards, decisivo ai fini della lettura del lavoro sulla fotografia di tradizione etnografica nell’area del nordovest. 5 Tobing Rony 1996, pp. 77-127. 6 Wakeham 2004. 7 Gidley 1998, pp 234-237. 8 Ibid., pp. 199-217.

9 Lindsay 1916 (tr. it., p. 106). 10 Holm-Quimby 1980, p. 45. 11 Tobing Rony 1996, p. 98.

12 Cfr. Gmelich 2008, p. 48. Boas era fortemente critico nei confronti del progetto fotografico

di Curtis “The North American Indian, 1907-1930”, al punto da scrivere all’allora presidente Roosevelt, stigmatizzandolo. Un comitato, insediato appositamente, approvò invece il progetto, a testimonianza della visione romantica di parte dell’antropologia accademica di quegli anni. Se il lavoro filmico di Curtis è noto ed è oggetto di attenzione teorica da parte di Lindsay, come di critica serrata da parte di Flaherty – critica che non assume forma pubblica e di cui si ha traccia dal diario della moglie –, tuttavia la sua fortuna pubblica e la sua influenza sulla ricerca di campo nell’area del nordovest americano è cruciale, grazie ai volumi etnografici pubblicati, e soprattutto all’immenso lavoro fotografico, testi che contribuiscono alla formazione dell’immaginario americano degli indiani d’America. Sull’argomento vedi sia il citato lavoro di Gidley 1998, che, a cura dello stesso autore, l’antologia di testi di Curtis 2003. Sul rapporto tra Boas e Hunt e sulle critiche a Curtis vedi anche la lettera a F. Boas (4 maggio e 7 giugno 1920) citata in Jacknis 1992, ora in Ricci 2009, p. 58. 13 Vedi soprattutto l’introduzione del volume di Holm-Quimby 1980, p. 45. Per una critica dei criteri di restauro come ricostruzione e declinazione del concetto di autorità etnografica vedi Wakeham 2004. L’autorità etnografica del restauratore, talvolta del restauratore antropologo, come nel caso di Holm per Curtis, recupera la funzione e la forma grafica della ragione, affidando alla scrittura la certezza del testo e delle immagini. Si fa didascalia e certificato del visto, attraverso un intervento di riscrittura dei cartigli che, di fatto, orienta il testo verso letture più accomodanti. Osservazioni importanti sulla natura del progetto si trovano poi in Morris 1994, pp. 39-45, e ancora in Tobing Rony 1996, pp. 95-99. 14 Thom 2001. 15 Morris 1994, p. 66. 16 Ibid., p. 69. 17 Vedi i film prodotti da James White nel 1897 e distribuiti dalla Edison nel 1898, in Musser 1997. 18 Grierson 1998, pp. 69-152. 19 Casetti 2005.

20 Jessup 1999, pp. 49-86. 21 Jessup 1992.

22 Morris 1998, pp. 56-66, e Ruby 1981. Vedi, dello stesso autore, Ruby 2000, pp. 55-66. 23 Boas 1911 (tr. it., cap. 4). Vedi anche Cardona 1976, pp. 10-15.

24 Vedi Boas 1934; Sapir 1929, ora in Sapir 1949. Cfr. Cardona 1976, pp. 43-46 e pp. 53-56,

e, per una rilettura critica dell’ipotesi Sapir-Whorf e della genesi boasiana della stessa, Lucy 1992, cap. 1-3. 25 Ruby 1982, pp. 25-38; Ruby 2000, pp. 72-83. 26 Morris 1998, p. 59. 27 Griffiths 2002, pp. 294-304. 28 Goddard 1915, pp. 185-187.

29 Hilton-Simpson - Haeseler 1925, pp. 326-327. 30 Régnault 1922, pp. 61-65.

31 de Font Réaulx - Lefebvre - Mannoni 2006. Vedi soprattutto Braun 2006. 32 Tobing Rony 1996. Rimando anche a Marabello 2011d. 33 Wittgenstein 1956 (tr. it., V, 3). 34 Geertz 1973 (tr. it., pp. 9-30). 35 Ruby 2000, p. 243.

36 Geertz 1973, pp. 21-22. 37 Ibid., p. 30.

38 Cfr. Diego Marconi, introduzione all’edizione italiana di Wittgenstein 1989. 39 Wittgenstein 1967.

40 Wittgenstein 1989 (tr. it., p. 77). 41 Ibid. (tr. it., p. 88).

42 Wittgenstein 1967, p. 9e.

43 Chauviré 2004, pp. 107-119 (cfr. ibid., pp. 21-39). La posizione della Chauviré differisce

sensibilmente dalla posizione di Kripke della community view di tipo scettico. Vedi anche J. Bouveresse, “Wittgenstein antropologo”, in Wittgenstein 1975, pp. 59-90. 44 Wittgenstein 1998 (tr. it., p. 71). 45 Geertz 1973, p. 29. 46 Rancière 2001 (tr. it., pp. 212-213). 47 Geertz 1973, p 21. 48 Rancière 2001, pp. 212-213. 49 Cfr. Burch 1991 (tr. it., pp. 211-217). 50 Aumont 2010, pp. 127-133 e 169-171, e Casetti 2011 (letto in bozza). 51 Casetti 2011.

52

Tobing Rony 1996, p. 98; Clifford 1997 (il capitolo intitolato nell’edizione italiana “Quattro musei sulla costa del nordovest”).

3 LA SCIENZA DEL PITTORESCO Mirriam-Webster Online Definition of PICTURESQUE 1 a: resembling a picture : suggesting a painted scene b: charming or quaint in appearance 2 : evoking mental images : vivid — pic·tur·esque·ly adverb — pic·tur·esque·ness noun Examples of PICTURESQUE 1. The view of the mountains was very picturesque. 2. Origin of PICTURESQUE French & Italian; French pittoresque, from Italian pittoresco, from pittore painter, from Latin pictor, from pingere First Known Use: 1703 Related to PICTURESQUE Synonyms: delineated, pictorial, graphic, visual, vivid Related Words: depicted, descriptive, expressive; concrete, explicit, specific; faithful, lifelike, natural, photographic, realistic; fresh, incisive, sharp

3.1. Corpi da Studio 3.1.1 Cinematismi primitivi Ecco, li vediamo, da lontano nell’inquadratura, ma sufficientemente da vicino, da una buona prossimità, una discreta messa a fuoco. Tuttavia da lontano, dall’oggi in cui siamo. Eccoli, lì, dove ancora sono, autentici nativi, dai modi e dai costumi peculiari, dai corpi dipinti di insegne di guerra, nella recita e nella danza di un rituale bellico; o, piuttosto nello

spettacolo rituale del bellico. 24 settembre del 1894, Black Maria Edison Studio: dinanzi all’obiettivo della macchina da presa si muove, scena del corpo che danza, performance della danza stessa, un gruppo di indiani d’America, membri della tribù dei Sioux. Due film sono girati nella stessa giornata: Sioux Ghost Dance e Buffalo Dance. Impressionati da una pellicola 35mm, alla velocità di 20 fotogrammi al secondo (fps), i nativi del Nordamerica diventano immagini in movimento, il cinema li filma, li restituisce come reale: corpi vivi, gesti, sguardi rivolti alla camera. Certo, il reale viaggia a velocità diverse alle origini del cinema e nelle sue diverse pratiche: diciotto fotogrammi al secondo, venti fotogrammi al secondo, ventiquattro fotogrammi al secondo; l’occhio, intanto e storicamente, ri-costruisce la mimesi necessaria, si costituisce come condizione dell’analogon: la percezione, oltre che natura – letteralmente fisiologia – è cultura. Le immagini sembrano qui comunque reali, mimeticamente vere: vivono. Il movimento è catturato, riprodotto: capted, re-produced. Lessico insidioso e già netto, campo semantico tracciato di shooting, caption – spazio tecnico di rifles e fusils speciali, nel linguaggio e nelle pratiche scientifiche di Muybribge, Marey. Intanto sulla scena del Black Maria Studio di Edison, dei nativi indiani danzano dinanzi alla macchina da presa: il cameraman di questo incontro ravvicinato del terzo tipo, di questo incontro nella forma primitiva dell’immagine movimento, è William Heise, i nativi sono dei performer del Buffalo Bill Wild West Show. Attori quindi, attori abituati alla scena dal vivo, corpi dell’epopea del west, protagonisti dello spettacolo della storia, della storia fatta spettacolo: verbi e carne di un etnoshow. I due film, rispettivamente di ventuno e quindici secondi, registrano, dinanzi all’ottica fissa della camera 35mm, il frammento di una danza: scena primaria del primitivo, prodotta nello spazio di una prospettiva semplice ed elementare, nella tradizione dello sguardo assiologico postrinascimentale. Assiografia qui semplice e pittorica del picturesque: i corpi si muovono circolarmente: due bambini appaiono insieme ad adulti maschi. Tra i danzatori adulti alcuni sguardi si producono verso la macchina – si proiettano verso di essa. Nascita dello sguardo in macchina, nascita di una pratica che il cinema di finzione denuncerà, scoraggerà, interdirà, e che, nel cinema etnografico, sembra invece saldare il tempo e il luogo della restituzione, sembra salvare la rappresentazione stessa assegnandola alla retorica del vero nella potenza dell’indice peirciano: forma primitiva di un dialogo, firma primitiva della presenza dinanzi all’obiettivo, istanza di realtà. Corpo vivo, attraverso lo sguardo, del documento. Sutura tra noi e loro grazie allo sguardo ottico. I corpi dei Sioux sono corpi di attori: sono primitivi, nativi, attori. Questi corpi e questi sguardi hanno – almeno in Buffalo Dance – dei nomi propri, il diritto al nome proprio, almeno nel catalogo commerciale Edison: Last Horse, Parts his Hair, Hair Coat.1 Nomi in inglese, ovviamente, nomi Sioux probabilmente tradotti, o nomi d’arte – questo non è dato saperlo. C’è una traccia che li fa individui, almeno attori, nel senso del cinema evidentemente, non nell’accezione delle scienze sociali. Tuttavia, essi sono comunque tali, attori della scena del primo contatto, di una scena di contatto che, attraverso la pratica filmica primitiva, restituisce la forma visibile dell’otherness, la firma visibile dei corpi di un’alterità, di una pratica di questa otherness: una danza rituale, o la memoria di una danza rituale spettacolarizzata, un frammento di essa, il segno fisico e vivo, nel movimento, di un’alterità. Corpo vivo e metaforico della wilderness, corpo vivo e metonimico della wilderness: il primitivo insomma, e, retoricamente, in essenza. Nella sineddoche del movimento o di un’insegna tribale. L’inquadratura è fissa, frutto della tecnica dell’epoca: ottica fissa, luci elementari. Riecco la tradizione prospettica – scena dello studio,

del palco teatrale: la prima scena filmica è un teatro primario dell’otherness, una camera oscura, un teatro ottico dell’evento. “A very interesting subject full of action, and true to life”, recita una nota tratta dalla Raff and Gammon Price List, la società che commercializzava i film. “One of the most peculiar customs of the Sioux Tribe is here shown, the dancers being genuine Sioux Indian, in full war paint and war customs”, così recita la sinossi commerciale e promozionale dal catalogo Edison. Full of action, true to life, due proposizioni come indicatori di condizione e di azione, due proposal per buyer, e poi: genuine, peculiar, aggettivi a qualificare e definire, scoprire e annunciare l’autentico; e quindi war customs, war paint: nomi di cose, indicatori di stato, precondizione di un’azione, di una visione dell’azione, a disegnare una réclame, un’enunciazione performativa. Così, ecco, li vediamo, ancora da lontano, nell’inquadratura, ma sufficientemente da vicino, da lontano, dall’oggi in cui siamo. Eccoli allora, i Sioux, eco, lì, della memoria reinventata, della tradizione rivissuta, re-citati nella cifra dell’epopea ricostituita e inscenata dalla conquista del west. Nel pozzetto ottico di un Kinetoscope, alla fine dell’Ottocento, oggi nella bacheca digitale online della Library of Congress, Motion Picture Department. Riscrittura pop della storia, scrittura dei vinti e dei vincitori, battaglia definitivamente vinta attraverso e grazie allo spettacolo. Certezza della storia stessa vista e vissuta attraverso la sua popolarizzazione, sulla scena elementare del tempo storico, come traccia etnografica dell’altro, cinegrafia del suo corpo e del rito indiano, della sua danza di guerra come vestigia, ornamento della vista del vincitore. Rito neutralizzato, e irretito dallo spettacolo, dall’economia spettacolare. Sipario sulla Storia. Accesso della finzione: 1895, la principessa Pocahontas salverà il capitano John Smith dinanzi alla camera di William Heise, nei laboratori Edison a West Orange, New Jersey. La mitografia del contatto trova qui il primo reenactment filmato.2 Nell’arco di pochi anni, nel 1897, con James White producer, la Edison filma, on location, immagini di danze indiane a Ignacio, Colo, nella riserva indiana Ute. Due film ci presentano la Circle Dance e la Buck dance, sullo sfondo di un villaggio tradizionale, nella vista a distanza di un sistema di colline: il contesto designa lo spazio come nativo, la danza sembra sottrarsi allo spettacolo. Insieme con le scene di danza la cinepresa di Blechbynden registra due nuove scene: due film dove la cerimonia del vincitore sussume la verità storica degli eventi. Si tratta delle consegne di razioni quindicinali di cibo che il governo americano e i commissari destinano alle popolazioni indiane. Dinanzi alla mdp si presentano le donne al ricevimento del cibo, in una scena di fuga dall’obiettivo da parte degli indiani, mentre animali domestici attraversano l’accampamento, scene oggetto di commento nei cataloghi Edison, commento ironico e razzista sul timore dei primi di essere filmati, sulla confusione del campo così pieno di bestie.3 Gli americani, nel 1898, vedranno i film di White come il resoconto filmato di un viaggio, un travelogue a puntate segnato da ferrovie, festival del folklore indiano, cronache della nazione nello spazio del west. Film on location, di contenuto anche etnografico. Non si tratta di field, com’è evidente: si tratta piuttosto di spazi originali del picturesque da inventare e filmare, di nuovi panorami, di life group in movimento da archiviare in forma spettacolare nel presente del kinetoscope e nel futuro possibile dello schermo, di ereditare e trasformare temi da etnoshow e musei, e di accostarli al pubblico in dispositivi originali di entertainment. Che i film realizzati nel 1901 a Wolpi in Arizona tracceranno ulteriormente, restituendoci in Moki Snake Dance, una volta di più il play indiano come esito di una negoziazione spettacolare che la presenza di turisti conferma, che il punto

di vista di ripresa, dall’alto, riproduce parzialmente, ponendosi accanto alla seduta dei presenti. La danza si produce come spettacolo, come appunto Warburg la fotografa e osserva nel 1896 a Oraibi,4 nella differenza qui di una visione segnata dal totale, segnata dallo spazio cinematografico del totale, come enunciazione del profilmico e come memoria turistica collettiva dell’esperienza. Nel segno dell’intrattenimento come indessicalità esibita, al di là di indici di posture o tracce di costumi e culture.5 Lo spettacolo è qui la cifra della produzione di senso, cifra esaltata dal tratto etnografico, dalla messa in scena del nativo come tensione verso il primitivo, in un traiettoria che lungo la vera route della ferrovia panamericana, intercetta o esalta il paesaggio di istanza progressive e restituzioni retoriche dell’arcaico. Il salvage spettacolare alimenta e carbura il futuro della nazione, la sua costruzione popolare attraverso i nuovi media. Alla ricerca di nuove roots per il paese.

3.1.2 Cuori neri per l’Europa 17 aprile 1897 – 20 luglio 1897, Lione, Cours du Midi (“juste à l’endroit des exhibitions foraines”): un villaggio Ashanti nella Francia fin de siècle, grazie all’abilità e alla volontà di monsieur Gravier, ancien mécanicien de la marine française, ricco commerciante del Congo, ha preso qui forma e vita. I lionesi, già affascinati dall’esposizione coloniale di tre anni prima, si affollano, spettatori paganti, alla vista del villaggio, ispirati da uno spettacolo interessante e istruttivo: la vita in diretta di un villaggio africano, di un villaggio di un’etnia forte e fiera, gli Ashanti, capaci di lottare e resistere con orgoglio e onore alle legioni inglesi nella prima meta dell’Ottocento. “Duecento neri popolano il villaggio, si lavano due volte al giorno, la moralità e la proprietà albergano nel villaggio.” “Essi troverebbero offensivo che li si tratti come selvaggi.” “Sono fisicamente belli, e la loro pelle è color bronzo.” “Dinanzi alle nostre istituzioni e dinanzi ai nostri rappresentanti cittadini, hanno manifestato un sentito rispetto.” “I ragazzini studiano in una scuola diretta da un maestro.” “Non parlano francese, nessuno parla francese, ma si esprimono in diversi dialetti della lingua ga.” “Vanno a piedi nudi.” Queste citazioni sono tratte dai giornali d’epoca: raccontano di un punto di vista tranquillamente eurocentrico e coloniale, raccontano di una pratica spettacolare del tardo Ottocento e dei primi venti anni circa del Novecento, sono l’eco della memoria culturale di zoo humaine, di esibizioni di “selvaggi” nei Jardin d’Acclimatation a Parigi, al Crystal Palace di Londra. Raccontano della storia dello spettacolo etnografico, della costruzione e dell’invenzione di set particolari, etnotopie domestiche, spazi temporanei destinati a farsi luoghi dell’esotico, a raccogliere nell’esotico le forme diverse dei viventi, bestie, animali, animali della specie umana, donne e uomini e bambini e bambine.6 E di etnoshow talvolta elementari, memoria rinascimentale di esibizioni di famiglie o selvaggi, etnoshow talvolta assai più complessi e originali, ambiziosi nel progetto di consumo e spettacolo di forme di

vita. Interi villaggi ricostruiti, interi lacerti di vita quotidiana, forme di vita, forme dell’abitare, esotismi vissuti da vicino, in forma di vista prossima e contigua, di promenade culturale, fiera dell’esotico dove il feticismo dell’utile benjaminiano si informa, primariamente, del feticismo essenzialista dell’altro: altro storico e coloniale qui divenuto altro naturale, qui finalmente epifanizzato e incarnato fantasmatizzato come e in quanto buon selvaggio. Fantasma spettacolare del verbo selvaggio.

3.1.3 Sapere per vedere, vedere per sapere: filmare l’etnovita Dinanzi agli occhi dei lionesi lo spettacolo della vita altra si svolge per circa quattro mesi, trapassando da primavera all’estate. Reality show ante litteram, il villaggio Ashanti modifica temporaneamente lo spazio urbano, attrattiva originale ma non nuova, cortocircuito di natura e cultura, eterotopia urbana inscritta e descritta da un’immaginazione etnotopica, da un’economia del desiderio esotico, sorvegliata dal vigile ethos della ragione pubblica occidentale, amministrata da oculati imprenditori dello sguardo e dello spettacolo, platea di un’economia oculocentrica ed etnocentrica. Lione è una città adusa allo spettacolo dell’occhio, al nuovo che avanza e che nella forma del cinematografo e nella figura dei fratelli Lumière lì si compie. Dal 1895 l’occhio e l’obiettivo proprietario dei Lumière, come acutamente osservato da Noël Burch, hanno già raccontato al mondo, alla città innanzi tutto, frammenti di vita proprietaria – La sortie des usines, le officine Lumière ovviamente; La naissance d’un bébé, bébé Lumière ovviamente – anche se il mondo come spazio filmabile si andrà di li a poco a formare, e fermare comunque nelle pellicole dei due fratelli. Nelle vues, cartoline del mondo e dal mondo, pronte a soddisfare nella vista del movimento l’idea del viaggio come vista, ri-definizione, nell’immagine movimento, della tradizione panoramatica, di cui il cinema si presenterà come erede mobile e originale. Qui, infatti, si formula l’offerta allo spettatore di un nuovo possibile statuto del piacere e del vedere, qui si produce il parto di una fantasmagoria, la nascita di un soggetto ubiquitario:7 nello scopico il viaggio si fa oltre e prima che scopo, segno, meglio complesso di segni in una serie di immagini. Il villaggio Ashanti è l’occasione per i Lumière dell’incontro con l’altro, del film dell’altro: dodici film di vita quotidiana, soi-disant, dodici tranche de vie da un minuto circa, dodici esperimenti di sguardo positivista e spettacolare sull’altro: resoconti apparentemente realistici – il cinema, del resto, non registra ciò che accade? – resoconti di uno sguardo bienveillant, moralmente apparentemente neutro, distaccato, felice di confrontarsi semplicemente con l’otherness come vita, la vita-che-si-dà-e-che-avviene, l’everyday life. Quale, allora, il regime storico dello sguardo di cui rintracciamo i segni, di cui leggiamo la necessità, o semplicemente l’opportunità, quella contingenza che certamente non è poi così casuale, il tempo nell’inquadratura invece che l’inquadratura – l’immagine – nel tempo? Quali confini mobili tra tecnica primitiva e ideologia del primitivo si possono disegnare, cartografare dai pochi minuti di materiale girato, tra la primavera e l’estate di Lione nel 1897, nell’artificio di un villaggio Ashanti accanto al Cours du Midi, nella curiosa e leggiadra distopia di un’Africa così vicina e così lontana? In nome di quale reale, inevitabilmente lacaniano, ci parlano quelle immagini? Quale antropologia realizzano e popolarizzano? Ecco allora il defilé della tribù, lo sfilare di essa, in campo lungo, mentre un uomo attraversa lo spazio dell’obiettivo; l’intorno di case borghesi, intravisto, sovrasta il villaggio Ashanti; uno sguardo in macchina

manifesta la non finzione del filmage, detta al film la sua natura di registrazione, mentre la tribù sfila ancora. Nello sfilare della tribù, in questo presentarsi spettacolare, la sfilata rimane ancora la traccia di un oggetto etnosemiotico,8 nel senso di Greimas, o piuttosto si riconfigura, ancora una volta, nella necessità spettacolare della prise de vue, nell’abitudine esotica eppure tradizionale di estetizzazione del diverso, pur nella novità tecnica della restituzione esemplare del movimento? Innanzi tutto l’immagine in movimento ci restituisce appunto una eterotopia paradossale, etnicizzata, una deriva spettacolare dello spazio locale: anche se il frammento restituisce parzialmente, nel disegno dello spazio, e nella processione dei partecipanti, la memoria sia simbolica che politica di una assiologia, di una sovranità acconsentita e registrata dalle immagini – il capovillaggio, i dignitari in sequenza – certo si tratta comunque, al di qua del film, nel prefilmico del politico e dello spettacolo, di una messa in scena, di un set, di un dispositivo narrativo. Di una macchina spettacolare del pensiero e delle istituzioni coloniali.9 La lista dei film, infatti, la lista delle prise de vues, rassegna un progetto di ricostituzione del quotidiano all’insegna del pittoresco dove l’eccezione spettacolare, la danza, si offre come pratica performativa del quotidiano primitivo, tempo in cui il corpo selvaggio, e quindi prossimo alla natura e da essa emergente, si fa movimento sublimato e originario, degno di essere filmato e registrato. I titoli quindi rassegnano l’ideologia e il caso di un progetto, intersezione di pratiche spettacolari stabilite – gli etnoshow – e pratiche spettacolari in statu nascenti – il cinematografo – qui praticato come memoria del dato, esitato, di fatto come restituzione del reale e del suo accadere, nel tempo, in quanto movimento, del suo accadere al tempo stesso, perché movimento figurabile e riproducibile Les Répas du Bebé, La Toilette des Negrillons, La Corvée des negres, La récreation des negrillons, Le Répas des Negrillons, L’Ecole des Negrillons, La Baignade des negres, La danse du Fétichèu, La danse du sabre, La Danse des Homme, Leçon de Danse, La Danse des Femmes, La danse de Jeune Filles: lista di titoli pensata da chi guarda e per chi, come noi, nel nostro medesimo regime storico dello sguardo, guarda – “ce que nous voyons, ce que nous regarde”, come direbbe Didi-Hubermann, quella storicità del vedere che le immagini rassegnano e disegnano, la storicità stessa dell’altro come prodotto contingente e puntuale della storicità del soggetto che vede, scrive, lo produce, ne scrive, lo filma, lo autorizza, autor-izzandosi, nel mentre. Non ci si può quindi stupire che i Lumiére filmino un quotidiano fatto di toilette di bambini neri – Les toilette des negrillons; che, nella deriva dello sguardo esotizzante, il bagno collettivo dei neri sia oggetto di sguardo e vista da parte di un umanità occidentale la cui storia sanitaria e igienista è storicamente incerta, ma che del nero e nel nero produce metaforicamente e metonimicamente il male, lo sporco, l’ignoto, la paura, la fine. E del resto l’atto di lavare i bambini sarà oggetto, nell’ipotesi di una costruzione scientifica delle culture altre, di altri sguardi e altri approcci, di una storia della visual knowledge come ipotesi e pratica di campo, nel processo forse più ambizioso di conoscenza visiva che l’antropologia ha impalcato, la ricerca di Gregory Bateson e di Margaret Mead nella cultura balinese. Ma, intanto, siamo ancora a Lione, 1897, in un villaggio Ashanti, più, o meno, ricostruito, nel quadro bienveillant di immagini – affezione, nel senso di Deleuze, di registrazioni dell’evento come piccolo pathos. Il cinema, a guardia dello show, produce un patema leggero di natura e cultura, il dispositivo, per l’occhio benpensante, di una macchina comparativa elementare, di una pratica, nelle viste, di un noi-loro, in cui cominciare a inscrivere il diverso, a declinare i casi del suo comportamento nella coppia simile dissimile. A

coniugare, nell’immagine-movimento, il piacere della lettura – la vita e il cinema come analogon – e la possibilità dell’esperienza – il cinema, di lì a poco, come luogo dello stupore del vero e della conoscenza del vero – le vues come actualités. Panorami di storia. Panorami di presente. Nella lista dei titoli e dei film, la danza è oggetto ripetuto di immagini filmate, di attenzioni filmate: danze di stregoni, danza di donne e di ragazze, danze rituali, frammenti di esse, più precisamente: nell’impossibilità storica del montaggio, nella necessità tecnica di far coincidere la prise de vue con lo chassis, le inquadrature, in campo lungo, nel tentativo di racchiudere una porzione più ampia di realtà, si confrontano frontalmente con l’oggetto, col corpo, o coi corpi che danzano. Nulla è più intessuto di movimento come il corpo che danza, nulla si offre come rischio e sfida per il cameraman del cinema nascente. Filmare il corpo che danza, fermare i suoi movimenti sulla pellicola, restituire per sempre l’epifania di un gesto, il movimento di una mano, la posizione di un piede, il definirsi delle traiettorie come figure e passi, come geometria possibile, grazie al cinema, di una postura, geometrizzazione futura della memoria culturale, della trasmissione della danza stessa. Ecco il progetto. E d’altronde, è nella danza, che il corpo primitivo, altro, selvaggio, il corpo della otherness e come otherness, si manifesta come luogo di presenza del molteplice, corpo di una tradizione e di una traduzione di segni, gesti e riti, corpo della presenza rituale del divino, corpo posseduto e spossessato, traducibile dalla natura alla cultura e viceversa. Così il cinema delle origini sfida la danza e il corpo come soglia della nuova verità spettacolare della ripresa del movimento, come soglia di una riproduzione analogica del reale, traccia formale e patemica del ritmo. Alla ricerca del pathos plastico, in attesa del suono. Così pure l’antropologia scientifica delle origini sfida se stessa nella soglia e nella cornice della registrazione: la danza diviene oggetto ideale di questa sfida, epifania del rito, spettacolo della cultura, oggetto di salvage cinematografico in quanto movimento insequenziabile nella fotografia delle origini, come vedremo con Alfred Haddon a Torres Straits, nel 1898.

3.1.4 Parchi giochi esquimesi 1901, da maggio a settembre, a Buffalo, Stato di New York, ecco la Pan American Exposition, ovvero le magnifiche sorti e progressive dell’Unione. Trama del moderno, le grandi esposizioni fantasmatizzano il nuovo e il suo desiderio, fiere del tempo del progresso, catalogo di segni e forme di vita che il paese usa come uno specchio dove i suoi abitanti, a frotte, cercano, ciascuno, il riflesso del proprio futuro, la mappa dell’avvenire come frontiera di spazio e tempo, soglia e confine da superare. I punti cardinali del paese sono come le geometrie di un rito di passaggio collettivo ed elementare: terre da scoprire e città ancora da fondare, nuove risorse da esplorare e sfruttare. Magnificenze temporanee e macchine fantasmagoriche, illuminate da giochi elettrici di luce, le Esposizioni sono le utopie concrete del moderno, utopie edificabili e smontabili, strutture mitografiche, dove i grandi racconti dei due secoli passati della storia americana assumono o la forma limite dello spazio urbano, o deformano lo stesso nella pratica di un displaying di meraviglie. Quinte praticabili che il cinema e Hollywood, di lì a poco, smaterializzerà ulteriormente, assottigliando muri e inventando paesaggi, orientando la narrazione verso landscape della memoria – il western – interior borghesi, e popolari, luoghi dell’immaginario urbano e del moderno, e sopratutto altri luoghi lontani del mondo: ghiacci eterni e polinesie dell’anima con Flaherty, mondi dimenticati

e inventati con Cooper e Schoedsack. Ma mondi simili – o parzialmente assimilabili – sono anche i mondi della nascente antropologia americana, dalla Baffinland di Boas, ai pueblo hopi di Kroeber, di Ruth Benedict, traiettorie di indagine, ricorsi spaziali: il grande nord, i rituali indiani verso il sud degli Stati Uniti. Ecco il cross-exchange tra pop culture e accademia, trame di spettacolo etnografico e di competenza etnologica nascente, strategia del pittoresco, del segno espressivo, che nel mondo nascente delle immagini in movimento, incroceranno Boas e Schoedsack, Flaherty e Curtis. A Buffalo, nel 1901, nell’Esposizione panamericana, fa la sua entrata in scena, nella scena del cinema, un villaggio di esquimesi, di Inuit, edificato per l’occasione: falsi igloo, veri o falsi Inuit alla guida di slitte trainate da cani, una superficie ghiacciata come memoria solida del pack, abiti utili ad affrontare o suggerire le temperature polari. Tre film Edison ci restituiscono la memoria cinematografica di quell’evento. Le inquadrature di Edwin Porter sono in campo lungo: i tre film sono dei semplici piani sequenza, raccontano di un’attrazione speciale all’interno di uno spazio fantastico, nella trama di una Coney Island più grande, di un lunapark del mondo e dell’America. Il villaggio inuit, come il villaggio spagnolo, o il villaggio giapponese, sono un frammento di questo nuovo mondo artificiale, di questa grande sineddoche di muratura e legno, l’Esposizione, che per cinque mesi popolerà l’immaginario americano, le sue retoriche popolari, e nella cui visita perderà la vita, assassinato, l’allora presidente McKinley. Tuttavia il villaggio eskimo, ricordiamolo, è comunque, per un nordamericano, il villaggio dei nostri vicini primitivi, o almeno, e quantomeno, selvaggi. I tre film sono l’esito di un’unica inquadratura. Nella loro fissità solennizzano l’evento, ma il sublime è per così dire necessitato dal tecnico: non è l’oggetto che determina una scelta di ripresa, quanto le possibilità di ripresa che impongono una grammatica la cui essenzialità sembra paradossale a fronte dei soggetti filmati, schema della captazione del cinema delle origini, nella definizione di Gaudreault e Kessler. Esquimaux village (0,51 secondi a 15 fps) ci mostra una gara di slitte, una slitta che si allontana, che viaggia veloce verso un nord dell’occhio ancora da esplorare. Esquimo Game of the Snap Whip (21 secondi a 20 fps) filma alcuni esquimesi in campo lungo mentre si esercitano nell’uso della frusta: un corpo attraversa lo spazio e guarda in macchina, una tenda simile a un tepee rimane in campo lungo, manufatto di pelli di animali, mentre i due ai lati, un uomo e una donna quasi sullo stesso asse, guardano verso la macchina da presa. Esquimaux and the Leap Frog (48 secondi a 15 fps) mette in scena un salto alla cavallina di un gruppo di esquimesi, di cui un catalogo d’epoca sottolinea l’apparente particolarità di questo gioco, meglio la differenza di questa versione del gioco dalle forme civilizzate in cui viene praticato altrove. Piccolo esercizio di sguardo a distanza e di comparazione, di verifica di una diversità semplice e minima nella pratica ludica. Esercizio di studio di un’attrazione, di un’etnia vista come netta e puntuale manifestazione dell’otherness. Diverso che abita qui nelle terre del nord, nell’Alaska della corsa all’oro e alle risorse petrolifere, diverso che, in quanto nativo, è comunque già americano: qui la diversità è storicamente e geograficamente peculiare, come poi sarà per Lévi-Strauss in Brasile, nelle sue prime esperienze di campo, verso etnie interne al paese che lo ospitava e la cui modernità, nel brulicare di edifici e grattacieli a São Paulo negli anni trenta, gli ricordava gli Stati Uniti d’America. L’otherness indiana e amerindia sarà ovviamente segnata da questo inner space geografico, dalla localizzazione; il field, per un antropologo americano, sarà, alle origini della disciplina negli

Usa, un’esperienza storica unica di riconsiderazione del proprio colonialismo, esperienza di antropologi spesso migranti, o figli di migranti. Le immagini cinematografiche ci situano nuovamente dinanzi all’invenzione di un set come invenzione dell’altro, come premessa alla sua invenzione-reinvenzione: le prime immagini filmate dell’otherness si inscrivono nella contingenza tecnica del cinema delle origini e nella scelta casuale dei soggetti. Ma, sottesa a questa necessaria casualità, la grammatica elementare del cinema primitivo costituisce alcuni item o pattern figurativi cui ancorare prassi future di messa in scena, meglio da cui costituire e formare una tradizione visiva, se non la tradizione. Lo sguardo in macchina sembra definirsi da subito come lo stigma possibile, il certificato stilistico della verità dell’inquadratura, il balbettio di un dialogo in un cinema senza parole, la traccia di una testimonianza del soggetto filmato nell’atto di una domanda o di una risposta all’obiettivo che lo filma. L’aura dell’indessicalità prende forma. Subito dopo, ecco la danza e il rituale, come sfida di verità della rappresentazione filmica del movimento, elementi che si presentano come oggetti di un challenge; poi gli abiti esotici, le abitazioni, l’abitare seppure qui ricostruito e ibridato nei materiali e dagli spazi – i paradossi ovvi, oggi, di queste etnotopie localizzate e ambientate come teatro delle vite quotidiane dell’altro. Più in generale, si intravede, già in questi frammenti, la primitivizzazione dell’alterity storica, la rifigurazione pittoresca necessaria a questo processo di destoricizzazione dell’altro: il pittoresco stesso si definisce come esigenza del moderno, come costruzione e costituzione del moderno; processo permanente, tra fratture e stati di eccezione, di riscrittura, attraverso la nostalgia, del tempo come alterità. Di rifondazione, attraverso l’invenzione di un passato e grazie alla sua estetizzazione, di una canonica di segni, stili, e quindi oggetti e pratiche, di una topica dell’altro e del diverso, del nuovo e dell’antico, del presente come prodotto della storia, o come rivolta dalla stessa. Forma culturale di naturalizzazione che si orienta e vive accanto alla prospettiva essenzialista del positivismo antropologico. Pittoresco che, peraltro, come regime di senso e resistenza del senso, nel quadro durissimo della storia coloniale, consentirà l’ipotesi stessa del salvage di popoli apparentemente senza storia, o quantomeno testimoni della sua assenza in quanto scrittura. Da cui, e quindi, la sopravvivenza di storie, lingue, culture, altrimenti travolte dalla linearizzazione essenziale dell’idea stessa di futuro, dalle splendide e terribili lossodromie del progresso, rotte magnifiche dell’esotico e del tecnico, tracciabili sulla carta di Mercatore del buonsenso ottimista, rotte che ritornano costantemente sulla scena, tropi, che come boe galleggianti punteggiano le acque infide delle storie stesse. Del resto, si può dare storia che non sia ormai e in qualche forma, etnostoria? E l’historical imagination, nel senso di John e Jean Comaroff, non va forse ripensata etnograficamente?10 Intanto il cinema, così apparentemente e tecnicamente analogon, grazie alle sue immagini, della vita stessa, il cinema, sin dalle sue origini, sembra rapidamente disporsi a restituire, nella forma di una pratica originale dei segni, il catalogo dei tropi dell’altro, un catalogo che il logos della vista tecnica sembra potere, già da subito, riclassificare, e risolvere in un’equazione tra realtà ed esperienza di ordine superiore, insidiando forse il potere stesso della tradizione scritta. O, almeno, disegnando l’orizzonte di questa possibilità, grazie al frame ottico e meccanico di una nuova visione, alla natura scientifica della sua stessa origine. Tuttavia siamo dinanzi, come ha osservato Tobing Rony,11 a una pratica tassidermica e romantica, che emerge, di fatto, sin dalle prime restituzioni filmiche. Lo spettacolo, come istanza pubblica di rappresentazione, e la narrazione, come strategia della produzione di

senso, prendono storicamente posizione. Questi pochissimi frammenti, circa trenta minuti di materiali descritti, rendono subito conto, così chiaramente, dello spettacolo come strategia di identità e di rappresentazione sociale della diversità, della diversità come esibizione spettacolare, come storia e antropologia volgare, elementare di questa stessa esibizione. Nell’immagine in movimento, infatti, la vita stessa, sembra farsi oggetto possibile di questa esibizione. Il cinema, alle sue origini, si fa guardiano di un mondo plurale e articolato di zoo umani, riserve, terre colonizzate: presso di noi, nel field da noi disposto, l’altro, non può che produrre un buon altro. I bambini Ashanti, nel film dei Lumière, frequentano la scuola del villaggio, la proprietà è rispettata, le gerarchie interne ed esterne accettate. Nello specchio dei primitivi, grazie al cinema, possiamo infine rifletterci: essi ci guardano, noi, intanto, filmiamo, ciclopi tecnici, con occhi occidentali e con gli obiettivi di quella techné che registra e archivia e che, dopo la scrittura come scienza, inventerà il fonografo e il cinema, il primo per registrare le ultime parole dei propri cari, come recitava una réclame d’epoca della Edison, il secondo per filmare ciò che scompare e dare ai sogni la forma e il senso di un racconto ad occhi aperti, come scrivevano i teorici delle origini. Skilled vision.

3.2. La scienza nel pittoresco, o la scienza dell’espressivo Che cosa accade se la scienza incrocia il pittoresco e i media incrociano la scienza dell’alterità sul terreno dello spettacolo? Che cosa accade tra musei e cinema, tra mondi di misure e foto di tipi, nel tempo in cui i lifegroups e gli show occupano il terreno delle esibizioni? Siamo alla fine dell’Ottocento, nell’Ottocento americano post guerra civile. Siamo nell’età della comparazione: Come tutti gli stili artistici vengono imitati contemporaneamente, così lo sono tutti i gradi e le specie di moralità, di costumi di culture. Una tale età acquista il suo significato dal fatto che in essa diverse concezioni del mondo, diversi costumi, e diverse culture possono essere paragonati e vissuti gli uni accanto agli altri. […] Questa è l’età della comparazione! E questo è il suo orgoglio; ma giustamente anche la sua sofferenza.12 Siamo nel tempo in cui le alterità, esibite, diventano oggetto di spettacolo, si apprestano al tempo della rimediazione: convivere con immagini riprodotte, suoni registrati, esperire la cultura del salvage nei propri ambiti e luoghi, nelle forme nuove dei musei e nei media della modernità: Si presume che se qualcuno che conosceva nei minimi dettagli la vita degli Eskimo avesse diretto un film come Nanook sarebbero potuti emergere aspetti estremamente interessanti e pittoreschi della vita indigena, che non solo avrebbero migliorato la qualità del film ma lo avrebbero reso più allettante per il grande pubblico se solo un esperto fosse stato consultato […] Oggi è sempre più impellente raccogliere materiale come questo perché ogni anno che passa vede

culture autoctone collassare e sparire sotto l’attacco della civiltà bianca.13

3.2.1. Sul picturesque 1933: la citazione sopra riportata è di Franz Boas che commenta Nanook di Robert Flaherty: l’occhio del fondatore dell’antropologia americana incrocia e attraversa le immagini esquimesi del padre del documentario, dell’inventore del documentario. Occhio skilled, occhio scientifico, occhio aduso alla vita del pack, alla ricchezza e complessità delle lingue e delle culture materiali di quei popoli e luoghi, l’occhio di Boas giudica benignamente l’opera film di Flaherty, perché segno evidente di un’intensa Herzensbildung, ciò che per Boas dà credito e accredita l’uomo, ciò che fa, dell’umano, persona.14 Boas giudica qui l’uomo di cui è noto il coraggio, la sua vita da esploratore, le cui foto e il cui lavoro sono a sua conoscenza già nel 1915, anno in cui la moglie Frances fa visita all’accademico della Columbia esponendogli progetti di future spedizioni del marito, ottenendo incoraggiamento e interesse, senza però alcun coinvolgimento diretto nell’ipotesi di lavoro. Boas è quindi a conoscenza già dal 1915 del progetto di un film sugli Inuit, e tuttavia non vi sono tracce di un suo intervento pubblico negli anni immediatamente successivi all’uscita in sala del film.15 Nell’intento di testimoniare il valore scientifico del film, Pathé ottenne l’uso pubblicitario di una dichiarazione di Ralph Linton, giovane e promettente antropologo allora a Chicago, e destinato a una brillante carriera politico-accademica negli anni trenta e quaranta, dalla quale il film risaltava come una perfetta combinazione di scienza e entertainment. Nelle considerazioni del 1933, Boas, tuttavia, soffermandosi sul film di Flaherty, come sulla nozione di film etnografico più in generale, avverte una mancanza, o meglio sottolinea le possibilità di ulteriori sviluppi del testo, meglio la sua potenzialità inespressa: “Many exceedingly picturesque and interesting features of native life might have been brought in which would not only have improved the quality of the film but would have also made it more attractive to the general audiences”.16 Ecco le coordinate di una rappresentazione, della rappresentazione perspicua, per definire così il potere sull’esserci dell’altro, poter descrivere più e meglio la vita dei nativi, per poter essere un documento più ricco, dover essere fedele nella dimensione di un’ulteriore possibile compiutezza, di una ricchezza picturesque utile persino – ancora una potenza, una potenzialità – all’audience del film stesso. Impresa deontica. Da realizzarsi attraverso la consulenza di un etnologo, nel segno di una scienza del pittoresco, nella competenza etnografica come fonte di suggestioni spettacolari, come autorizzazione dell’intrattenimento, come forma culturalmente fondata di trattenimento del pubblico, la general audience evocata da Boas. Perché questo dover essere? Dove si situa il fondamento di quest’assiologia, quale fondamento antropologico è necessario perché il film possa essere, costituirsi per così dire, come un’assiomatica della vita inuit, seppure nella cifra consentita e addirittura auspicata del picturesque? Nello stesso tempo Boas avverte ancora l’esigenza di un salvage di portata ampia, il cui scopo è la costruzione di archivi, di musei, capaci di usare strumenti come la fotografia e il cinema, questo perché “molti di questi materiali vanno raccolti adesso, perché anno dopo anno le culture native vanno scomparendo sotto l’assalto della civiltà dei bianchi”. Ecco la risposta, ecco il proposal etico e scientifico, la call for paper, for still, for film, for record, dell’antropologia tra Otto e Novecento. Etica del salvage etnografico, etnologico che assume nelle collezioni, nella musealità, la nascita scientifica della documentalità, l’episteme

classificatoria, tipologica, positiva: prime istanze dell’Archivio dell’altro, degli altri. Scienza del concreto, della prossimità e dell’alterità, l’antropologia si produce immediatamente come scienza della memoria, che nell’uso delle immagini, degli oggetti, inscrive il suo progetto scientifico e normativo nel pittoresco, nel picturesque, come “gestures of self protection”, secondo la lettura di Fatimah Tobing Rony.17 Eppure questo termine, pur non essendo una trappola, né la soglia di un’infinita catena di significanti, questa parola ha, nella lingua inglese, un ulteriore possibile significato: picturesque può tradursi come “espressivo”, “efficace”, “che colpisce”. Ecco allora che l’espressione di Boas, la prescrizione apparentemente ingenua, si manifesta come efficace, significativa: cogliere nel film, innanzi tutto, e nel cinema come dispositivo di comunicazione e diffusione di una conoscenza, una possibile peculiare amplificazione della scienza stessa: il pittoresco come modalità di rappresentazione e iscrizione dell’alterità nel flusso di comunicazione, e comprensione dell’altro. Tuttavia, un altro elemento suscita attenzione nelle parole di Boas: il destinatario della lettera stessa. La lunga citazione di Boas, riportata da Ira Jacknis, è tratta da una lettera indirizzata a William Hays, datata marzo 1933. Boas scrivendo all’allora capo della Motion Pictures Producers and Distributors, si mostra consapevole della potenzialità di film a soggetto etnologico. Inscrivendo, tra questi, Moana, Grass, Chang, Nanook of the North, citati subito all’inizio del testo indirizzato a Hays, estesamente riportato in nota, Boas avvista la necessità di elementi visivi e trame narrative capaci di raccogliere un più vasto consenso di pubblico, definendo addirittura il film etnologico come una sorta di genere capace di aprire nuovi spazi commerciali all’industria cinematografica. Intuizione della natura del medium come del messaggio nella forma specifica del medium, intuizione del pittoresco come cifra di restituzione di senso, costruzione di un senso del “noi”: la narrazione per immagini come progetto di senso, le immagini come libretto di istruzioni collettivo, il film come strumento di recording dell’altro. Mentre Felix Régnault legge di Nanook innanzi tutto le immagini del movimento – come direbbe Didi-Huberman – “ce que nous voyons, ce que nous regarde”,18 nell’ipotesi di un cinema intrinsecamente scientifico, votato allo studio del movimento, alla serialità e alla ripetizione dei comportamenti fisici – isometrie come precostituzione di future isotipie – di uno sguardo mosso e scopicamente orientato alla corporeal image, nel senso fisiologico del termine, Boas, lo studioso della arti primitive e delle lingue, il fisico votato alla geografia e quindi all’antropologia, l’accademico Boas, coglie qui, nel cinema, uno straordinario strumento di conoscenza, ma anche di popolarizzazione, per così dire, del segno e del senso, della disciplina, acconsente alla possibilità dell’etnografia e dell’antropologia di farsi spettacolo. Paradosso straordinario o contingenza accademica e sociale, o semplicemente coesistenza di scopi e obiettivi: il Franz Boas che scrive a William Hays nel 1933, è lo stesso autore delle sequenze di danza filmate in 16mm a Baffinland nel 1931, il cui segno e progetto è quello di un analisi del ritmo e dei movimenti corporei, uno sviluppo del cinema 1 di Régnault.19 Se ritorniamo alla fiera di Chicago, al 1893, agli esordi della carriera istituzionale americana di Boas ritroviamo invece la tensione spettacolare del salvage.20 Non era stato, del resto, egli stesso parte attiva nel comitato organizzatore dell’Anthropological Hall della World’s Columbian Exposition del 1893 a Chicago, esibizione che culminerà tra l’altro, nelle presentazione – presenza? – di quattordici Kwakiutl, corpi viventi di un’immagine dell’altro, lì convenuti grazie a George Hunt, meticcio indiano, informatore, traduttore, amico e fotografo di Boas?21 Quattordici indiani nel set di un villaggio indiano ricostruito a Chicago come prova

prossima dell’altro, documento fisico – body evidence/evidence of the body –, dettata dal displaying scientifico: fiera dell’altro, memoria viva e vivente del primitivo, co-temporalità esibita, performance di questa. La storia dell’antropologia si nutre così della messa in scena spettacolare del contatto, in una allocronia domestica e di consumo, nella macchina sincronica e diacronica degli etnoshow. Feticismo complesso e urgente della diversità come premessa e promessa della modernità, ecco l’etnoshow come macchina del tempo, macchina dell’utilitario, scaffale delle merci della alterità,22 e di cui il cinema, nei suoi esotismi promessi e realizzati, nella sua prassi di rilocazione e diffusione, nella potenza mobile delle immagini riproducibili, diverrà sostituto e inveramento, proiezione nuova di realtà. Nel set di Chicago, Boas, in occasione dell’Esposizione, presenterà al pubblico una serie di foto da lui realizzate, nelle aree del nordovest tra il 1886 e il 1889, in parte con la collaborazione di Oregon C. Hastings, un fotografo professionista di Victoria, e, nel contempo, organizzerà il lavoro di John Grabill, un fotografo professionista di Chicago, per documentare la presenza dei membri della tribù Kwakiutl, e gli atti cerimoniali e le pratiche quotidiane riprodotte nella scena dell’Anthropological Hall, commedia umana della vita primitiva, scena del consenso e del pittoresco. Le foto presentate da Boas descrivevano la scena del primitivo, producendo l’altro nella sua visibile irriducibilità, tipizzandolo e distanziandolo, disegnandolo come autentico, nella logica della foto antropometriche, differenziandosi, volutamente, dalle foto ufficiali del Bureau of Indian Affairs, foto nelle quali, in nome delle politiche di assimilazione, la vita indiana era il frame di una scena della modernità incipiente, scena della civilizzazione avvenuta: scuole, processi educativi, alfabetizzazione. Questa scelta dei soggetti, la volontà di presentare le foto, testimonia visualmente la strategia di Boas di evidenziare la differenza culturale come oggetto della ricerca antropologica, come presupposto stesso di una pratica comparativa e relativistica, particolaristica e situata. Le foto di Grabill, invece, sempre realizzate sotto la direzione di Boas, riprodurranno la commedia umana del diverso e del primitivo, testimoniando piuttosto l’assimilazione e il mutamento culturale dei Kwiakutl: rituali di cannibalismo, come la hamatsa, la danza cannibale, venivano reinterpretati dai nativi in forma di una cinetica evocativa, e di una gestualità descrittivoespressiva di natura realistica in senso rituale e spettacolare. Una commedia della diversità, messa in scena in nome della scienza, dello spettacolo della scienza. Pratica di re-enactment funzionale alla progettazione di diorami. Ma, dal punto di vista dello spettatore, che cosa differenziava queste scene dai numeri da rivista dei Sioux del “Wild West” di Buffalo Bill, di cui alcuni frammenti di danza verranno filmati, soltanto un anno dopo, per la Edison, al Black Maria Studio? Il pittoresco rigore del set ricostruito sotto la direzione di Boas? La conoscenza etnografica dell’area e delle popolazioni da parte di Boas, competenza allora ancora in formazione? L’installation come pratica situata di ridefinizione – la hall antropologica come la riedizione di un teatro anatomico, dove il corpo vivi-vissuto e vivi-visionato, sostituisce il corpo vivi-sezionato, corpo vivente scientificamente condivisibile, autenticato dal gesto scientifico della mise en scène fine secolo? Il corpo vivente di un’alterità? I quattordici membri di una tribù Kwakiutl? O già, e invece, l’idea stessa dell’alterità, nel punto di vista dello spettatore pagante? Di un’appagante e comoda alterità? Queste foto di Grabill, destinate anche a un uso commerciale, saranno poi riutilizzate da Boas come supporto iconografico del suo volume sulle cerimonie dei Kwiakutl del 1897, ritoccate al fine di depurare le immagini dall’evidenza artificiale del set. Foto di scena, esse saranno ri-messe in scena, nella forma di una ragione grafica che sottace e soddisfa la scrittura e la stampa dei testi etnografici: la

purezza del field rinnovata nell’esemplarità della foto farà di esse, nel volume, presupposto di scienza. Firma dell’esperimento visivo. Documentalità. Così l’ibridazione di un set di Chicago, l’effetto di reale di una cerimonia dislocata, vengono meno; necessariamente soppressi il rumore di fondo, il brusio, l’interferenza, nel lessico di Michel Serres,23 qui eliminati, sospesi: la fotografia del fenomeno ricostruisce fenomenologicamente l’evento: epoché della storia, della storia spettacolare dei Kwakiutl a Chicago, riconfigurando, nel ritocco, la naturalità del presente etnografico.24 Ecco il laboratorio. La condizione sperimentale. La distanza. Piccolo estremo carrefour di scienza, buon senso, immaginario, spazio dell’economico, prassi localizzata e situata del sapere, prassi riarticolata di quel sapere in uno spazio istituzionale – il Bureau of Ethnology – devoto ad un processo di emancipazione e omologazione dei nativi, verso cui l’agire di Boas confligge scientificamente, distaccandosi dagli intenti fondativi e gli scopi istituzionali del progetto. Questa stessa prassi, nell’economia spettacolare dell’Esposizione, si produce inevitabilmente in una catena di segni e di senso, in una successione di sezioni ed eventi – l’Esposizione appunto – dove lo spazio e il tempo, fattisi luogo e prodotto del temporaneo, si consegnano – malgrado le avvertenze etiche e scientifiche, le buone intenzioni di Boas e di Putnam, direttore responsabile della mostra – nella forma di un anacronismo paradossale: un’attrazione temporanea come astrazione temporale che lo spettacolo dissolve o addirittura riscatta; un’etnotopia, dove il senso degli sguardi paganti non può non costituirsi a partire ancora dalla diade noi-loro. Così, grazie alla scienza nello spettacolo, questa diade comune e necessaria alla costruzione sociale di un’estetica del diverso, si definisce nel regime della visibilità e del visivo, si dispiega come un processo storico di individuazione di un etnoscape25 dell’Occidente coloniale, processo necessario alla sua globalizzazione. Di un Occidente capace di realizzare attraverso i suoi Jardin d’acclimatation, le sue esposizioni universali, i circhi e gli etnoshow, e di lì a pochi decenni al cinema e grazie al cinema, una nuova cardinalità del mondo fatto immagine e degli altri mediati e mediatizzati in quanto immagini.26 Formazione spettacolare e attualizzazione economica dell’osservazione di Nietzsche: l’età della comparazione e della compresenza di stili e costumi sedimenta e assume le forme storiche delle esposizioni universali prima, dei grandi magazzini poi: è attraverso i passages, e i riflessi nelle vetrine di questi, tra le merci, che cominciano così a scivolare e a prendere forma i fantasmi della modernità. E sempre attraverso il cinema, la spettralità dei corpi, del capitale, del desiderio, si farà esperienza dello sguardo di massa, reinventando, in Occidente, la massa stessa come ornamento, e l’esotismo come inclusione e reclusione dell’alterità, risoluzione ottica ed estetica di razzismo, darwinismo, relativismo, nella via breve di un posizionamento picturesque della distanza e delle distanze. Età della comparazione, epoca della riproduzione tecnica di immagini, della diffusione di corpi come immagini di corpi. E di corpi come tali, tra migrazioni, guerre, esodi. Le fiere e gli show sono il montaggio delle attrazioni: shortcut di senso per immagini, reclamano allo spettatore di partecipare, col suo corpo, dello spazio che le forma e le informa, chiedendo che sia ancora lui a produrre le immagini in movimento grazie al suo stesso movimento, camera eye ancora stereoscopica, binoculare, steady-came biologica. A produrre stupore, conoscenza, leisure and pleasure. Sarà il cinema a consentire poi, nel montaggio – nel montaggio delle attrazioni e nel montaggio tout court – di cortocircuitare, nella vista, la pluralità dei mondi, di fermare il corpo e di educarlo a una nuova postura dell’umanità: fissi davanti ad uno schermo. Presto, dal balbettio del cinema primitivo, il primitivo trascorrerà poi

alle codifiche grammaticali e sintattiche della rappresentazione delle immagini in movimento, trascorrerà verso quel formarsi, non solo in Occidente, di un altro mondo visibile, di una proiezione, letteralmente, del reale. Tuttavia Boas, in nome di un ethos antropologico rigoroso, da curatore della sezione antropologica del Natural History Museum di New York sino al 1907, anno in cui opterà definitivamente per la carriera accademica, rifletterà spesso, in vista delle esposizioni, sulla costruzione di una relazione con il pubblico, dedicando attenzione ed elaborazione alle traiettorie e ai percorsi di lettura dello spazio museale, al sistema delle vetrine, prefigurando, tra diorami, life group, grafiche e disegni uso di foto, una strategia moderna del displaying. Negoziando tra audience e ricerca, tra archivio e inventario, tra elicitazione dell’esperienza e seduzione spettacolare del pubblico e dei visitatori. Contestando infine la natura stessa delle istituzioni spettacolari, come responsabile della sezione antropologica del Natural History Museum di New York, per congedarsi da esse nella consapevolezza che specimen e artifacts non esauriscono culture, lingue, forme di vita, nell’auspicio che la dimensione testuale di raccolta di dati e narrazioni sia infine il luogo della ricerca sull’alterità, della sua possibilità di farsi scienza concreta e situata.27

3.2.2. Estetica del salvage – etica del salvage – cinetica del movimento - cine-etica del movimento Fermare il reale. O meglio produrlo come movimento, finalmente. Produrlo tecnicamente, dar vita all’emulsione fotografica, far sì che l’impressione esprima se stessa, che un gesto prenda vita, meglio: che la vita di quel gesto, la contrazione di un muscolo, l’abbraccio affettuoso di una madre, la corsa di un cavallo, divengano forme in movimento, potenza e atto. E che persino il movimento delle macchine che si producono come movimento, navi, treni, e poi automobili e aerei, possa essere ri-prodotto. Quando a Parigi, nel 1879, Leland Stanford, governatore dello stato della California, convincerà il pittore à la mode Meissonier a disegnare per lui un cavallo al galoppo, quando Stanford, una volta ottenuto il disegno, gli chiederà di disegnare lo stesso cavallo dieci metri più avanti, Meissonier traccerà tre schizzi, per poi distruggerli rabbiosamente. È allora che Stanford gli mostrerà una serie di fotografie scattate a intervallo di 0,12 secondi: foto di un galoppo. La posizione delle zampe sarà una rivelazione: la falcata araldica illustrata per millenni è definitivamente morta, lo storico pittogramma occidentale della velocità non corrisponde al vero. Due anni dopo Meissonier inviterà nella sua lussuosa dimora parigina una cinquantina di artisti, intellettuali, bon vivant, e tra questi Muybridge, l’autore delle foto. Clou della serata è la presentazione dello zoopraxiscopio: due cilindri concentrici rotanti ruotano e raggiungono una velocità prestabilita; a quella soglia le fotografie, riflesse in uno specchio, prendono esse stesse velocità: il cavallo galoppa. Nel novembre del 1881 la riproduzione del movimento prende forma.28

3.2.3. Archeologia del vedere: altri movimenti Che cosa può consentire la raccolta delle immagini, che cosa consente l’ipotesi di filmare

razze, primitivi, forme della varietà umana? La formazione intanto di archivi, di strumenti utili alla costruzione di tipologie, tassonomie, classificazioni. La costruzioni di nuove fonti cui attingere conoscenza, nel progetto positivista e radicale di Régnault, da un articolo del 1912 sulla necessità di nuovi musei dei film: L’etnografo rappresenterà a volontà la vita dei popoli selvaggi. Quando ci sarà un numero sufficiente di film, si potranno comparare, per giungere a concepire delle idee generali; e l’etnografia nascerà dall’etnofotografia.29 Nel progetto di Régnault, già assistente di Marey, il movimento umano è il focus, il fine della registrazione automatica, la possibilità di cogliere automatismi positivi e negativi grazie all’uso di strumenti meccanici di lettura dei fatti, degli eventi fisici. Eventi e fatti fisici che ci consegnano le tracce delle razze, che ci consentono di pensare una fisiologia della cultura, di cui il cinema si può fare rivelatore e custode, regista e archivista. Facendo del movimento il dato immediato dell’immagine. Riflessioni che la teoria del cinema accosta da diversi punti di attacco, da Faure a Epstein a Balázs, su cui Deleuze ritorna, in forma problematica, e ci consente di avanzare nel segno di movimenti automatici di vite e forme di ripresa delle vite stesse: Coloro che per primi fecero e pensarono il cinema partivano da un’idea semplice: il cinema come arte industriale giunge all’auto-movimento, al movimento automatico, fa del movimento il dato immediato dell’immagine. Un movimento di questo tipo non dipende più da un mobile o da un oggetto che lo eseguirebbe, né da una mente che lo ricostruirebbe. È l’immagine che muove se stessa in se stessa. In questo senso non è né figurativa, né astratta. […] Solo quando il movimento diventa automatico, l’essenza artistica dell’immagine si attua: produrre uno choc sul pensiero, comunicare alla corteccia delle vibrazioni, toccare direttamente il sistema nervoso e cerebrale. “Facendo” il movimento e facendo quel che le altre arti si accontentano di esigere (o di dire), l’immagine cinematografica raccoglie l’essenziale delle altre arti, ne è l’erede, è quasi il modo d’impiego delle altre immagini, converte in potenza quel che era soltanto possibilità. Il movimento automatico suscita in noi un automa spirituale, che a sua volta reagisce su di lui. L’automa spirituale non designa più, come nella filosofia classica, la possibilità logica o astratta di dedurre formalmente i pensieri gli uni dagli altri ma il circuito nel quale essi entrano con l’immagine-movimento, la potenza comune di ciò che costringe a pensare e di ciò che pensa sotto choc: un noochoc. 1895, Parigi: Exposition de l’Afrique occidental a Champ de Mars. Ancora un etnoshow coloniale: nello studio di Marey, Felix Régnault cronofotografa alcuni esemplari umani di diverse razze resi disponibili dalla mostra in corso. Esemplari umani, exempla, formalizzati e fisiologizzati nella linea del movimento: il negro che si arrampica sull’albero in un’attitudine scimmiesca, rivelata puntualmente dal medium di analisi, l’accoccolarsi di tre etnie diverse, Wolof, Peul, Diola, il passo di tre uomini Tijan elegantemente e tradizionalmente abbigliati,

l’immagine di una donna Wolof mentre plasma un vaso. Glifi della scienza. Movimenti registrati, antropometrie in movimento: la marca razziale usata come elemento conoscitivo e comparativo. La puntualità dei gesti, individuati e risolti dalla registrazione, è sostenuta dalla necessità di un recording degli stessi. In presenza di lingue ritenute povere lessicalmente, lingue primitive impalcate su una più articolata cultura gestuale, l’immagine registrata diviene la chiave dell’interpretazione, la via tipologica ai modelli di conoscenza.30 Situazione simulata, nel segno dell’approccio sperimentale, osservata in uno spazio neutro e controllabile: la scienza semplice dell’evento riproducibile. Prima che riproducibile, registrabile. Eppure si studiano corpi, esseri viventi, singolarità sperimentali, in nome di un universale fisiologico, di un differenziale razziale. Set invece che field. L’idea del laboratorio. Cosa si cerca? Cosa si misura? Perché e a quale fine? E come si ricerca? Fatti intrisi di teoria sono lì per essere registrati. Modelli di giudizio organizzano i giudizi. E gli eventi di cui giudicare. Necessità etologica e ideologica della registrazione del movimento. Il cinema si manifesta qui come apoteosi della scienza positivista: il vedere-sapere aristotelico culmina nella cronofotografia e poi nel cinematografo: l’ottica meccanica della macchina da presa come presupposto e complemento tecnico scientifico di un sapere oculocentrico, addirittura e paradossalmente ciclopico, grazie alla fotografia prima, e al cinema, poi. Nel linguaggio di Régnault, nei suoi scritti, la cronofotografia e il cinematografo rappresentano, a livello macro, ciò che il microscopio rappresenta per l’anatomista o il microbiologo: la scienza vede, o crede, oggettivamente, di vedere. Nelle sequenze cronofotografiche, oggetto di una memoria pubblicata cinque anni dopo le riprese,31 lo sguardo in macchina è interdetto. Il corpo è azione, moto. L’azione dei corpi attori – visionati qui come corpi attanti, forzando il linguaggio greimasiano, o restituiti come idealtipi razziali – l’azione dei corpi non prevede che la realizzazione di un movimento, del movimento naturale, naturalmente compiuto, che, cronofotografato, diventa esemplare. Azione del moto che si trasforma nella sua redazione. Antropografia dei movimenti. Progetto di una fisiologia razziale, di una fisiologizzazione delle culture. La motricità diviene qui matrice di senso, di luogo, provenienza, indice culturale, marca semiotica inscritta etologicamente nella natura: il corpo come materia semeiotica, carta di una metrica e di una diagnostica culturale, prima che scientifica, o semplicemente medica. Il corpo diventa allora un marker temporale – corpo primitivo e selvaggio – mentre la razza disegna la fisiologia dell’evoluzione temporale: la cronofotografia e il cinema scientifico provvedono alla costruzione visiva, attraverso la misura, della scienza, e al tempo stesso, della sua memoria sperimentale. Body evidence-body of evidence. L’immagine è pronta a farsi archivio. Ready-made. La macchina da presa scientifica, protesi ottica dell’occhio – del corpo? – dell’osservatore, registra l’orizzonte dell’evento. E simultaneamente lo salva come evento, come corpo. Per leggerne la tecnica, come esito del motorio, culminando nell’archiviazione fotografica dell’attività della vasaia stessa. E infine la parola, persino la parola, addirittura la parola, fine a se stessa, la parola inutile come scriverà Régnault,32 quella parola dovrà tuttavia essere registrata. Vanishing culture da salvare, vanishing culture da archiviare. Agli archivi il dopo di questa storia. L’archivio, la memoria, come tropo. Un’antropologia, questa, senza dialoghi, senza pratiche di discorso, senza discorsività, senza il rischio dell’altro: un’immensa tassidermia, un obbligo storico del noi occidentale, una mappatura subspecie immagini filmate dell’universale inscritto nel particolare delle razze e dei corpi. Signori dell’umanità il catalogo è questo. Una Wunderkammer di

pellicole, una camera Wunderkammer. Così che gli archivi, una volta realizzati, consentiranno comodamente di osservare, appunto scientificamente, le culture e i luoghi, le culture e i corpi. I mille occhi del dr. Régnault, metaforicamente, indirizzeranno e controlleranno la ricerca: guideline, istruzioni per l’uso del film dell’altro universale e diverso: l’altro come corpo, l’altro embodied nel suo corpo, embedded nell’immagine scientifica di questo corpo. Istruzioni per lo studio scientifico della vita, attraverso il cinema, grazie a un’invenzione così apparentemente vicina alla vita stessa. Così in vista della vita, perché capace di risolverla nel movimento. Nell’immagine, cronofotografica, della risoluzione ottica capace di distinguere due punti alla minima distanza possibile. Elogio del discreto. Intensità del discreto. Intenzionalità scientifica e culturale nella costruzione del discreto, di una rotta nelle acque più tranquille e di superficie, della ragione analitica e della sua geometria, invece che nel difficile cabotaggio sulle coste del continuo.33 Siamo lontanissimi quindi, grazie a Régnault, dai rischi estremi del cinema, dallo shock culturale che le immagini non possono non produrre. L’automata di Faure, uno dei primi teorici del cinema, declinato da Deleuze in chiave di “noochoc”, produce il cortocircuito tra immagine e senso, tra immagini e sensi, una volta che il movimento costringa a ripensare il mondo, a ri-praticare il mondo all’interno di una diversa pratica del vedere, di un nuovo regime di segni, di uno spazio-tempo più compiutamente metonimico, come osservava Jakobson, e diverso dal consueto spazio-tempo metaforico della tradizione Occidentale. Perché è subito alle origini del cinema che le questioni si pongono con relativa durezza: logos risolto nella meccanica del vedere, logos risolto nella forma del visto? Attraversare con le immagini il mondo e cominciare a riprodurlo, come all’alba del linguaggio, o produrlo davvero come l’ultima, oltre che prima, alba del linguaggio stesso? Pratiche di vita e di vista che come giochi linguistici e forme di parentela andranno a formarsi? O saranno piuttosto forme logiche, atomismi del vedere che porteranno il mondo alla rappresentazione logica e finalmente perspicua? Perché Venere sia la stella del mattino è necessario che in uno dei due emisferi sia poi mattina. Certamente e contemporaneamente, nell’emisfero opposto, Venere sarà, nello stesso tempo, la stella della sera. Sempre che Venere, nominata tale, sia conosciuta e riconosciuta; perché altrimenti il suo nome, con buona pace di Kripke, e il suo stato, sebbene Frege, sarà meccanicamente risolto dall’orbita dove il pianeta è ospite, a prescindere dall’equazione che antropologicamente e matematicamente la descrive. Intanto, dal punto di vista delle immagini dell’alterità, una donna Wolof, cronofotografata, continua, immortale come immagine, a produrre il suo vaso. Non è ancora cinema: lei stessa non è poi così visibile, vive una vita riparata, da diva d’archivio. È la prima immagine di una donna africana ritratta in un suo movimento. Prodotta, in quell’epifania, come vita, perché viva: archeologia vivente, archeologia di un sapere non historifiable ma filmable, archeologia essenziale e già dolorosa della scienza. E della memoria di questa. Della non innocenza della memoria, come degli archivi, della non innocenza di chi archivia, così come di chi, tra gli archivi, vive e lavora. E ne scrive.34 Memoria davvero spettrale, il cinema materializza fantasmi di corpi. Esaltazione permanente del lutto, dell’archivio, della riproducibilità dell’immagine, di una vita semiimmaginaria mediata da esse, e con esse convissuta: si vede, forse, per elaborare senza sosta e irriducibilmente il lutto,35 riprendendo Morin e Derrida. Certamente in molte parti dell’Occidente e in molte parti del mondo. Certamente non dappertutto. Certamente in modo diverso. Consapevoli di come, delle volte, si veda poi un mondo diverso.

3.2.4. Dall’ultimo continente: ovvero il field e l’immagine a contatto In molte isole gli indigeni stanno scomparendo, in molte altre i contatti esterni li hanno fatti cambiare radicalmente […] Nessuno può negare che è nostro sacro dovere registrare le caratteristiche fisiche, l’artigianato, la psicologia, i cerimoniali, le regole e le credenze religiose dei popoli che stanno scomparendo; si tratta di un lavoro che in molti casi può essere svolto solo dalla generazione di oggi […] una volta che queste cose non ci saranno più, si potrà recuperare la loro storia.36 1898: Torres Straits è il paradigma perduto della spedizione scientifica antropologica. Haddon, Pitt Rivers, Seligman, Myers, Ray, Wilkin, ecco i protagonisti di un progetto scientifico complesso, articolato, inscritto nell’etica e nell’estetica del salvage, eppure intenzionato a disegnare e progettare un’architettura vera e propria della comunità indigena, dei luoghi, dei suoi abitanti umani e animali, del paesaggio. Naturalisti, psicologi, linguisti, zoologi, scienziati delle scienze positive, convivono qui in un progetto sensibilmente comtiano. Una lunga permanenza, una ricchissima attrezzatura tecnica, le Murray Islands, come isole di scienza e macchina del tempo: ecco disegnarsi la scena del field. Quattro mesi, in due riprese, sono dedicati alla permanenza nell’isola, allo studio dell’habitat e della popolazione.37 La qualità dei mezzi tecnici, la volontà di utilizzare sia la fotografia sia il film in un progetto di salvage through image è evidente già nella preparazione della missione, nella disponibilità di pellicola, sia fotografica che cinematografica, nell’interesse di ciascuno dei partecipanti nell’uso sia scientifico che personale – foto private di campo – per la fotografia. Interesse e pratica il cui riconoscimento accademico sarà prossimo: Haddon, firmerà, dall’edizione del 1899 alla morte, le note sull’uso di fotografie e cinematografia di Notes and Queries. L’antropologo inglese ritorna nelle isole di Torres Straits dopo una prima spedizione naturalistica del 1883: ha con sé foto scattate durante il primo viaggio, relazioni di amicizia con la popolazione. Si tratta di aree a forte presenza di missioni – modified by contact – dove la memoria culturale (il totemismo, le credenze, la ritualità) sono già a rischio. Durante la missione, Haddon, con la collaborazione di Wilkin, dispone e organizza vere e proprie campagne fotografiche:38 è attraverso il re-enactment che il field si fa set: come già Boas a Chicago – lì addirittura in un set ricostruito – qui nel set naturale ma ovviamente ri-definito a partire dalla logica di un’interazione nel senso del salvage, Haddon ricostituisce condizioni di field per fotografare rituali, cerimonie, riti funerari, danze, oggetti, manufatti – data al 1895 la teoria di Haddon di una possibile biologia delle immagini, un progetto di valutazione geografico distributiva ed evoluzionistica delle forme di arte primitiva.39 Tuttavia, va poi considerato che attraverso la fotografia, si officia anche, nell’etica del salvage, il minirituale scientifico di devozione all’immagine,40 celebrando altresì la necessità di una presa diretta col reale – seppure re-enacted e, in un certo senso, re-henanced – per configurare, teoricamente, la possibilità scientifica di isolare alcuni comportamenti, di situarli e produrli, avvalorando la propria allocronia, nel senso di Fabian, inducendo, in un codice scientifico sperimentale sui generis, la produzione stessa dell’evento. Messa in scena qui di un doppio paradosso, o di un doppio vincolo, nel lessico di Bateson: il paradosso fisicalista classico – l’evento isolato – e il paradosso sperimentale della fisica quantistica. In and out, in

between. Betwixt, probabilmente. Gli osservatori modificano e producono gli eventi, ma, implicitamente, si considerano, in nome della tecnica di registrazione e del metodo di campo, paradossalmente assenti dall’evento stesso. Il field rimane solo. Isolato. Ritorna qui l’eco dell’espressione con cui in Notes and Queries, edizione del 1929, Haddon definisce e auspica la presenza del fotografo e filmmaker, unperspicuous, inappariscente… L’agire sperimentale è così reso neutrale, come non cogente alla ricerca stessa, e alla costruzione del suo oggetto, naturalizzato nei modi delle hard sciences: l’etica pastorale del salvage (Clifford 1986) si fa il paradigma temporale di questa religio scientifica, dove sincronie e diacronie, il tempo del field come contenitore di riti e pratiche si fa elastico, sdrucciolo, discreto nella creazione di eventi, continuo nella volontà di sorvegliare il tempo stesso degli eventi, tra previsione e provocazione, attesa e stimolo. La vita osservata è la pratica di una vita da osservatori lucidamente mossi verso gli osservati da un sentimento di riguardo e benevolenza, le cui attenzioni e intenzioni sono fortemente perturbanti e cogenti. La scienza antropologica di fine Ottocento fa del field il vincolo: ma il vincolo è oggetto, qui, storicamente come altrove, di negoziazioni spesso complesse o addirittura estreme, nella cui vigenza la pratica di campo matura talvolta una condizione aporetica. I protocolli di Haddon, come quelli di Boas, e dieci anni dopo, in forma diversa di Malinowski, denunciano, al di là di strategie retoriche, testuali, l’evidenza delle aporie proprie del re-enacting, evidenza accentuata dalla scelta implicita, tacita, di elusione metodica di questa dichiarazione, di delucidazione di questa procedura nelle sue constrainte.41 Tuttavia è Haddon a inventare l’espressione field work così come è sua la prima spedizione etnologica in cui il contatto cinematografico si produce sul field: primo contatto tra camera e nativi, prima triangolazione tra antropologo, macchina da presa e nativi, primo reset del field nel segno del filmabile. Dei materiali girati da Haddon, sopravvivono soltanto poco più di quattro minuti e trenta secondi a fronte di oltre trecento fotografie.42 Nei dieci volumi, esito della spedizione, non si fa menzione dei materiali cinematografici, probabilmente per il disappunto di Haddon sull’esito dello sviluppo della pellicola al ritorno in Inghilterra.43 I materiali sopravissuti, sostanzialmente girati tra il 5 settembre e l’8 settembre del 1898, si articolano in cinque sequenze, archiviate attualmente nel seguente ordine: 1) Malu Bomai Ceremony a Kiam, 6 settembre 1898. Tre uomini nella foresta, vestiti di foglie: il primo di questi indossa una maschera realizzata come dono per Haddon. Gli uomini danzano in processione. 50 secondi, 16 fps. 2) Murray Islands, 6 settembre 1898, probabilmente. Tre uomini danzano in processione su una spiaggia. A metà dell’inquadratura la ripresa si interrompe. La danza quindi ricomincia. 70 secondi, 16 fps. 3) Murray Islands, 6 settembre 1898. Danza non identificata; la posizione della macchina da presa è la stessa, lievemente spostata a destra. Tre uomini in processione danzano sulla spiaggia. 21 secondi, 16 fps. 4) Murray Islands, 5 settembre 1898. Accensione di un fuoco: tre uomini seduti a gambe incrociate – Pasi, Sergeant e Mana – accendono un fuoco sfregando due bastoncini di legno. 30 secondi, 16 fps. 5) Murray Islands, 6 settembre 1898. Danza aborigena – shake a leg – quattro uomini, aborigeni in visita all’isola, battono il tempo applaudendo, quindi danzano. Un quinto uomo entra in scena da sinistra verso destra, detta il tempo con un bastone. 70

secondi, tre inquadrature, separate da tagli, stesso set, 16 fps. Quello che resta del primo contatto, del primo film di contatto, è assai poco. Colpisce, intanto, la percentuale di girato sopravvissuto dedicato alla danza; nel caso delle foto è pari ad oltre un quarto del materiale. Il salvage per immagini non può non essere attratto dalle danze. Forme complesse dei rituali, le danze sfidano la natura stessa del cinema, dettano all’agenda etica del salvage la possibilità di saldare cinetica e cine-etica, presa in diretta della vitalità di una rappresentazione e conservazione della stessa, memoria di vanishing culture e lutto di noi occidentali per la stessa. Antropologia pastorale ancora senza rimorso, ovviamente. E allora o è il field set che detta le condizioni, oppure, come in questo caso, l’agenda antropologica, la macchina allocronica del salvage, produce attraverso l’obiettivo, un’agenda di obiettivi, una rosa di tiro. Ecco quindi cinque brevi lacerti di pellicola: l’accensione di un fuoco per sfregamento: ovvero l’evidenza del primitivo, primitivo nelle forme di tre nativi di cui conosciamo i nomi. Uno di questi nomi, Sargeant, ci indica la natura del tempo che muta, l’ingresso dell’isola in una più vasta allocronia: il nome proprio di un individuo come segnale di una condizione diversa della cultura nativa, nel suo ibridarsi già nell’identità nominata. Poi, ecco quattro danze rituali, di cui una in maschera. Dal diario di Haddon,44 siamo informati della natura speciale di artefatto della stessa maschera, dono per lui medesimo, traiettoria di uno scambio, al tempo stesso tentativo di ottenere dai nativi la messa in scena del Malu, uno dei rituali più significativi della cultura locale, tentativo parzialmente riuscito come vediamo dal frammento sopravvissuto, cui Alison Griffiths45 dedica un’importante lettura segnalandone la qualità di immagine aptica. Infine, un frammento ci riporta ad aborigeni estranei all’isola, visitatori, interpreti di un’altra danza, lacerto che si rivela indicatore di scambi, di altri mondi contigui, trama e traccia di relazioni. Si osserva, nei materiali sopravvissuti, l’assenza di donne dall’obiettivo cinematografico, mentre si attesta la presenza femminile nelle foto di campo. Haddon, come Régnault, filma e sottolinea i gesti, segna i corpi del contatto filmico: registra, nel segno romantico della tassidermia, in una dimensione pro filmica e scientifica lontana dalla tassonomia tipologica del movimento razziale, del corpo etnicizzato che il cinema di Régnault elicita nella registrazione dell’andatura, o della postura. Assegnandosi, comunque, il fine di un’etnografia visiva della cultura. Primo contatto cinematografico, la cui impressione filmica è frammentaria e incerta, seppur corroborata dai materiali fotografici. Ma al di là dell’effettuale, la traccia significativa resta il prefilmico, per così dire, l’ideale e l’ideologia tecnico-scientifici al servizio dell’agenda etica del salvage, la necessità e la volontà filmica del fare antropologia, la scelta visuale, in senso lato, della spedizione. Come dimostrano appunto gli esperimenti accurati di Pitt Rivers sulla visione dei nativi, la fotografia come momento di interazione sociale tra scienziati e abitanti, lo spettacolo di lanterne magiche come strategia negoziale tra essi e i loro ospiti, l’uso privato di diversi apparecchi fotografici da parte dei membri della spedizione. Il visuale vissuto come momento centrale del progetto, come passione e scienza da Haddon – il suo interesse per i diorami, la pratica della fotografia già nella prima spedizione a Torres Straits, il disegno scientifico: questo è il contesto di un film mancato, di un atto mancato. Filmare, fotografare, materializzare in immagini un altrove può voler dire presentarlo e presentificarlo, a noi come ad altri noi per portarlo fuori dalla storia, salvandolo. Il paradosso storico delle Torres Islands è che, da almeno due secoli,

intrattenevano rapporti di scambio con popolazioni diverse,46 e che il settlement inglese e australiano era stato a bassa intensità. Haddon si trovava su un terreno sufficientemente tradizionale e sufficientemente contaminato, o meglio esposto al contatto: missionari, funzionari, aborigeni di altre isole, naviganti. Isole non troppo isolate, isolani non troppo isolati: negli ambiti che le foto ritraggono, abiti di foggia occidentale convivono con abiti tradizionali. Se il tempo delle immagini, pur nella evidenza indessicale, è solo apparentemente sincronico, nel sinc tra chi è di qua dall’obiettivo e chi è davanti ad esso, inquadrato, il tempo della foto, una volta stampata, come il tempo della pellicola, questo tempo è il prodotto di uno scarto, tra la volontà dell’occhio e la ciclopia della tecnica, e il tempo della vista, dove la foto o il film, inevitabilmente si consegnano al senso. Nelle isole il tempo storico e il tempo antropologico condividevano il medesimo spazio. Fuori quadro, come sempre visibile, ma non filmabile, il tempo della Storia formava il tempo dell’antropologia, il frame più vasto dove la panoramica dovrebbe sempre darsi a 360 gradi, movimento che il cinema raramente rassegna, perché perturbante dell’ordine visivo, unheimlich almeno quanto il tempo del giro lungo e della peripezia disciplinare, il tempo lungo – il deep hanging out – della perizia possibile di una disciplina dell’etnografia alla luce di una visual knowledge via via emergente.47 Sul medesimo meridiano, nel 1898, per una pura coincidenza cronologica, immaginari scientifici e artistici interrogavano tempo e storia, alla ricerca di strumenti nuovi di rappresentazione. Mentre Haddon e colleghi cercavano la metrica e la natura del primitivo, la forma di rituali e ornamenti, Gauguin a Tahiti completava una delle sue opere più enigmatiche, D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?, una tela-affresco concepita come il fregio di un tempio, densa di riferimenti alle culture giavanesi e maori, sullo sfondo del paesaggio dei mari del sud, dove una serie di lifegroups illustra nella sua corporeal image una trama di vita la cui lettura impone all’occhio occidentale di muovere da destra a sinistra, verso il senso, in una diversa pratica di sguardi. Interrogandoci da uno spazio della rappresentazione, da una diversa ibridazione di occidente e oriente.

3.3. Uomini probabilmente essenziali o uomini che i film essenzializzano? 3.3.1. Bordi del mondo, sguardi dal limite La fiction è lo sguardo e il testo è l’espressione di questo sguardo, la sua didascalia. La fiction è, in realtà, l’espressione del documento, il documento è l’impressione. L’impressione e l’espressione sono come due momenti differenti della stessa cosa; direi che l’impressione dipende da questo momento. Ma, quando si ha bisogno di guardare a un documento, allora ci si esprime. E si tratta di fiction, ma la fiction è reale quanto il documento, è un momento diverso della realtà.48 Il film che sarebbe interessante fare oggi sarebbe un misto che mostrasse in che cosa due gesti, il gesto di un amante e il gesto di un esquimese potrebbero

assomigliarsi. Sarebbero dei documenti a partire dai quali si potrebbe immaginare una fiction che assumesse come base reale e scientifica questi documenti.49 In Une veritable histoire du cinéma, testo di Godard trascritto a partire da un ciclo di lezioni conferenza tenute a Montréal nel 1978, introduzione al suo progetto di Histoire del cinema attraverso le immagini, Nanook risuscita in Godard un curioso refrain culturale: l’analisi del movimento, il film come pratica possibile di una narrazione del movimento. Felix Régnault commentando Nanook of the North ne aveva apprezzato la fedeltà cinematografica della riproduzione dei passi, la cadenza del camminare sul ghiaccio: era il movimento come marker culturale della razza, segno, evidence filmabile e analizzabile. Ma anche l’ipotesi di un realismo elementare ed essenzialista al tempo stesso, di una lettura dell’azione filmica ancora nella cifra dell’analogon. Il movimento figurato di Godard, invece, diversamente, manifestava la volontà opposta: filmare il gesto per ritrovare l’universale, ripensare il gesto del movimento per richiamare l’immagine alla sua condizione di leggibilità, nei fuochi molteplici dello sguardo. Gesti e segni da comparare, la possibilità del film come documento, la sinossi. Se la fotografia è, secondo una felice espressione di James Clifford, “the present becoming the past”, il film sembra ingaggiare, nella rappresentazione del movimento, nella diacronia formale e strutturale tra movimento in tempo reale e tempo della narrazione, una sfida all’avvenire – avvenire dell’azione filmata, avvenire del gesto, avvenire narrativo di un tempo situato, sia set o field, che accade nel tempo. Nell’esperienza della visione del film, infatti, si gioca una partita tra pre-visione dello spettatore, lusinga dell’anticipazione percettiva, e montaggio soggettivo delle immagini trascorse; doppio vincolo della costruzione del senso: vedo il gesto nel suo compiersi anche quando il gesto si sospende, rivedo quel gesto tra altri, mentre ulteriori movimenti, posture, azioni accadono narrativamente e temporalmente dinanzi ai miei occhi. Vedere come esperienza temporale, oltre che spaziale. Vedere la finzione documentaria di un gesto, la sua partecipazione volontaria alla ripresa, vedere lo scarto, la flagranza dell’inatteso, dell’imprevisto: ecco la fiction come momento diverso della realtà, momento in senso fisico, nell’accezione della fisica classica, quasi. Il contatto prolungato tra nativi e filmmaker, l’evidente allocronia di chi filma, ma anche dell’antropologo che osserva, annota, fotografa, produce inevitabilmente un nuovo set di comportamenti: se noi tutti, in quanto esseri umani, siamo il prodotto della nostra immaginazione relazionale, il prodotto dell’immaginazione altrui e del nostro stesso immaginare, il contatto produce necessariamente un campo semantico nuovo, una strategia percettiva e mimetica originale e situata: l’immagine dell’altro, indipendentemente dalla sua materiale risoluzione ottica, è evidentemente una polisemia. La pratica filmica, da Curtis in avanti, individua rapidamente quest’aspetto: chi filma, sopratutto alle origini, si manifesta come “presenza” e “differenza”: il corredo di cineprese ingombranti, di strumenti, è inoccultabile. La tecnica produce uno scarto mimetico ulteriore nel noi-loro: il tempo della tecnica, le condizioni di produzione – luce, vento, acqua – delineano un diverso parallelogramma di forze e di relazioni: stati evidenti del non equilibrio, flagranza ulteriore dell’asimmetria tra osservatore e osservato. Su di chi sia la storia e sulle condizioni per produrla, la pratica visiva, tra costruzione di senso e spettacolo di esso, si interroga acutamente, già in quanto prassi. La storia di Nanook e di Flaherty è innanzi tutto la storia di un contatto, la pratica di questo, la peculiare forma di una assunzione linguistica nel produrlo

e restituirlo, l’intuizione teorica di una sguardo già etnografico. Se il cinema delle origini è il luogo di una pratica etnicizzata di finzioni50 – ma, diversamente, anche l’etnografia storica non può non esserlo –, l’etnofinzione essenziale di Flaherty produce uno scarto nella storia dell’invenzione dell’altro, nella storia dell’invenzione di uno sguardo sull’altro, della restituzione filmica di questo, statuendo comunque qui la necessità di leggere il film stesso come oggetto etnosemiotico. Forma storica del contatto, e forma storica di una pratica dei segni, situandolo intanto, al di qua del cinema, ovvero della sua ricezione e del ruolo del cinema stesso, come oggetto transculturale in grado di produrre “una divulgazione precoce del relativismo culturale, una implicita negazione della teoria dell’evoluzione sociale”.51

3.3.2 Di una scena primaria, con camera partecipata, deep hanging out, artifici di set, scene madri del contatto – ovvero: ciò che vediamo, ciò che sappiamo Il labirinto globale del percorso si riproduce, tutte le mattine, alla prua della nave, nei paraggi del locale. Sei lì a patteggiare con la rottura della banchisa, con il muoversi di ghiacci, iceberg, cigni, i borgognoni. Il disegno che il ghiaccio forma fa avanzare, virare, immobilizza, rallenta, fa fluire.52 In Passaggio a nordovest, Michel Serres descrive il mondo dei ghiacci dal punto di vista di un capitano di lungo corso, abilitato poi alla filosofia, divenuto storico di scienze e saperi. La scrittura di Serres si fa immagine, traccia il movimento di una rotta, nella luce delle costellazioni dell’emisfero boreale. Questa immagine abbagliante rimanda incredibilmente ai titoli di testa di Nanook of the North, film cardinale della storia del cinema, dispositivo culturale e filmico cruciale nella storia delle immagini del Novecento, nella storia della restituzione dell’alterità. Film la cui seminalità e i cui limiti segnano profondamente la teoria e la pratica del cinema etnografico, la sua relazione di in and out con la disciplina antropologica. Titoli di testa. È un film. L’economia di un titolo si costituisce qui tra immagini e grafica. Come per un libro. Ma il tempo di percezione qui è dato: l’economia dell’attesa e le condizioni – la sala, il buio – producono una specificità dell’attendere e dell’attenzione. Cartelli. È un film muto: l’immagine è la sua potenza e il suo atto. Non c’è ancora l’intensità connotativa di una colonna musicale, il piano denotativo di un suono realistico, una voce o un frammento di dialogo, a darci altri elementi di lettura. Il titolo originale, Nanook of the North rassegna un nome inuit, e un indicatore geografico, cardinale. L’indicatore annuncia il senso di quel nome. Produce il nome in uno spazio. Non è ancora un luogo, è la sua premessa. Appare quindi il nome del regista, l’autore del film: Robert Flaherty. I caratteri sono in corsivo. Enunciano l’indicazione grafica di una scelta comunicativa confidenziale, di una piccola esca formale: scrittura comune, in american typewriter, standard della grafia meccanica. Dopo i titoli, i veri e propri cartelli, i cartigli del muto, tracce diegetiche, didascalie, dialoghi, come nei film di finzione. Nanook è però un documentario. Il documentario secondo la storiografia classica. L’atto di nascita documentato, e l’atto documentario. Tuttavia, nel 1922, Nanook of the North è ancora un film. Documentario, infatti,

è un termine più tardo, attribuito a Grierson, a una sua recensione del 1926, recensione di Samoa, ancora di Flaherty. Parole e cose. Logica dei termini. In senso storico, quindi, l’oggetto di cui parliamo ha una vita da film e una storia da documentario. Questione di traduzione. È, intanto, un documento. L’edizione in lingua italiana tradurrà lo spazio in un indicatore etnico, facendo di Nanuk un esquimese. Primo cartello: Le misteriose Barren Lands – spazi desolati, rocciosi, immensi e battuti dal vento, in capo al mondo. Due sequenze, da un battello, inquadrano l’acqua piena di ghiacci, frammenti bianchi galleggianti, la terra in lontananza nel profilo di un costone desolato: la prima procede da destra a sinistra, l’altra muove il campo, il frame, in senso opposto: si arriva a Barren Lands: kinoglaz sui bordi abitati del mondo. Secondo cartello: Nessuna altra etnia potrebbe sopravvivere alla sterilità della terra e alla rigidità del clima; eppure qui, del tutto dipendente dalla vita animale che è l’unica fonte di cibo, vive il popolo più allegro di tutto il mondo: i coraggiosi e spensierati Eschimesi. Terzo cartello: Il film narra la vita di un tale, Nanuk (L’orso), della sua famiglia e del suo piccolo gruppo di seguaci, gli “Ivitimut” del canale di Hopewell, Ungava settentrionale, ed è stato realizzato grazie alla loro gentilezza, lealtà e pazienza. Quinto cartello: Una carta geografica, che visualizza graficamente l’area, che copre lo spazio che va dalla Hudson Bay al Canada, e giù verso la regione dei grandi laghi, Chicago, a ovest, New York, Philadephia verso sud. Credere alle immagini e dar credito alle parole. Interrogare le immagini, le parole. Diverse modalità dell’istituzione di senso, diverse forme di interrogazione del senso. Due sequenze di avvicinamento, tre cartelli di informazione e accostamento: il primo apparentemente descrittivo: la terra desolata, inabitabile, misteriosa, terra di spazi illimitati, terra alla sommità del mondo. Terra nominata. Terra di isole. Il secondo cartello è contrastivo e descrittivo: stesso habitat, stessa desolazione, indicazione che la vita – intesa come vita umana – può darsi persino in quei luoghi: la vita, come fatto, a contrastare l’enunciato principale. Fierezza antropocentrica. Intanto. E, subito, nella sequenza di aggettivi, caratterizzazione dell’ethos, immagine di un’essenza umana fatta di gentilezza che si delinea in una descrizione qualificata e qualificante del popolo Eskimo – fearless, lovable, happy-golucky – preceduti da una figura comparativa che assolutizza il punto di vista dell’enunciante introducendo la parola, per così dire ultima: “the most cheerful of the world”. Ecco poi il terzo cartello, descrittivo e dichiarativo: introduce il protagonista del film, la vita del protagonista, e della sua famiglia, la localizzazione di questa forma di vita. Nominandolo, per dare al suo nome traduzione e quindi senso – il senso del nome proprio come appellativo, il

nome come espressione di lignaggio o di restituzione sociale, il nome funzione di una società altra dove i nomi propri hanno e danno senso, esprimono una tradizione tecnonimica. Questo è offerto alla lettura dello spettatore occidentale, del buon senso occidentale. “Nanuk”, variante di nanaq, l’orso, il maschio della specie in inuit. Quindi, sempre nello stesso cartello, la dichiarazione di amicizia, il ringraziamento, la dichiarazione di relazione, di coevalness sentimentale: l’esistenza del film resa possibile grazie alla partecipazione dei nativi. Di chi, infatti, è la storia? Infine la decifrazione grafica del luogo: i ghiacci intravisti sono lì, ed è lì che voi-noi andremo, spettatori nel tempo, lì dove andiamo ogni volta – lì geografico e storico, lì dei contemporanei e dei posteri. E quindi, in nostro aiuto, appare la carta geografica: carta geografica semplificata, la cui proiezione rassicura e illustra. A quel nord si accostano, per contiguità rappresentativa e fisica, per continuità culturale suggerita, altri luoghi leggibili: il Canada, una porzione di Stati Uniti, le grandi metropoli. Altri nomi, nomi propri di luoghi e città, altri immaginari eleggibili. Nord lontanissimo, e vicinissimo. L’archeologia è prossima. Il cinema è la macchina del tempo e di questo tempo: il Novecento. Così come l’antropologia. Il cinema, questo cinema, ricostrui​sce il tempo nell’epoca delle masse come elezione della vista, lezione delle viste – le vue. L’antropologia attende invece alla ricostruzione del tempo dell’oralità: la temporalità si dà come scrittura dell’osservazione, restituzione di un tempo predocumentale – tempo pre-scritto. Tempo scritto nei corpi, inscritto nelle antropometrie, nelle misurazioni positive, nella scienza delle qualità come quantità, il cui ultimo esito storico, enciclopedico nel senso di Comte, è Torres Straits. Tempo che la parola nativa non è ancora in grado di presentare, e che la scienza occidentale non vuole ancora sollecitare. La carta che apre il volume di Passaggio a nordovest di Michel Serres, la cui citazione campeggia in testa al paragrafo è una carta geografica scientifica, non una cartina semplificata, descrive il nord geografico del pianeta: il libro non è film, il nord del mondo è diverso in un film documentario e in un testo di storia filosofica della scienza: altre coordinate della rappresentazione, raffigurabili e comunque traducibili. Quindi è ancora un cartello a informarci dell’area in cui vivremo con Nanuk, nel tempo di un film: un area grande quanto l’Inghilterra, popolata da trecento anime, il regno, letteralmente, di Nanuk. Una carta geografica, quindi, a restringere ulteriormente il field, il set: grafica dello spazio, visione cartografica semplificata, la potenza dell’immaginazione planare, abilitata da una carta disegnata dai nomi delle città. E poi, finalmente, il film ritrova la sua formalità, ritorna a farsi immagine e a ritrovare il movimento. Prima inquadratura di Nanuk, piano medio, l’obliquo di uno sguardo in macchina. Il muoversi del capo. Timidezza, diffidenza? O, semplicemente, le condizioni di luce abbagliante del pack? Nanuk guarda Flaherty che lo filma, e, grammaticalmente, effettualmente, guarda noi. Poi appare Nyla, la compagna di Nanuk, la cui messa a fuoco si accompagna di un cartello che la qualifica come “la sorridente Nyla”, mentre l’inquadratura è il reverse angolare della presentazione di Nanuk. E quindi l’azione, il movimento, il kayak: Nanuk proviene dall’acqua, e scivola su di essa con la forza della sua pagaia, con l’attenzione marina all’abbrivio e allo scarroccio. Nanuk accosta. Due inquadrature di avvicinamento, due inquadrature di presentazione, entrambe statiche, segnate dal solo movimento dello sguardo, sutura leggera ma efficace – effabile – tra spazio e spazi, tra tempi e istanze diverse: lo sguardo in macchina di Nanuk come macchina allocronica verso l’altro, la collettiva singolarità della troupe del film, lì e allora, l’imprevedibile alterità spettacolare del dopo, sino all’oggi, al

daytime dei noi che lo vedono ancora. Formidabile impresa ottica del common sense, storicamente ricostituito nel segno e senso delle immagini in movimento. I cartigli lavorano qui come una macchina diegetica, prolessi dell’avventura e del tempo a venire, il tempo del film, la scena di un’abduzione: tutto qui contrasta con la vita, gli Inuit vivono, gli Inuit vengono da qui, essi vivono. Qui-lì, nelle Barren Islands. Il cinema non produce una dimostrazione ma uno spazio cognitivo: dalla percezione del ghiaccio, all’architettura ritmico narrativa delle inquadrature, alla cognizione situata. Scena della conoscenza: se per Deleuze, Flaherty si muove nel segno di un’etologia, invece che di un’etnologia, la scena di Nanook si costituisce, tuttavia, come primal drama: Mentre ciò che viene definito con il termine di genere primal drama spesso rappresenta l’Altro come soggetto, lo fa nel tentativo di presentare il suo tema centrale, vale a dire il rapporto dell’uomo con la natura e il suo istinto primario di sopravvivenza. A sua volta, la primal drama funge da modello per analizzare i modi con cui si presenta il comportamento umano, quest’ultimo come percepito al tempo del film.53 La scena della conoscenza produce qui, nell’evidenza dell’empatia di Flaherty verso le popolazioni Eskimo, una restituzione essenziale ma non essenzialista dell’esperienza e dell’esistenza. Scena della conoscenza elementare. Scena degli elementi: the exterior dramatization.54 Richiamiamo ancora Boas sulla scena, nella sua lettura del 1933 di Nanook, dalla lettera a William Hays, precedentemente citata, nella sua denuncia di una mancanza di elementi pittoreschi utili alla ricezione del film stesso dal pubblico cinematografico. La visione del film e il giudizio su di esso si producono muovendo dalle sue mancanze, dalla critica di una scelta di messa in scena essenziale, quasi behaviorista: la riduzione della vita a caccia insomma, la battle for life scelta come traccia di un senso, empatia del senso, empatia nell’ethos eskimo. Mancanza della rappresentazione della cultura inuit, dei riti, visti qui come elementi di produzione del pittoresco per la general audience, mancanza di salvage da parte di un uomo, Flaherty, che pur non essendo antropologo, conosce la vita eskimo, e il cui lavoro è apprezzato da Boas sin dal 1915, dall’incontro alla Columbia con la moglie Frances, dalla visione in quell’occasione di foto di abitanti e luoghi Inuit. Coevalness curiosa, questa di Boas e del film, dove lo scienziato sociale, nel segno del pittoresco e del salvage, chiede al cinema di iscriversi alla tradizione dello spettacolo etnografico: poiché il cinema è una macchina spettacolare, lo sia sino in fondo; didattica della performance, discorso dello spettacolo. Ritorna qui il Boas di Chicago, della Anthropological Hall realizzata con Putman, la sua cura nella messa in scena del percorso, come continuity precinematografica, l’idea del movimento guidato del visitatore, il reportage fotografico della Hamatsa, realizzato grazie al suo offrirsi come modello in scena per il fotografo Grabill, in nome della trasmissione mimetica di un sapere del movimento, al fine di realizzare un reportage dei gesture significativi del rito kwiakutl. Infine il suo riuso delle foto, una volta realizzate, attraverso diorami capaci di ricostruire appunto la continuità spaziale del movimento stesso. Temi che segneranno il lavoro museale di Boas sino al 1907, quando si dimetterà dalla sezione antropologica, per orientarsi definitivamente verso l’accademia. Alcuni Inuit, presenti nello stesso padiglione a Chicago, nel 1893, morirono via via di polmonite, paradosso apparente per genti abituate ai

climi dell’Artico, ma sostanzialmente prive di difese immunitarie per resistere ad un ambiente urbano. Nessuno dei curatori scientifici della Hall fu particolarmente colpito dall’avvenimento: il salvage ha vie impreviste e, semplicemente, politicamente perverse. La scelta empatica di Flaherty, la romantic taxidermy, per usare l’espressione felice ma forse pointu di Tobing Rony, è certamente una scelta di finzione. Ma un elemento di questa scelta, che non deriva da ciò che vediamo, ma da ciò che sappiamo di questo film di Flaherty, va restituito: la specificità produttiva e linguistica della costruzione testuale. Flaherty, infatti, ha con sé un laboratorio di sviluppo. Organizza le riprese, indirizza le sue scelte, il campo delle scelte di Nanuk, altre volte si limita ad assecondarle o seguirle; mostra il girato ai suoi interlocutori Inuit, compagni di scena, altro al di là e noi aldiquà dell’obiettivo – la troupe è formata infatti da Inuit. Nanook non è così il prodotto di un’ottica ma il divenire, nell’ottica e nell’immagine, di una relazione. Camera partecipata, nell’asimmetria di ruoli ed esperienza. Un esploratore americano e un cacciatore inuit, una crew inuit.55 Deep hanging out, profonda frequentazione, presenza di un anno di Flaherty nei luoghi di Nanook, partecipazione precedente a quattro spedizioni artiche, tra il 1912 e il 1916. La presenza a Barren Islands si attesta dall’agosto del 1920 all’agosto dell’anno successivo. Non si tratta di un viaggio di esplorazione, di un’immersione nell’esotico: la scena primitiva e primaria non è la scena di una scorciatoia nostalgica alle radici di una vita autentica: il film è un progetto a partire dall’esperienza acquisita nelle due ultime spedizioni MacKenzie, soprattutto nella più recente, tra l’agosto del 1915 e il settembre del 1916. Già nella spedizione a Baffin Island, nella terza spedizione MacKenzie, Flaherty ha girato del materiale. Immagini di viaggi come lui stesso le definirà nelle interviste della maturità, consapevole della natura di travelogue del suo proto film. Durante l’ultima spedizione, poi, Flaherty ha girato ancora alle Belcher Islands, e nell’intervallo tra la prima parte della spedizione e la seconda, ha avuto un’importante esperienza scientifica, come fellow della Royal Geographic Society. Al ritorno dalla spedizione, Flaherty lavora all’idea di un film come risultato del montaggio del materiale dell’area di Baffin e delle Belcher Islands, materiale poi perduto in un incendio fortuito al montaggio del film. Le rush sopravvissute consentono l’edizione di una copia unica, con le proiezioni della quale Flaherty cerca nuovi finanziamenti, nell’intento esplicito di realizzare un film. Siamo nel quadro storico di una cultura dell’avventura e dell’esplorazione. I poli sono una conquista recente: Peary il Polo Nord, nel 1909, Amundsen il Polo Sud nel 1911, nella gara mortale con il capitano Scott. La retorica dell’impresa e la mediatizzazione delle stesse hanno contribuito alla formazione di un immaginario popolare: l’esplorazione, attraverso la fotografia e il film, si fa immagine, registrazione del vero. Geografia come geoscopia. Eroismi per nuove totalità, per nuovi totali cinematografici. Spazi bianchi, immensi. Limiti raggiunti, e riprodotti socialmente, attraverso le immagini, come spazi illimitati. Nello splendore fotografico del bianco, nell’idea di purezza, silenzio, dove natura e paesaggio sono prodotti come degré zéro della rappresentazione. Il quadro delle esplorazioni nel nord del Canada è un quadro di spedizioni esplorative alla ricerca di materie prime. Di società commerciali e concessioni di trade post come la Revillon, che finanzierà il progetto del film nel 1920; di progetti di colonizzazione ferroviaria dei grandi spazi (la MacKenzie delle quattro spedizioni tra il 1912 e il 1916); di affinamenti della ricerca geografica e cartografica; di azioni missionarie e antropologiche (come la Baffinland di Boas). Di restituzioni filmiche come In the Land of Head Hunters: a Drama of the Kwakiutl Life del 1914, di Edward S. Curtis, paradossale e problematico esempio di etnofiction del muto,56 di

cui Flaherty ha conoscenza diretta e dal cui modello epico spettacolare si ritiene distante, come risulta dalla sua reazione alla proiezione privata del 1915 cui assiste a New York in presenza di Curtis.57 I primi tentativi cinematografici di Flaherty vanno inquadrati in questo momento culturale ed economico: il nord si configura come l’ultima frontiera dei bianchi anglosassoni americani, o dei bianchi residenti in America: la letteratura e il giornalismo di Jack London sono lo specchio di questa cultura, il quotidiano possibile narrativizzato, mediatizzato. Lo stesso Flaherty ipotizza uno sviluppo commerciale di una fotografia come di una cinematografia legata al nord del mondo nei suoi primi exploit filmici: il materiale visivo è considerato necessario ai fini esplorativi ma eleggibile ad uno sfruttamento economico.58 Il successo di film di navigazione ed esplorazione come The Great White Silence, 1911, di Herbert Ponting e di In the Grip of Polar Ice, 1917, di Frank Hurley, ma più in generale l’eco mediatica di eventi come la spedizione Schakleton del 1914, suscitano un crescente interesse. Tuttavia il nord di Flaherty è un nord popolato di esseri umani, di esploratori inuit, la cui collaborazione è riconosciuta e stimata negli articoli redatti a conclusione della ricerca geografica per il Royal Geographical College: il nord da filmare è già l’esperienza limite della vita umana, l’emergenza umana dalla natura, l’esperienza che consente la costituzione di essa come paesaggio. Il passage in cui riflettersi resta l’uomo. Pur nella latenza di una romantic taxidermy, la natura dialogica e partecipante di Flaherty è chiara, come testimoniano i diari delle spedizioni e missioni precedenti al set di Nanook, e il diario del 1920-21. La scrittura privata acquista senso nella relazione e nell’agire come relazione: istanza che accorcia la distanza, definisce e risolve il punto di vista nell’esplicitarsi come differenza, differenza di azioni e opzioni. La forma retorica del diario si compone di to do list come esercizio del to be: il dover essere abita l’attesa e la pazienza, come la determinazione nella ricerca della finestra di opportunità, della cornice mobile in cui inquadrare azioni e relazioni, tra effetti di pragmatica e istanza deontica, in un mondo mobile, aletico, insidioso

3.3.2.1. Deontico, aletico, o di un film da fare in forma di diario Dal diario di lavorazione di Flaherty: Sabato, 25 settembre. Ho mandato gli uomini a perlustrare la zona dei trichechi e ne hanno trovati, allora sono andato con varie apparecchiature. Ho visto una fila di cento teschi di tricheco o forse più, che qualche Eschimo del passato aveva appeso in modo fantasioso lungo il dorso dell’isola, insieme a un teschio umano. Poi ho trovato vestigia di osso e avorio su diversi resti di topek di pietra. Cento trichechi, forse più, giocavano tra le onde, ma non sono venuti su terraferma. Li ho filmati con il teleobiettivo, anche se il cielo era scuro e cadevano gocce di pioggia. Sono ritornato al campo quando faceva notte. Sopra il rimbombo del mare si sentivano i trichechi latrare – un chiaro segno che erano approdati. Prego che domani il tempo sia sereno. Domenica, 26 settembre è stato il giorno dei giorni.

Mattino calmo, sereno e tiepido. Ho visto venti trichechi dormire sugli scogli. Mi sono avvicinato di sopravento a circa trenta metri e li ho filmati con il teleobiettivo. Nanuk si è avvicinato alla preda con l’arpione – ma quando è giunto a cinque metri i trichechi si sono allarmati e sono rotolati in mare. L’arpione di Nanuk ne ha colpito uno ma la preda è riuscita a raggiungere l’acqua. Poi è iniziata la grande battaglia. Quattro eschimesi stavano pericolosamente aggrappati alla corda dell’arpione, sul bordo del mare – la preda era come un enorme pesce che si agitava e si dibatteva. Un grosso maschio ha addirittura raggiunto il tricheco arpionato e gli ha agganciato le zanne nel tentativo di salvarlo. Filmavo e continuavo a filmare mentre gli uomini mi pregavano di far finire il tutto con un fucile, tanto erano timorosi di essere trascinati in mare. Ho girato ancora riprendendo gli uomini che scuoiavano la preda e si abbuffavano. Esausto, sono tornato che faceva buio. Gli uomini, con le pance rigonfie, dopo essersi rimpinzati la notte. Devono aver mangiato quindici chili di carne a testa. Durante la notte un temporale tropicale – tuoni e fulmini sono davvero strani a questa latitudine – l’isola dei cento teschi. Questo giorno dei giorni è domenica, e sentire tuonare tutto intorno a loro li ha resi un po’ apprensivi – “potrebbe essere la voce del diavolo”. Scene tricheco da fare Storia del viaggio La baleniera in mare – i kayak Lo skipper L’isola – desolazione Segni di vecchi accampamenti eschimesi – teschi di tricheco. Teschio umano (di un eschimo ucciso da un tricheco quando la corda del suo arpione si è impigliata) Le onde e la riva del mare – preparazioni per la caccia Arrotolando la corda dell’arpione Primo piano dell’arpione di Nanuk mentre colpisce la pancia Trasportando le attrezzature nella zona dei trichechi Vita da accampamento Scene da fare Ragazzino che mangia scorfani vivi Bambini che cacciano scorfani sulla spiaggia La questione del commercio Dettaglio Denti Masticare pelli Un modo di fare il film Trasporto d’acqua Attrezzatura per l’accampamento Eschimo che carica la cinepresa nel gelo Filmare nella corrente (alla deriva?) Cambiare pellicole in una scatola nell’igloo Trasporti a mezzo kayak – slitta Lo studio alla deriva… Temperature

Pellicola messa ad asciugare Dolci in cambio di uno scatto? Scene del dopo La Annie Scaricare The post Inverno Il cuoco… Trading Il grammofono Nevica… Post Fashion Natale Trading Il fattore umano e il field? In slitta Medicina – olio di ricino59 Una lista di scene e questioni, un memo di azioni e suggestioni, una lista da vivere filmando e negoziando con i cacciatori sul set: la camera partecipata di Flaherty non si disegna, infatti, come una pura strategia negoziale; il dialogo è alla base del contatto, la visione comune l’esito parziale ma fondativo delle scelte interne al film, come della possibilità di un divenire di esso. La vita di Nanuk si riscrive, temporaneamente, dentro una competenza originale e nuova. Se la pertinenza dello sguardo rimane di Flaherty, la competenza inuit del field, il suo farsi set, dà luogo a una sincronia necessaria e condivisa: sono due azioni a proporsi e comporsi. Il re-enacting modellato sulla visione comporta, infatti, due azioni: l’una interpreta filmando e descrivendo; l’altra, di Nanuk, reagisce interpretando mimeticamente. Il contatto nello specchio della mimesi. Di una mimesis filmica. Supponiamo che ci andiamo, sai che tu e i tuoi uomini, forse, dovrete rinunciare a uccidere una preda, se questo interferisce col mio film? Vi ricorderete che voglio le immagini di voi che cacciate l’iviuk – il tricheco – e non la sua carne? Sì, l’aggie – il film – viene per primo, veramente, mi assicurò. Non un uomo si muoverà, non verrà lanciato un arpione fino a che ci darai un segno. Ti do la mia parola. Ci stringemmo la mano e ci accordammo di iniziare il giorno seguente.60

3.3.3. Storie, allocronie, gender In The Third Eye. Race, Cinema and Ethnographic Spectacle, Tobing Rony, dedica a Flaherty una acuta e notevole analisi storica tesa a decostruire e ridefinire storicamente il senso del lavoro di Flaherty nei termini di storia ideologica del gaze, nel frame dello spettacolo etnicizzante: l’etnografico come progetto spettacolare dello sguardo coloniale. Se è vero certamente, come ha scritto Balikci,61 che Nanuk viene a essere percepito come un primitivo di religione protestante, e che la percezione culturale della differenza da parte di Flaherty non può non essere priva di proiezioni, fraintendimenti, la decostruzione di Tobing Rony è centrata sulla natura asimmetrica della relazione tra Nanuk e Flaherty, sulla misvaluation delle relazioni tra società commerciali e nativi – il tradepost di proprietà della società che finanziò il film. Altrettanto significativa è la riflessione sulla natura del gaze, sul gaze erotico inscritto nel film – la famiglia con le donne seminude prima del sonno, il continuo sottolineare i movimenti della lingua, la madre che lecca il bambino, Nanuk che pulisce con la lingua il coltello insanguinato. Infine la lettura di Tobing Rony raggiunge il climax critico nella discussione dell’esperienza dell’osservazione partecipante, e nella denuncia di una tradizione costituitasi a partire dalla sola voce del regista, di cui il film è l’esito filmico, la restituzione fonologica degli eventi accaduti, provocati, intercettati e filmati. Flaherty, evidentemente, non è Malinowski, anche se, come lui, ha speso la vita nel definirsi a partire dalla sua esperienza fondativa, poiché Nanook rappresenta il benchmark del cinema documentario così come Argonauti del Pacifico è il paradigma della ricerca antropologica. Flaherty, a differenza di Malinowski, tuttavia, affronta una vita di cineasta costellata di progetti irrealizzati, falliti, dissensi hollywoodiani, come la crisi sul set di Tabù di Murnau, e il suo conseguente abbandono del film. Flaherty non è Malinowski: i diari di entrambi mostrano due diversi regimi dell’othering, due diverse ragioni nello sguardo. Malinowski scrive per sé e per la sua comunità scientifica: nella tenda alle Trobreand è difficile immaginarlo nella lettura della sua etnografia ai nativi. Diario a parte, Flaherty non produce un testo a partire dall’osservazione partecipante. Filma e condivide con i collaboratori Inuit le rushe, la visione del girato. I rischi. Rischi della visione. Rischi della produzione della visione. Che cosa vediamo allora in Nanook, e che cosa sappiamo di Nanuk a partire da esso? Vediamo un film, un’interpretazione della realtà, una ricostruzione partecipata e orientata di questa attraverso la condivisione parziale del girato: gli Inuit non saranno con lui in moviola. Vediamo una pratica di segni e una restituzione per immagini di un contatto: se la depiction del tradepost è un compromesso produttivo, come osserva Tobing Rony, e un compromesso linguistico – il gaze etnocentrico bianco – i compromessi di field con autorità coloniali e istituzioni di ricerca sono il terreno di elezione della storia della disciplina antropologica, non il corollario ma l’elemento strutturante, il dispositivo che ha consentito, storicamente, le condizioni stesse della disciplina: i paesi senza colonie, con la variante eccezionale degli Stati Uniti, non hanno prodotto il dispositivo normativo dell’antropologia come scienza. Il gaze etnocentrico, nella variante differenzialista, nell’ottica umanista, nella restituzione dell’idea scientifica di razza, sono evidentemente non soltanto il cuore di tenebra, metafora intensamente e pittorescamente letteraria, ma l’aporia teorica costitutiva di larga parte

dell’impresa antropologica. Ma poiché l’antropologia è una disciplina storica, e situata, la sua fenomenologia sarà pur sempre una storia dello spirito, o delle condizioni materiali di produzione, o dei dispositivi e dei discorsi storicamente cogenti: è pur sempre nella storia, nelle storie, che si inscrive la struttura, il paradigma, la storia stessa che si rinviene. E i limiti del linguaggio rimangono sempre i limiti del mondo. Muta l’asintoto culturale della rappresentazione. La prospettiva umanista del film, per quanto ingenua possa darsi oggi, riletta nel segno della formalizzazione del mondo, della sua produzione come immagine prima che come spettacolo, mostra una scelta elettiva severa: lasciare al mondo il suo prodursi – come ha scritto del cinema Stanley Cavell in The World Viewed. E, da questa scelta, ricostituirlo in un sistema di relazioni spaziali e culturali. Il pittoresco come dispositivo qui si declina non soltanto come refrain del burlesque come vorrebbe Ladoux nella lettura della scena della caccia invernale reinventata nel sole estivo allo zenith, o della stessa Rony, nella scena in cui dal kajak emergono, via via, i membri della famiglia – famiglia artificiale inventata dal film; il picturesque muove piuttosto dalla grammatica storica della nostra vista embricata alle forme storiche del cinema e alle pratiche spettacolari del Novecento. Il gaze è storico nei due sensi: le allocronie talvolta si toccano. Vedere allora. Vedere e vedersi oggi. Ricostituire la storia del nostro sguardo, l’etnicità implicita nella nostra storia del vedere in Occidente, e da Occidente, significa interrogare la natura del dispositivo storico del discorso dell’altro, la natura tecnica dei dispositivi, o gli specifici linguistici della sua rappresentazione. Così come significa interrogare la scrittura stessa che, come ha mostrato Jack Goody, è una tecnica complessa di ricostruzione della memoria – già nella sua dimensione grafica, prima che retorica: il cognitivo si esercita e si struttura in tabelle, tassonomie, elenchi e dimostrazioni.62 Se infatti la permanenza dello sguardo in macchina può certamente derivare dal burlesque – l’unico genere in cui il cinema si consente, anche dopo gli anni venti e la definizione del modo istituzionale di rappresentazione,63 l’œil à la caméra, tuttavia, segna il film di una restituzione primaria o primitiva, comunque evidente. Tuttavia, lo sguardo in macchina non è certo il salvacondotto visivo della coscienza dialogica al cinema. Non tutti gli sguardi, infatti, guardano: noi vediamo per competenza, e quindi costruiamo la pertinenza. L’oggetto antropologico si costruisce nel field. Si ricostruisce nel testo. L’oggetto filmico si compone. Si situa. Si dispone o è disposto. Per esser poi ri-costruito: al montaggio. Questo prima, storicamente, dell’immagine sintetica. Questo, comunque, prima del viaggio verso un pubblico di vedenti, diversamente abili e competenti. Nella forma di una memoria filmica comunque indessicale, propria del cinema etnografico, del cinema di soggetto etnologico. Materia indessicale, e, di fatto, indicativa.

3.3.4 Grammophone o del contatto comico Un’intera mitologia è racchiusa nel nostro linguaggio.64 Si potrebbe dire: è accaduto questo e anche quest’altro. Prova a riderne se puoi.65 Ancora il gaze, l’eros, la vicenda del corpo: dar credito alle immagini, credere ad esse.

Interrogare le immagini. Cercare di far loro delle buone domande, cercare di farci delle buone domande. Una donna inuit lecca il suo bambino, in un film – un film che diventa, nella storia dei generi cinematografici, un documentario. Un film documento. Un filmmaker filma questa immagine: che cos’è questa pratica? Pratica di eros? Ecco: la pratica erotica risiede nella scelta di filmare per titillare l’audience occidentale. Ma leccare un coltello sporco di sangue dopo aver mangiato la carne cruda di un leone marino è davvero una pratica erotica inuit? È una pratica sollecitata? C’è uno script? E cosa ne è allora del rischio pornografico del filmare comunque la vita, l’idea che ne abbiamo di essa? Della radicale e provocatoria possibilità di lettura dell’etnografia come pornografia?66 Ci interroghiamo ancora sulla natura di questo film, lo situiamo storicamente senza storicizzarlo: e se costruissimo allora un’ipotesi emica, dolorosamente emica, e magari attraverso questa, provassimo a rileggere l’agire nel film, agiti comunque storicamente da esso?67 Emicizzare, per così dire, il discorso della rappresentazione antropologica, o provare almeno a decostruirlo tra competenza storica e pertinenza ermeneutica, impertinenza nel ripensare e dire che ogni spiegazione è un ipotesi, o meglio che nel nostro linguaggio si è depositata un’intera mitologia; i dintorni dell’agire e della rappresentazione dell’agire sembrano farsi la volta del cielo kantiano, ma allo sguardo morale, in nome della spiegazione, si sovrappone l’idea del nostro sguardo morale: la scorciatoia della spiegazione, alla via lunga della sinossi, tra Wittgenstein e Geertz.68 Madri che leccano, la cui lingua si fa immagine, sguardi di cacciatori che mangiano, affamati, carni crude, e che diventano, interpretati, la restituzione della nozione di limite – lo sguardo in macchina di Nanuk come domanda di confine e distanza, atto morale nella definizione di questo.69 Eccesso di spiegazione, o piuttosto eccesso di proiezione. Evidenza, qui, della volontà di ricostruire il film in nome di una parte, di leggere alcune scene come scene madri, come esplosioni del senso, come spiegazioni di una lettura della vita inuit, e di una deformazione della stessa nel senso dello spettacolo. Doppio movimento di avvicinamento al testo come prodotto del cinema e della sua storia, come pratica involontariamente etnografica, etologica ma non etnologica. Doppio movimento necessario ma illusorio: o si accetta la cornice storica dello spettacolo etnografico e si ricostituisce la pratica antropologica non tra i confini tra scienza e pregiudizio, ma come costruzione del pregiudizio risolto come scienza della quantità e come spettacolo delle qualità primitive – fatti comunque intrisi di teoria come direbbe Popper. Oppure, si riconfigura il discorso – la sinossi – a partire dalla costruzione scientifica e spettacolare del mondo come immagine, dove la fotografia prima (la statica) e l’immagine-movimento (la dinamica) poi, ri-segnano le coordinate percettive dell’esperienza e attribuiscono nuovo senso alla conoscenza per immagini, alla sua storica e diversa competenza, nel confronto raffronto col potere della tradizione scritta, con la tradizione della memoria, nel tempo della riproducibilità tecnica delle immagini. Allora, in questo senso, la ricostruzione spettacolare dell’aura sembra costituirsi come la necessità della tradizione scritta di ridefinire il suo potere. Se l’immagine si spettacolarizza, o viceversa si fa socialmente una scienza particolare del movimento, la possibilità di una trasmissione del sapere diversa e intensamente crescente, in termini di numeri e nuove possibilità, si rimuove storicamente. Il pittoresco salva la comunità degli scienziati, definisce l’enclave della conoscenza, attraverso una pratica sociale del gusto, ripensando qui e riutilizzando altrimenti la nozione di Bourdieu.70 Economie dello scambio simbolico. Performance dello scambio politico. Nuove isole. Nuove produzioni del discorso

cogente e pertinente. Nuovi confini. Disciplina. Discipline del discorso come scienza tout court. Il set del conoscere, il field della conoscenza, ritrovano gli dei della scrittura, e la scrittura cambia il suo statuto e il suo stato: macchina a stato continuo, la scrittura manuale è definitivamente sostituita da macchine a stati discreti – meccanica del typewriting, potenza dattilografica, per culminare nella perfezione binaria della macchina di Turing: due stati: 0 e 1.71 Siamo nel 1936, non sono trascorsi quindici anni da Nanook of the North e Argonauti del Pacifico. Bateson e la Mead analizzano, per immagini, l’ethos balinese: il modello di cultura locale sembra appunto un modello di stato stazionario. Omeostasi. Stati non discreti. Il modello vivente da risolvere nei modi dell’analisi filmica, nel senso della coppia anglo americana.

3.3.5. La scena muta che suona Tutto questo accade nella prospettiva storica del salvage, nel crinale tra Ottocento e Novecento, tutto questo accade nella ridefinizione stessa della nozione di tempo e storia, di tempo e memoria: oralità e fonografia, ritualità e fotografia prima, cinematografia dopo. Rilocazione della percezione dello spazio-tempo nella scienza e nella vita quotidiana: la velocità, le ferrovie e gli aerei, la telegrafia, la telefonia e l’elettricità, la dimensione maxwelliana dell’azione a distanza come legge fisica che ricade e sedimenta nelle pratiche quotidiane dell’occidente e delle metropoli. E lì attecchisce. Si trasforma e ci trasforma. Che cosa ci fa allora un grammofono tra i ghiacci accanto all’orecchio di un cacciatore inuit, nella regione di Ungava? È un grammofono a farsi spazio nel suo mondo, o la fonografia come scienza, o addirittura il destino dell’Occidente come tecnica? Una voce misteriosa di fantasmi? Un curioso rituale occidentale che vede i civilizzati raccogliersi intorno ad uno strumento e ascoltarlo per poterci cantare insieme e danzare grazie a lui? E infatti la fonografia, l’invenzione che Edison propagandava come lo strumento necessario per registrare e tener viva la voce dei nostri cari, a cui affidare la memoria delle ultime parole – réclame quasi proustiana, o dell’involontaria e immensa frivolezza dei morenti –, la fonografia appare in una delle scene più famose e discusse di Nanook of the North: Come ci si può dimenticare, in quello che è diventato un classico del cinema etnografico, l’espressione di totale stupore di Nanuk quando sente il suono emergere dal fonografo dell’uomo bianco, e come poi cerca di mangiare il disco? Incarnazione della sensualità mimetica! Eccetto che per un fattore: non dovremmo forse presumere che quell’espressione e questo mangiare il disco sia una trovata non del “primitivo” ma del regista primitivista Robert Flaherty? – un inganno. Mimesi di mimesi; un anello nella catena di Horkheimer e Adorno chiamata “l’organizzazione della mimesi”.72 Questa lunga citazione di Taussig, tratta da Mimes and Alterity del 1993, rimette in gioco una serie di questioni: la ricezione culturale delle immagini, il buon uso e in generale l’uso che facciamo di esse, la volontà di interrogarle e situarle storicamente. Fatimah Tobing Rony legge la scena come una sorta di trappola organizzata ai danni del primitivo Nanuk, trappola ai sensi del burlesque, di una volontà comica della mise en scène, di una marca di ordine

etnico: forma esemplare di primitivism e racial gaze. Ma cosa accade in scena? La scena di questo contatto si presenta nel set del contatto, un trade post gestito da coloni bianchi – da un commerciante –, una zona di contatto, un avamposto di civiltà, un luogo dello scambio economico e inevitabilmente culturale. La scena vede i bambini nutrirsi di biscotti, frammenti di ordinario feticismo delle merci – il displaying dell’Occidente, la scena delle cose e dei beni – un piccolo apparato ideologico visivo a occultare la criticità dei rapporti tra bianchi e Inuit, l’alcool, come ha osservato la Tobing Rony, in ragione dei compromessi produttivi tra Flaherty e la Revillon, proprietaria di tradepost. La scena del contatto ha poi il suo focus nella scena dell’ascolto. Primo paradosso: siamo dinanzi ad un film muto, vediamo qualcuno ascoltare da un fonografo una voce che immaginiamo umana, o sappiamo tale. È il canto di una voce. Inaudito. Che cosa accade allora? Accade che noi vediamo la voce. La scena è muta e non può non essere tale: ci vorrà ancora qualche anno per il Cantante di jazz, anche se gli esperimenti sono cominciati. Tuttavia la convenzione realista – meglio l’induzione realista – dà per scontato che Nanuk ascolti davvero la voce umana. Basta conoscere il fonografo. Quanti conoscevano il fonografo nel 1920? Basta non chiederselo, basta ritornare a vedere la scena del contatto, la macchina in scena, e la scena come machinerie. Intanto le condizioni della credenza hanno una puntuale corrispondenza visiva, sono situate e costruite. Che cosa ci induce a credere questo? La sua reazione, è evidente: l’evidenza nel movimento. Nanuk non conosce il fonografo, non sa nulla dei dischi a 78 giri, nulla della loro consistenza materiale, nulla di tutto questo. Così Nanuk, non vedendo uomini cantare, distinguendo tra record (il disco) e macchina (il fonografo), addenta il disco e ne verifica la consistenza. Al di là degli occhi, del tatto, il gusto, diventa il senso tra i sensi, per cercare senso in quanto accade. Nanuk reagisce come noi ci attendiamo, antenato prossimo e distante, l’animale che dunque siamo: through the primitive noi rientriamo nel mondo anteriore, nell’invenzione del passato, nella sua fanciullezza. Tempo altro, mito ritrovato nella mimesis delle immagini, nella sanità e salvezza di una prospettiva realista, del fantasma tecnico, del magico fatto di luci e proiettori a carbone, manopole che interrompono la visione, riportandoci in sala.

3.3.6. Trance da fermo. Trance tranquille La scena di Nanuk si forma quindi – sembra formarsi – come scena primitiva di una reazione primitiva del 1920: la reazione primitiva. Childness evocata e materializzata dalla trappola, dal set sperimentale: quanti set psicologici più insinuanti attraversano la storia sperimentale della misura dell’altro? Del dialogo antropologico e psicologico con l’altro? Della sovranità dell’euristica e del metodo? C’è un dato che ancora sfugge: Nanuk, in questa scena dell’esperienza, guarda in macchina e sorride. L’esperienza mimetica, la sua competenza, produce una conoscenza: non chiediamo a Nanuk un’ontologia, rispettiamone l’odontologia. Il sorriso smarca la catena dei significati, ripropone comunque l’esistenza di un soggetto, la sua riflessività, la sua aderenza complessa al reale. Scorrere per credere e comprendere un dizionario inuit, verificare il lexicon del termine ghiaccio nelle sue varianti, e così del bianco, come proprietà della materia, del ghiaccio. Tassonomie organizzate intorno allo sguardo, all’abilitazione di nomi e cose, la costruzione di suture tra nomi e cose, tra i nomi e alcune cose. Come il modo di guardare e interpretare uno spazio bianco, una superficie bianca dalla cui consistenza dipende la sopravvivenza. Nanuk, infine, ha compreso; non sappiamo nulla

della sua immagine mentale, se come molti di noi non sa nulla delle leggi della fisica, dell’invenzione di Edison, di Hertz, di riverberi, frequenze, periodo dell’onda sonora eccetera. Comprendere: che cosa vuol dire? Usare è comprendere? Dare una forma d’uso vuol dire intelligenza dell’oggetto o dell’uso possibile dello stesso? Lanciatori di coltelli, chirurghi, macellai, sciolinatori: intelligenza diversa di oggetti simili – di parti costitutive di utensili diversi, di lame. Come le classificazioni museali oxfordiane di Pitt Rivers. Proviamo a immaginare la lista e il criterio genealogico delle collezioni di Fox Lane Pitt Rivers illustrato mimeticamente dai fratelli Marx, o dalla voce stretta e monocorde di Woody Allen: Crani e capelli, Armi selvagge, Oggetti naturali mimetici definiti anche “Naturali moderni” e Tutto il resto – da “modi di navigazione a specchi e spille e cucchiai”.73 Burlesque della museologia antropologica? Burlesque della conoscenza antropologica? Burla? Tassonomia? Pane per i denti di chi? Resta Nanuk, in scena con la modernità la cui casuale epitome è il fonografo, Nanuk in contatto comunque con tracce di civilizzazione tecnica – i trade post – i battelli a vapore, come il battello che riporterà indietro Flaherty, e che, come leggiamo nel diario di Flaherty, Nanuk seguirà per un po’ col suo kajak, Nanuk al primo incontro col fonografo. Che sorride di sé e della situazione in cui si è trovato. Ritorno a Wittgenstein, allora, alle Osservazioni sul Ramo d’oro: “Si vorrebbe dire ha avuto luogo questo e quest’altro evento: ridine se puoi”. Riderne, allora, se si può. Taussig avverte: potrebbe essere semplicemente un setting, un progetto di primitivizzazione dell’altro, messa in scena di regia, insomma cinema. Che poi vuol dire finzione, spettacolo. Oppure flagranza: dai diari, e vista la natura dei luoghi, Flaherty si produce tra liste e scelte di regie, e casi da verificare, situazioni da cui farsi sorprendere. Nella certezza che soltanto la visione delle rushe gli restituirà la visione di ciò che ha visto. Come scrive Comolli, a proposito de L’uomo di Aran: Niente è acquisito, bisogna filmare per vedere. Montare per vedere: il visibile come lo sguardo non è un dato ma un prodotto, differenza manifesta tra ciò che si vede inquadrando e ciò che si vede montando: filmare come atto dell’iscrizione comunque veridica.74 Sul set, Flaherty ha mezzi per lo sviluppo, ha le rushe da visionare, che lo orientano nel film e che sottopone alla sua troupe: ha l’imprevisto da cui proteggersi. La scena della modernità si impiglia e inciampa nei denti di Nanuk. Imprevisto, flagranza del set: date le condizioni spesso accade altro. Verità del montaggio versus flagranza del set? È curioso osservare come la stessa scena produca un caleidoscopio di interpretazioni, riflesso di punti di vista orientati dal documento a far altro col testo stesso. Come appunto accade. Formazione faticosa delle prove: il cinema non si mostra, e i film non sono oggetti ingenui. Non ci sono rappresentazioni perspicue. Ma avvicinamenti e transazioni. Connessioni. O il film è l’oggetto mondo, finito, senza un fuori, senza il flusso di testi, paratesti, memorie interviste, diari di set, o la sua lettura accade nel mondo in cui nasce e nella tradizione che lo accoglie: Ed è questa, a mio avviso, l’attinenza dell’esibizione cinematografica da parte di Robert Flaherty dello stupore di Nanuk davanti al fonografo, il suo sottoporre il

disco alla visceralità della sua lingua e dei suoi denti. Qui il presunto primitivismo del grande cacciatore del nord, nientemeno che i suoi stessi denti, si scontrano in modo drammatico con le pretese di unità spirituali della vita fatte dal modernista e rivelate nel film.75 Ma quest’immagine ancora di Taussig confligge, urta, con la costruzione linguistica della scena stessa, con il registro di essa: se nel burlesque il cinema si sospende come riproduzione dell’immagine movimento, in un certo senso fa epoché della sua natura tecnica giocando allusivamente col pubblico nella forma del teatro, richiamando il pubblico alla memoria di quella esperienza, nella scena del grammofono il sorriso del cacciatore inuit mette in scena uno stato di conoscenza, l’atto di una comprensione. Nel burlesque la competenza si ascrive allo spettatore: a lui è dato conoscere davvero ciò che accade, la riflessività dell’attore è impraticabile. Nella scena citata la comicità si produce culturalmente: il primitivo sfugge alla sua riproduzione come archeologia vivente. La frizione del contatto si fa morso e denti: si mostra come differenza ironica. Prima di aver morso, coi denti, Nanuk, sorridendo, mostra i denti. Dinanzi ai treni in movimento, alle automobili lanciate, il pubblico degli inizi del Novecento cercava vie di fuga. Nell’Italia ancora contadina degli anni cinquanta si coprivano con tende o altro i televisori, perché la famiglia non amava essere vista. E si rispondeva al saluto delle annunciatrici all’inizio dei programmi. Non si addentava la televisione; si interloquiva con l’elettrodomestico, in nome della buona educazione. E, se interrogati sulle immagini, molti tra gli anziani ne giustificavano il lento formarsi sui monoscopi, all’accensione, con la loro lontana provenienza. Le valvole dovevano scaldarsi per raccoglierle. La televisione giungeva da lontano. Come il grammofono per Nanuk. Come la voce, inaudita, e forse da lui udita. I primi contatti di prossimità di quel mondo con il nostro furono alcuni Inuit portati alla corte della regina Elisabetta I, nel 1577. Freaks. Degli Inuit del 1893, protagonisti della mostra etnografica della Anthropological Hall di Chicago, alcune ossa e scheletri rimangono nel Museo di storia naturale di quella città. Una volta morti nel salvage e per la scienza, la scienza era obbligata a dare un senso a questi corpi. Almeno conservarli, in parte. Nei film Edison già esaminati, finti e veri Inuit organizzano corse di slitte in finti villaggi esquimesi. Nanuk, il cui vero nome era Allakralliak, sarebbe morto di fame, due anni dopo il film. I denti non avevano trovato altro da mordere che la fame. La lingua batte dove il dente duole: Si illuminò la luce del proiettore e nella baracca calò il totale silenzio. Videro Nanuk. Ma Nanuk era nella baracca con loro, e non riuscivano a capire: poi videro il tricheco e scoppiò un pandemonio. Tienilo, urlavano. Tienilo, e si precipitarono verso lo schermo inciampando nelle sedie per aiutare Nanuk a mangiare il tricheco.76 La mimesi si era fatta schermo. Tuttavia il senso del film era chiaro: la caccia era lo scopo. Gli Inuit, nella caccia, sarebbero stati, davvero, attori. Il patemico, in forma di immagini, si fa presenza. Malgrado ciò, i leoni marini, davvero, rimangono di un’altra consistenza.

3.4. Corpi e ottiche dell’avventura: storie di esodi, scimmie, eterotopie, etnotopie 3.4.1. Rotte patetiche – rotte patemiche – rotte nostalgiche. Lossodromie e peripezie di viaggi Contro le verità scientifiche, sbrecciando la voce gelata di queste, i discorsi della finzione rimontano incessantemente verso l’improbabilità più grande. Sotto questo mormorio monotono dove si annuncia la fine del mondo, la finzione e i suoi discorsi fondono l’ardore asimmetrico del caso, l’azzardo inverosimile, la sragione impaziente. Non è la scienza a diventare ricreazione, si tratta, invece, di ri-creare muovendo dal discorso uniforme della scienza.77 Ci sono, nel mondo, dei viaggiatori nati, degli esoti. Essi riconosceranno, sotto il tradimento freddo o arido delle frasi e delle parole, questi indimenticabili sussulti dati dai momenti che ho descritto: i momenti dell’Esotismo.78 Roaring Twenties: un fantasma si aggira non soltanto per l’Europa: l’angelo della storia è certamente trascinato, spalle al futuro, mentre una distesa di rovine fuma ancora dinanzi ai suoi occhi: il massacro della prima guerra mondiale, l’incertezza dei tempi, delle carte geografiche e dei confini. Popoli dentro l’Europa cercano l’heimat, o perdono l’heimat. E il nomos della terra cerca nuove frontiere per stabilirsi e stabilire appunto leggi. Il disordine geopolitico, come un’onda sismica, tocca i continenti. Nuove linee di faglia si evidenziano nella tettonica degli imperialismi, nuova energia pronta a sussultare di lì a pochi anni. L’esotismo intanto, come un angelo delle cronache, si fa occhio deformante e performante: nostalgia di altre terre lontane, nostalgia di popoli da dominare. O da ritrovare come antenati. Nuove scene del primitivo e del pittoresco si vanno ricostruendo. Il mondo ha ormai raggiunto i suoi poli, le sue polarità geografiche. La cardinalità è pienamente conquistata: l’impronta e la bandiera si sono posati e infissi sui ghiacci, prima del conflitto del 1914-18. Quanta araldica nelle foto e nei film della conquista, quanti vessilli sventolano ancora dagli archivi sull’epopea pubblica e mediatica dell’impresa. Bandiere al vento. Emblematica del trionfo della volontà. Della tecnica nella volontà. E della potenza. Una potenza un po’ comica, a ben vedere, ma che si staglia, innalzata da dirigibili candidi e sfortunati, idrovolanti, e atterra in giubbini di cuoio, slitte trainate da cani. Risuona, ancora, la triste storia del capitano Shackleton. Lossodromie puntuali attraversano finalmente il pianeta: prima della guerra, la geodesia ha tracciato i confini del mondo, le spedizioni hanno testimoniato la potenza del calcolo, la vittoria della scienza. Si può ancora viaggiare? Si può ancora scoprire? Il viaggio classico di esplorazione, il viaggio che dà nome alla sua epoca, si presentava come la forma epistemologica di un milieu dell’avventura, pronto ad atteggiarsi a servitore della verità. I viaggi in terre lontane si presentavano sotto forma di spedizioni.

In essi la penetrazione in ciò che è sconosciuto non è semplicemente un sottoprodotto dell’azione mercantile, missionaria, militare, ma viene praticata con intenzione diretta della scoperta […] l’essenza delle scoperte rimane determinata dalla forma imprenditoriale della spedizione: la spedizione è la forma routinaria dell’uso imprenditoriale del cercare e del trovare.79 Ma se il mondo è ormai misurabile, se il mondo è ormai praticabile sino ai suoi estremi confini, che cosa resta allora dell’avventura, che cosa rimane dell’epoca dell’esplorazione? Se la conquista dei poli si presenta come una sorta di epopea certo tragica, ma sostanzialmente, dal punto di vista dell’immaginario, corrispondente a una attualità cinematografica e radiofonica dei viaggi moderatamente straordinari di Jules Verne, come ridisegnare il confine immaginario delle conquiste, quali nuovi riti di passaggio collettivi e mediatici l’umanità occidentale si prepara a immaginare? L’epoca delle grandi esplorazioni, l’epoca dei nuovi mondi, ha fatto leva sul rischio e sul calcolo, sull’azzardo e sulla cartografia. Non c’è rotta navale che possa darsi come retta: la lossodromia è la legge dell’ideale dei geometri più che dei piloti. Ma la scoperta, le scoperte, danno forma e forza alle carte: il planisfero sostituisce il mappamondo, l’atlante raccoglie e ordina il mondo fatto carta, la modernità si sfoglia nella Gerardi Marcatores Atlas sive cosmographicae meditationes de fabbrica mundi et fabrica ormai dal 1608. La conoscenza si fa portatile e segreta: depositata presso gli archivi cartografici delle nazioni marinare. Venti anni dopo, Descartes e Fermat disegneranno anch’essi il mondo nella sua rappresentazione, risolvendo, indipendentemente l’uno dall’altro, e più analiticamente il primo, la geometria in algebra. Sul piano bidimensionale le curve del mondo si trasformano intuitivamente e poi matematicamente lasciando il mappa-mondo per ri-tracciarsi, appunto, sulla carta, per dare forma di piano alla sfera. Così ora che il mondo, nel ventesimo secolo, è infine il mondo secondo calcolo ed esperienza, geodesia e viaggio, il paradigma dell’esplorazione deve essere aggiornato, attualizzato: serve un nuovo planisfero per viaggiare nel tempo e nello spazio, nel tempo verso i nostri simili primitivi, nello spazio verso le eterotopie possibili: isole perdute, come le Murray Islands o le Trobreand, confini del tempo e dello spirito. Se l’antropologia interpreta la spedizione nell’etica del salvage e nella prospettiva di una archeologia scientifica – lo studio di un nostro passato, le sopravvivenze di esso – il paradigma dell’esotico e del pittoresco, non del tutto estraneo alla scienza dell’uomo, diventa il nuovo paradigma in cui inaugurare, dopo il massacro planetario della guerra, il tempo e lo spazio di un pianeta geometrizzato ma ancora degno di essere guardato e scoperto, riscoperto. È necessario un nuovo planisfero, che insieme alle rotte navali, ai treni, alle future rotte aeree, vere lossodromie, finalmente, consenta il viaggio di scoperta, dia al viaggio rinomanza e risonanza, dia al mondo la possibilità di partecipare alla sua stessa scoperta. E, allora, si fa avanti una superficie nuovamente bidimensionale, capace di catturare la nostra attenzione, una superficie dove l’immagine possa illudere di profondità la visione, dove gli occhi possano leggere sulla superficie paesaggi, corpi, volti, oggetti: lo schermo cinematografico, la finestra cieca e luminosa del mondo, il planisfero dell’immaginario. Un grande quadro, prima quadrato, poi uno spazio rettangolare, dai bordi incerti che permettono alle immagini di debordare, di produrre, al contatto con le cornici, lo sfarfallio di un confine di inquadratura, l’incertezza di un corpo che entra in scena, la texture di un

paesaggio ridotto a luce, sovraimpresso a decori lignei o tende da sipario. Alle origini è un quadrato 1:1,33, poi 1:1,66, quindi nel 1929 l’Hypergonar, un altro standard tecnico, un’altra modalità della visione, lo scope: prevalenza del rettangolo, esperimento di nuove finestre, nuove cornici. Come nell’architettura modernista la finestra si fa nastro con Le Corbusier, evocando appunto la produzione del movimento in contrasto alla tesi del suo maestro Perret, la finestra verticale come rappresentazione antropometrica dell’uomo, scala dell’umano, così negli stessi anni Henry Chrétien, alla Università Sorbona, inventa il cinema panoramico. L’ottica dell’anamorfico produce così una morphé, la finestra si allarga: 2,35:1 le proporzioni dello schermo, 1:1,17 il mascherino del proiettore; l’occhio comincia a vagare sul piano, il planisfero si fa più insicuro, il focus ritorna nella scelta dello sguardo, nei nostri occhi: si delinea una nuova morfologia della rappresentazione orientata dal cinema. Se la finestra orizzontale di Le Corbusier si manifesta come attore principale della casa, la visione panoramica non si farà, da subito, architettura del vedere di massa. Le finestre, malgrado il movimento moderno, resistono all’orizzontalità, come il formato quadrato al cinema: l’Hypergonar, dopo un esperimento del 1932, scompare dalla scena per ritornarvi solo negli anni cinquanta, con la commercializzazione americana del brevetto e la sua diffusione, quando il rettangolo, l’orizzontalità accoglierà il suo pubblico in nuove sale e nuovi schermi. Progetto di visione iperspettacolare maturato contro il successo della nascente televisione di massa, televisione che, col suo formato da cuboide elettrodomestico, riporterà presto la visione nella tradizione del quadrato, e ci riaddomesticherà al focus. Perché così i bordi sono riassicurati. La polizza del reale nuovamente sottoscritta. Quotidianamente. E in larghe parti del mondo. Nell’on di un pulsante. Nelle nuove digitalità dell’esperienza che il Novecento produce su larga scala nella vita di ogni giorno: manopole, tasti, scritture meccaniche. Bisognerà attendere la contemporaneità, l’attualità degli schermi orizzontali. Ma intanto il cinema ha, da tempo, nel formato panoramico, verificato la possibilità di un compromesso tra focus tradizionale e quadro orizzontale. Resta ancora un nodo da sciogliere sulla via della storia di questa rappresentazione: la codifica di un linguaggio cinematografico che formalizzi il grado della rappresentazione, l’ordine di verità della stessa: tra il 1910 e il 1920, la geometria degli sguardi assumerà una sorta di forma logica, la forma storica di questi, nella rappresentazione cinematografica, diverrà quella che Noël Burch chiama modo istituzionale di rappresentazione. Definizione progressiva delle continuità attraverso l’invenzione dei raccordi, declinazione sintagmatica della contiguità, articolazione del campo-controcampo come sutura narrativa tra sguardi e azione, definizione di una spazialità che consenta ai corpi, nel piano sequenza e nel montaggio, di agire lungo le cardinalità di esso – l’attore può finalmente andare via rivolgendo la schiena allo spettatore, contraddicendo l’ordine di verosimiglianza di livello inferiore. E, infine, risoluzione ed elezione dell’interdetto primario del cinema classico: morte dello sguardo in macchina e sua celebrazione, rarissima ed eventuale, come sguardo brevissimo e accennato, indicatore di un fuori campo, di un oltre dove egli guarda, invitando lo spettatore a fare altrettanto, accettando la dimensione privata di esso – esclusiva dell’attore. Queste condizioni cartesiane, questa definizione assiale la cui conseguenza naturale, politico-scopica, sarà appunto un’assiografia lungo lo spartiacque principale e tradizionale di realtà e finzione, ovvero cinema di narrazione e cinema documentario, queste condizioni consentiranno il formarsi di una soggettività spettatoriale nuova e definita. Lo spettatore prende così possesso del punto di vista della macchina da presa, si fa ottica, è assunto alla funzione meccanica inconsciamente naturalizzata: eroe della messa a fuoco, trasforma ogni

visione nell’epopea di questa. Grazie a questa finzione necessaria, la tecnica della messa a fuoco rispecchia e abilita la continuità delle forme nello spazio, le forme spaziali nella continuità, nel paradigma del movimento che sta per definirsi, nella modalità della velocità del tempo di proiezione standard: ventiquattro fotogrammi al secondo. Ecco il totale delle vues tradizionali, la grande polizza del focus sulla attualità come storia, ecco il piano medio e il primo piano come strategie del focus puntuale, il punctum. Ecco appunto i soggetti messi a fuoco come oggetti. Chi mette in dubbio il proprio punto di vista, quando, come sappiamo, il nostro occhio non fa parte del nostro campo percettivo?80 Ecco il fuoco della questione. La messa a fuoco del soggetto. La ricostituzione qui del soggetto nel campo di forza del movimento, nello spazio tensoriale, nel nuovo immaginario già elettromagnetico della fisica, nelle leggi di Faraday e nelle equazioni di Maxwell. Mettere a fuoco. Rinascita del kinetoscope, della lucarne de l’infini, di una modalità in grado di conservare il mondo nella tradizione prospettica,81 salvando la novità del movimento, e così l’idea ingenua ma efficace dell’immagine cinematografica come analogon della vita, per superare la dimensione primitiva – spaziosa come scrive Longhi nel segnalare la rivoluzione di Giotto – a favore della proprietà spaziale della prospettiva, celebrare e garantire la cifra della modernità come memoria percettiva culturale della rappresentazione prospettica, come dispositivo da cui l’immagine movimento si dispieghi e si restituisca come nuova tradizione. Illusione di una distanza sempre utile alla rappresentazione perspicua, mentre il montaggio si fa via via invisibile. Stipulato un contratto semiotico del tutto originale e nuovo, inscritto nella durata convenzionale del film, affermata l’unità testuale, contro un cinema primitivo che formava i suo spettacoli sulla successione di reel diversi e di breve durata, spesso alternati a break e numeri dal vivo, lo spettatore condurrà la sua vita solitaria e comunitaria in una sala affollata, soggetto ancora cartesiano disposto a vedere e sognare. E, in questa vista, viaggiatore ubiquitario ma immobile, secondo la definizione di Burch, esplorerà il mondo sul planisfero luminoso dello schermo. Ecco allora il dispositivo: 1) la formazione di un nuovo ordine visivo attraverso le immagini in movimento; 2) la definizione di standard tecnici che consentono alle pellicole e alle immagini di riprodursi e moltiplicarsi; 3) la contingenza storica dell’immagine ancora muta che accosta ancora per poco cinema scientifico e cinema narrativo – l’elemento gestuale e motorio, la sua perspicuità, ricondotti cinesicamente nel registro dell’espressione; 4) l’immagine muta come immagine ingenuamente ma effettualmente ubiquitaria, non corredata della vocalità dal dialogo, dal mondo babelico delle lingue, cinegrafia come pittografia moderna; 5) l’invenzione di un viaggiatore immobile.82 Dato il formarsi storico del dispositivo e dei suoi codici di funzionamento, il paradigma esotico e spettacolare assume rapidamente le coordinate di uno spazio di consumo, di una pratica pubblica di immaginario, nel circuito di immagini e senso, immagini e sensi. La corporeal imagery dell’esotico consentirà intanto al mondo di farsi corpo, pelle, di assumere, idealmente, il sensibile come tangibile, di sussumere quindi il sensuale, la natura, l’incontaminato, la pelle nuda. Così come la diffusione planetaria di queste immagini provocherà una riedizione momentanea – lo spazio di una programmazione – di écran d’acclimatation, per così dire, etnoshow immateriali, panorami del mondo in forma di pellicole, sedimentando e popolarizzando, in forme diverse, tra esibizioni, musei, l’arte coloniale e negra e primitiva, la buona e diversa vita selvaggia, in una involontaria messa in scena rousseauiana del mondo, tra Samoa e mari del sud. Il salvage antropologico, infatti,

produce – ha già prodotto – il primo archivio: il cinema disporrà le immagini del mondo nel mondo, nel segno dello spettacolo, nella sua nuova economia di segni come di risorse, disporrà dell’altro come archivio, archeologia vivente, profezia dal passato, idea e nostalgia di una tradizione. E risponderà alla domanda di frontiere, avventure domestiche, di nuovi e vecchi primitivi, produrrà la canonica dell’alterità come ornamento della massa, o come romanticismo di massa. La scena del linguaggio geografico tradotto nell’epica delle ultime esplorazioni si traduce e viene così tradotta nella scena del linguaggio cinematografico: la camera sia testimone, il cinema sia la corte del tribunale spettacolare. La visione, il processo che accerta la natura delle prove, prova del documento, come in Flaherty o in Schoedsack e Cooper, o prova della finzione, come in Griffith, o in Ejzenštein. Tribunale del popolo, detto senza ironia. O nascita di un mercato mondiale di sguardi dove nuove morfologie della vita quotidiana, immaterialmente, si presentano, modalità nuove della credenza. Il film come materia delle impressioni. Emulsioni chimiche. Emozioni. Ovvero temi e patemi. Di cui il cinema si fa dispositivo pubblico. Ri-mediazione, e riedizione dell’assunto heideggeriano sull’epoca dell’immagine del mondo, transvalutazione riproduttiva di esso nell’ordine di una nuova potenza. Essenza della tecnica come dispositivo dell’esperienza spettacolare della tecnica stessa, nelle forma radicale della guerra, o nella forma mediale del cinema: Quando il mondo diventa immagine, l’ente nel suo insieme è assunto come ciò in cui l’uomo si orienta, e quindi come ciò che egli vuole portare innanzi a sé e avere innanzi a sé; e quindi in senso decisivo come ciò che vuole porre innanzi a sé, rappresentarsi. Immagine del mondo, in senso essenziale significa quindi non una raffigurazione del mondo, ma il mondo concepito come immagine.83

3.4.2. Popoli-nazione, battaglie per la vita, esodi filmati I film etnografici e di spedizioni codificano le ideologie delle nazioni e i desideri collettivi per la forma – espressa in schemi narrativi e generici socialmente accettabili, esteticamente piacevoli e commercialmente di successo – e la psicologia e i desideri dei singoli registi. Di conseguenza, è importante non solo prendere in considerazione le grandi ideologie come il colonialismo, l’orientalismo, il nazionalismo e l’imperialismo, che modellano il pensiero e l’immaginazione delle nazioni, ma anche le storie personali e gli imperativi dei registi, che aiutano a formare sia l’identità dei film maker che i loro film.84 Il tema fondamentale di Grass emerge in qualche modo dietro lo schermo; risiede nella grandiosa concezione del regista come nuovo esploratore, come viaggiatore intrepido e scopritore di terre esotiche, e questo è il mito del regista etnografico come eroe.85 Nel paradigma esotico, nella risoluzione pittoresca dell’alterità, Grass, 1925, di Merion C. Cooper, Ernest B. Schoedsack, e Marguerite F. Harrison, si offre come oggetto etnosemiotico e storico paradossale: etnosemiotico, in quanto testimone e prova di un punto di vista

diffusamente occidentale e americano dell’alterity, storico come risultato e traccia di una serie di precedenti cinematografici significativi (come le due versioni di The Arab, firmate da DeMille nel 1915 e Ingram nel 1924. Grass, infatti, è il prodotto di un mood culturale peculiarmente americano, epifania cinematografica di un topic diffuso che fa delle tribù nomadi un momento di attrazione culturale, di rispecchiamento della società statunitense. Il nomade è, infatti, l’otherness culturalmente embodied di una nazione popolo fatta di pionieri ed esploratori, manifesto di una storia recente e di un destino vivente, una otherness possibile in virtù di una riscrittura esotica e proiettiva, che ovviamente esclude e rimuove l’alterità dei nativi indiani confinati invece nelle riserve, obbligati alla stanzialità. Nomadi visti come memoria della lotta per la vita, come radice ideologica della cultura dei pionieri e come matrice culturale di ogni idea di progresso, traduzione spaziale e secolare dell’evoluzione darwiniana come della missione divina. La trascendenza verticale del medioevo descritta da Sloterdijk, orientata verso la città di Dio, rinasce nella forma di una trascendenza orizzontale nell’epoca delle scoperte. Al cielo si sostituisce lo spazio liquido dei mari come promessa del solido, della terra dove fondare e cominciare una nuova vita, terra i cui abitanti come minerali e vegetali e animali sono la varietà delle risorse, il risultato di una scoperta che il giuridico governerà in nome del diritto proprietario, di uno ius che grazie alle carte geografiche, alle rappresentazioni, ai regesti documentali, inscriverà nel segno della tradizione scritta e del potere di questa:86 I nomadi, nell’esotico, sono così davvero altri: oggetto di proiezione e riscrittura, dispositivo vivente di una nostalgia delle origini, certo, ma intanto risoluzione a distanza e nel movimento, delle immagini, dell’idea del viaggio, del libro del mondo come panorama: stato di proiezione.87 Grass - a Nation’s Battle for Life è un film del 1925, tre anni dopo la scoperta spettacolare dei ghiacci di Nanook, un anno dopo la morte del protagonista del film di Flaherty. L’economia di questo titolo, in attesa di esser descritta, opera su diversi livelli semantici. E incorpora valori e definizioni contraddittori, muove uno spazio di antinomie. Che cosa racconta il film? Qual è il suo plot? Due operatori, registi esploratori, e una viaggiatrice esploratrice, una donna giornalista, viaggiano tra Turchia, Siria, Iraq e Iran alla ricerca di un popolo dimenticato, di una tribù sconosciuta. Identificato il popolo dimenticato nella tribù dei Bakhtiari in Iran, il trio di esploratori ne segue la migrazione semestrale di uomini e bestie, la transumanza, dalle regioni secche e calde, alle regioni temperate dove trovare erba e foraggio per le bestie. L’economia del titolo resta però ancora in attesa della sua determinazione, sospesa tra promessa (il titolo stesso) e analisi del testo, come verifica e rimando. Ora se i titoli – i fenotesti – ci dicono comunque qualcosa, questo titolo dispone una sequenza di significati e altri ne suggerisce: l’oggetto della query – Grass, l’erba – come la ragione dell’esodo; la spiegazione della stessa: la battaglia per la vita; la definizione della stessa come “battaglia di una nazione”. Nomadi, qui inscritti nel campo di un indicatore del linguaggio politico, protagonisti ed espressione di una nazione, autori di una battaglia per la vita perché nazione. Tuttavia, come è noto, gli uomini non si nutrono soltanto di erba. E nel nome comune, grass, rinviene il significato di terra, suolo: ecco i pionieri lontani di un’altra nazione, già nazione in quanto esperienza di pionieri. Il film, nella sua prima parte, descrive

la ricerca infruttuosa del popolo perduto, eletto a questo ruolo, meglio electible, eligible. E coincide effettualmente con la ricerca di un oggetto documentario, di un popolo esotico e pittoresco cui votare l’impresa. Di quale popolo sono alla ricerca i tre esploratori? E cosa sappiamo della loro identità? Intrepidi, coraggiosi, anticomunisti, ciascuno in contatto con l’intelligence statunitense (la Harrison ha una lunga attività di spionaggio alle spalle, e una permanenza di quasi un anno nelle prigioni sovietiche, Lubianka inclusa). Cooper è stato artefice della squadriglia polacca anticomunista nella guerra russo polacca del 1921 e, abbattuto, è fatto prigioniero dai sovietici. Nascondendosi sotto falso nome, vista la sua notoria attività di propaganda e probabilmente spionaggio, sopravvive alla prigionia grazie all’aiuto della Harrison. Schoedsack ha lavorato per la Croce Rossa in Polonia negli stessi anni, e, probabilmente, è artefice di attività americane antibolsceviche. Firma due film della Croce Rossa sulle attività della stessa in Polonia. È amico di Cooper. Il film, allo stato di progetto, avrebbe dovuto raccontare la vita di una tribù curda ai confini con la Turchia in nome della “wildly photogenic country and most interesting costumes and customs”.88 A causa del rifiuto dei visti da parte dell’autorità turca, il progetto assume involontariamente le caratteristiche di un giro lungo, di una peripezia. Il film si costruisce così a partire da episodi casuali, veri e propri incontri con l’altro. Il quadro esotico è restituito dalle scelte di set-field dettate dalla ristrettezza del budget (10.000 dollari) e dalla pellicola disponibile: un caravanserraglio, tra Istanbul e Angora sulle rotte carovaniere, dove sono ospiti di carovanieri turcomanni, filmati con l’uso di torce nella notte; l’incontro con una comunità di pastori sulle montagne della Siria, e il film di una scena di caccia. Infine, grazie al supporto delle autorità coloniali inglesi, l’identificazione dei Bakhtiari come tribù ideale per il film, nel segno del pittoresco, dell’autentico, della eccezionalità visiva della loro vita di migranti per luoghi di desolata e straordinaria bellezza, produrrà il detour vero e proprio del progetto. Il trio di esploratori nella prima parte del film costruisce e riprende la scena di una detection: filma se stesso nel suo farsi. Grass si presenta come un film ma, di fatto, al di là delle convenzioni e della sua formalità è piuttosto un metafilm. Aderisce alle convenzioni del genere, introduce nel montaggio carte geografiche, rotte e tragitti, eppure agisce come un’involontaria, casuale ed esotica etnografia visiva, nel segno e nell’ambiguità del field come set. La storia del suo farsi è ovviamente, per la prima parte, la storia di una messa in scena, generata dalla flagranza del set – la scena del caravanserraglio – e dalla coscienza del re-acting e del re-enacting: la povertà di mezzi, le difficoltà ambientali, fanno sì che la scelta di girare sia frutto di un’attenzione esplicita verso l’oggetto da filmare, nell’ipotesi evidente di una restituzione del pittoresco. Tuttavia, nel quadro dell’esotico, e delle convenzioni di rappresentazione dell’altro, le procedure ingaggiate non differiscono troppo dalle procedure ipotizzate da Boas; muta evidentemente lo sguardo, come la volontà scientifica, ma rimane una generica adesione al salvage, in termini di nostalgia e di coscienza etnocentrica. Il modo di rappresentazione istituzionale, dell’intuizione di Burch, è ormai pienamente compiuto: lo sguardo in macchina è interdetto, le scene sono scene esemplari, recitate. Il montaggio alterna totali a riprese ravvicinate. La presenza dinanzi alla camera della Harrison oggettivizza il noi-loro, lo determina nella visibilità del set, non rimanda allo sguardo, o alla macchina da presa, si dà come testimonial del there. La Harrison restituisce e obiettivizza qui la presenza dell’altro tra altri, l’esota di Segalen, nelle forme seducenti e affascinanti di un corpo femminile: sensualizzare la scena, riportare al corpo l’esperienza del vedere, di chi, spettatore, vede. Dinamica dell’attrazione. Dell’attrattore sessuato. Il corpo come operatore

patemico. Ma è nella seconda parte del film, meglio nel climax visivo e narrativo del film, che Grass manifesta una sua diversa natura. La transumanza con l’attraversamento del fiume Karun e l’ascesa della vetta dello Zardeh Kuh si definiscono in un quadro essenzialmente patemico: l’esodo diviene epopea. Cinquantamila uomini e migliaia di bestie si muovono e attraversano le acque tumultuose e gelide del fiume su zattere improvvisate, con salvagenti e galleggianti di pelle di montone. Animali muoiono travolti dalla corrente, altri vengono soccorsi e salvati; donne, bambini e vecchi vengono assistiti dai più forti; l’intera comunità offre se stessa al film nei gesti del lavoro e nella sfida del rischio. L’ascesa alla vetta vede una popolazione a piedi nudi, scalza, che si inerpica in un sentiero battuto dalla neve, nel gelo, con gli animali più giovani sulle spalle di uomini e donne. Il pathos della traversata è frutto di un montaggio dove totali e dettagli si alternano, dove Schoedsack, cui si devono le riprese, risulta un performer straordinario: esperienza fisica dell’occhio che vede, all’inseguimento dell’immagine giusta – giusto un’immagine, commenterebbe Godard. Nel quadro esotico penetra l’eroico: i cinque giorni dell’attraversamento del fiume. I totali si fanno così essenziali e sublimi nell’inquadrare, nelle distanze, la scena: ecco il totale epicizzante a richiamare qui lo statuto del narratore onnisciente del romanzo classico: il mondo, quel mondo, si offre come immagine – si costituisce come tale per tutti noi che vediamo la scena, il set. Unicità del set, evidenza del field: la grammatica del girato e la sintassi del montato restituiscono evidentemente la scelta patetica ed epica, a fronte però di un’irriproducibilità evidente della messa in scena, della scena.89 L’esodo non può essere fermato: la scelta del totale nella scena della vetta non consente altre rushe – dalle notizie di set, poi, sappiamo dell’esaurimento della pellicola. Come del resto, accadeva già nelle sequenze di attraversamento del fiume Karun, dove le bestie affogate non potevano certo affogare nuovamente. L’editing del film, l’uso dei cartelli, i testi di questi, sembrano invece proporre una ulteriore lettura, riportare il film, oggetto complesso, prodotto di esotismo ed etnografia involontaria nella sua prima parte, documento visivo estremo e unico nel suo finale, nella logica narrativa di una scena culturale ed economica di esotismo razziale, coloniale, fortemente etnocentrica. Di una geografia visiva dettata dal caso, dal gusto dell’avventuroso, inscritta nella tradizione razzista dei film di spedizione. Nel costituirsi di un immaginario del pittoresco, incapace di occultare, nell’estetico, come gradevole o stupefacente, la natura razzista del progetto di linguaggio e rappresentazione dell’altro. Testo di genere (il documentario classico esotizzante) e testo ultroneo rispetto al genere stesso – l’evidenza della peripezia da una parte, e le scelte grammaticali, i piani sequenza finali e di montaggio dall’altra (la durata della scena dell’attraversamento, poco meno di dieci minuti su settanta, un tempo enorme e inusuale, pur nella eccezionalità dell’evento dal punto di vista visivo – Grass - a Nation’s Battle for Life si presenta come un testo ambiguo. Ambiguità evidenziata dal testo dei cartelli dove alla polisemia del visivo si accompagna un elenchos di luoghi comuni, una spettrografia involontaria dei fantasmi dell’epoca.90 Al behaviorismo da cinema classico a venire della tradizione americana, al behaviorismo come prassi di una storia della rappresentazione che nel cinema delle origini e della nascente modernità cinematografica non può non esemplificarsi nella linea del gesto e dell’azione, si intercala qui un testo che, come una linea guida, prescrive la storia dell’altro nel segno del noi, una piccola didascalia dell’occidentalismo. I Bakhtiari, ritratti dai titoli in testa al film diventano, infatti, i nostri mitici antenati ariani:

La via del mondo va a ovest. A lungo i saggi ci hanno detto dei nostri antenati ariani alla conquista della terra lungo il sentiero del sole. Quindi il film ci offre una panoramica su delle camelie e verso l’orizzonte, e quindi, ancora dai cartelli, la struttura di una indicazione: Dietro le nostre spalle, a est, sono i segreti del nostro passato, e la tradizione dei nostri fratelli che ancora vivono nella culla della razza – un popolo da tempo dimenticato. A seguire, ecco allora la presentazione filmata dei nostri intrepidi esploratori, voluta dal distributore Lasky, e della Harrison, presentata come un’elegante viaggiatrice la cui vita e il viaggio stesso dipendono dai suoi compagni di sesso maschile. Evidenza di pregiudizi di genere, di razza, convenzioni narrative, la scelta di presentare i registi come testimonial dell’evento filmato: tutto questo invita lo spettatore a una scena dove il senso del viaggio è appunto la pratica di un noi, dove la scena ricostituisce, nel principio di distanza, una genealogia evolutiva, dove gli ancestor sono appunto i nostri primitivi, ma questi primitivi sono davvero, perché ariani, i nostri veri ancestor. E tuttavia, nell’evidenza di un sistema di giudizi e pregiudizi che orienta la vista, la guida, nell’evidenziarsi netto del paradigma esotico di restituzione, risalta la dimensione metafilmica di Grass, la sua costruzione diegetica, la sua self-reflexivity. Pur considerando la diegetica della detection come parte costitutiva del racconto, l’inserzione di elementi extradiegetici e documentali paradossali – la lettera del capo tribù Haidar Khan scritta in persiano e da lui firmata attestante il passaggio dello Zardeh Ku, e tradotta in inglese e validata dall’autorità coloniale – Grass è ancora essenziale per comprendere come lo spettacolo etnografico delle origini, tra Ottocento e Novecento, sia il crocevia essenziale di pratiche di segni e di modalità del vedere dove l’antropologia scientifica, i linguaggi dell’esotico, la geografia e il cinema scientifico intrecciano pratiche di restituzione e di immaginazione, in senso letterale, dell’alterità. La costruzione grammaticale e sintattica del film, il suo farsi tale attraverso la pratica del cinema, la costruzione della pratica di field e delle grammatiche e retoriche di restituzione – la restituzione visiva dell’esperienza come matrice della scienza, andranno ad intersecarsi in una scena drammatica di denegazioni e rimozioni, di embricamenti. All’antropologia non resterà che provare a trascendere e rimuovere la scena spettacolare della sua costituzione pubblica e storica, al cinema di trascendere e ridefinire, nello spazio pubblico, la matrice scientifica delle sue origini, il tournant bellico del suo sviluppo, la messa in crisi possibile, attraverso l’image-mouvement, degli statuti storici del senso comune visivo, verificando e validando nell’esito spettacolare la forma stessa dei suoi testi, i film. Ma la questione della narrazione visiva, del visual come pratica narrativa, e della narrazione come forma di conoscenza e restituzione del mondo del reale e nel reale, ci sorveglia come un occhiuto angelo benjaminiano. La diversità e la molteplicità dei treni e dei passeggeri, come delle direzioni, della storia dei viaggiatori di noi come degli altri, rende più acuta questa percezione, parafrasando Lévi-Strauss. Dinanzi alla tenda dell’etnologo, alla sua incerta coevalness, sostano sguardi di soggetti, sguardi coevi ma lontani, seppure prossimi e contigui, sguardi differiti, differentemente coevi e lontani. Sguardi abilitati di antropologi e

scienziati sociali, sguardi pubblici, diversi e molteplici, anche questi vicini e lontani al tempo stesso, se la tenda, per caso è stata fotografata, o addirittura filmata. La lettera di Haidar Khan filmata e fatta immagine, validata dall’autorità etnografica coloniale – etnopolitica esplicita del topos geografico e retorico –, la lettera validata a certificare il “there” del filmmaker, si offre qui come la lettera rubata. È lì da leggere, nei suoi caratteri persiani – ragione grafica –, ci sia o non ci sia la traduzione inglese. I primitivi, questo ci dice, talvolta e addirittura scrivono. Lo specchio scrive. Lo specchio riflette. Nei due sensi del termine.

3.4.3. Il film della giungla o di altre variazioni animali e razziali Chang arrivò al momento giusto. Era l’epoca in cui tutta una letteratura del reportage scopriva un nuovo senso dell’avventura e ispirava nel pubblico un fascino portentoso. Tutto a un tratto, su questa tela bianca della vita banale delle nostre città, sorgeva un mondo sconosciuto […] Il mondo familiare si eclissava, mentre l’altro andava definendosi, con nomi di fiumi e di animali per noi tanto misteriosi e appassionanti quanto i nostri sogni.91 Nel cuore del paradigma esotico si situano, nitidamente, due altri film di Cooper e Schoedsack, due altri esempi di geografia visiva, due fiction geoscopiche, due etnotopie fantastiche e situate dove il sistema del pregiudizio e il piano del pittoresco lavorano adesso nel frame economico produttivo del sistema hollywoodiano: Chang girato in Thailandia nel 1927, Rango ambientato a Sumatra nel 1931. Film situati, dove l’esperienza di set si dimostra affine a quella del field. In Thailandia Schoedsack, accompagnato dalla moglie e da Merion Cooper, esplora aree diverse alla ricerca di luoghi esotici e significativi. Utilizza come informatori missionari e nativi, sceglie degli indigeni come attori ed elementi della troupe: resta sul campo nove mesi. È arrivato con un contratto e senza alcuna sceneggiatura: osserva la vita reale e cerca di leggerla nel paradigma esotico della lotta della vita e dell’asimmetria tra uomo e natura, nella struttura di una narrazione che accetta le principali convenzioni, il modo di rappresentazione istituzionale del modello di Bürch,92 ricodificandole e amplificandole nella chiave dello stupore e del patemico, inscrivendo il film nel genere di una commedia morale con elementi slapstick, ma di fatto producendo le condizioni – il profilmico – di una etnofinzione esotica. Campo prolungato, interazione quotidiana coi nativi, alcuni dei quali convertiti al cristianesimo, come entrambi i coniugi osserveranno rammaricati in interviste e memorie, abitazione presso il villaggio, scrittura visiva del film a partire da suggestioni locali e da interazioni ambientali. Produzione testuale al ritorno negli Stati Uniti: montaggio, edizione. Storia edificante della lotta per la vita, ancora una volta, dove la natura assume la forma del mondo animale, gli elefanti, e dove gli uomini, per non soccombere, negoziano con essa attraverso l’astuzia e la tecnica: regno della metis piuttosto che della hybris. Ecco Chang, film per tutti, adulti e bambini, un film morale, della moralità della realtà, diremmo oggi, frutto di un paradigma dell’immaginario occidentale che incontra luoghi esotici e lontani, che stressa la finzione etnicizzandola: corpi orientali e locali, grammatiche e sintassi del racconto occidentali. Costruzione e individuazione di un etnotopos processato nella finzione e, letteralmente, immaginato: teoria di una pazienza, di uno stato stazionario del carattere

orientale; film senza furore e senza tragedia, etnofinzione di un carattere culturale narrativizzato per immagini. Ciò che visivamente interessa la coppia di cineasti è il racconto visivo di un mondo animale, di una giungla fatta di tigri ed elefanti, di una domesticità fatta di animali da cortile, piccole scimmie, bambini, e delle relazioni tra i piccoli e gli animali, delle scimmie come presenze simil-umane che accompagnano il quotidiano. La lotta contro la tigre prima, e contro gli elefanti poi, il cui esito, nel secondo caso, sarà l’addomesticamento dei grandi animali, è una sorta di microapologo morale, una didascalia dinanzi alla fascinazione del paesaggio, alla opulenza grandiosa degli animali, al filming di questi da angoli di ripresa rischiosi e inusitati, alla ricerca di un contatto visivo dinamico: le tigri da una piattaforma, nell’atto di aggredire il cameraman, gli elefanti da una fossa scavata nella terra per inquadrare la loro avanzata dal punto di ripresa più basso possibile. Ma quanto più colpisce, del mondo animale interpretato e restituito dal film, è l’ingresso in scena della scimmia: Molto del paternalismo del film deriva dall’uso della metafora della scimmia. In Chang, immagini di un membro del villaggio, vecchio e raggrinzito, sono inframmezzate con quelle di una scimmia, e il parallelo ha l’ovvio intento di provocare ilarità nello spettatore.93 Scimmie prensili, domestiche, scimmie i cui sguardi in macchina vengono ricercati e reperiti, inseguiti e restituiti: l’interdetto classico del cinema non si applica agli animali, soprattutto se l’animale è il più prossimo cugino dell’homo sapiens. Sguardo animale in macchina: una sutura spaziale tra le specie, un atto filmico di verità: l’animale non recita, vive. Gli indigeni, abbastanza vicini agli animali, sono attori eccellenti, naturalmente portati a reagire all’obiettivo, perché essi vivono. Il cinema è il geniale by-pass che nella stessa inquadratura, consente ai movimenti umani e animali di comporsi producendo un senso, suscitando, in noi che vediamo, la possibilità di un montaggio sensato del movimento: la cadenza, la serie. E cos’è il cinema se non la registrazione del movimento, o addirittura la reinvenzione di esso, la certezza scopica della sua rappresentazione? La discrezione del movimento, la cronofotografia delle forme nella continuità spaziale – da Marey a Boccioni –, la validazione ultima del corpo come movimento, la scoperta o l’invenzione della cinesica come marker razziale. Nelle cronofotografie di Régnault gli africani si arrampicano sugli alberi proprio come scimmie. Nello spirito del movimento, lo spirito è, finalmente, effabile. Forma mentis. Scimmie gentili, piccole scimmie, giocose e tranquille, impaurite e scherzose, scimmie da spalla, come la scimmia che di lì a pochi anni avrebbe accompagnato un giovane professore francese di sociologia all’università di São Paulo intenzionato a diventare etnologo: scimmie affettuose da cinema abitano la scena del film. Scimmie ancora gentili. Ma, attenzione: già nel film successivo di Schoedsack, a firma esclusivamente sua, il corpo della scimmia avrebbe avuto un’altra stazza. Rango è ancora un film on location, ambientato questa volta a Sumatra, che racconta la vita di una famiglia presso Aceh. Film di contatto presso una tribù riottosa nei confronti delle locali autorità olandesi, realizzato in nove mesi di set-field, nella vita trascorsa con la moglie in una capanna di bamboo, e grazie alla conquista della fiducia dei nativi. Anche questo film restituisce le consuete convenzioni, le mappe, i mappamondi, la localizzazione – come le etnografie d’epoca, ovviamente, per trascinarci poi

nella vita della giungla. E nella giungla, Shoedsack intravede e inventa la vita di una specie diversa di scimmie: l’orangutan avanza come protagonista, emerge dalla natura, in un film per bambini, come in una favola. Prologo di un’altra emergenza, di un’altra fabula: King Kong. O della finzione etnografica. Le fiabe, come si sa, sono popolate da mostri.

3.4.4. Protocolli del film etnografico ed esotico, memoria dell’ibrido, proiezione del perverso E certo è impossibile definire cosa sia poi un uomo, poiché non è certo il risultato dell’unione sessuale tra due esseri umani, perché come tutti l’uomo e la scimmia possono procreare insieme. Questo è quanto scrive John Locke nel Trattato sull’intelletto umano (1690), nel terzo libro, capitolo IV, al paragrafo 23. E i pigmei com’è altrettanto noto, secondo l’opinione di Tyson, contemporaneo di Locke, risultano strutturalmente più simili alle scimmie che agli umani, come recita la sua memoria di anatomia comparata a seguito della dissezione di un orangutan, del 1699.94 Selvaggi africani e grandi scimmie disegnano uno storico puzzle nella storia della grande catena dell’essere: sebbene Pitt Rivers abbia dimostrato sperimentalmente, a Torres Strait, 1901,95 che le percezioni sensibili dei savage siano equivalenti alle percezioni sensibili dei civilized, demolendo il luogo comune dell’equivalenza selvaggi-bestie, la topica dell’ipersensibilità percettiva, il bias storico scientifico, attraversa e struttura l’immaginario sensibile del mondo spettacolare. Da queste radici, saldamente fitte nell’empirismo inglese, e dalla tradizione degli amori bestiali, della mitologia e dei bestiari, King Kong avanza così, imperioso, nella scena della modernità. E se di King Kong, e della sua versione del 1933, ricordiamo di solito le scene newyorkesi, la gloriosa battaglia tra piccoli caccia e la grande bestia indomita e terrorizzata sull’Empire State Bulding, nel cielo sopra la giungla d’asfalto della città, metafora viva nei noir e nel lessico popolare al finire della stessa decade, di solito la memoria tralascia l’incipit realista del film, la sua natura di metafilm,96 risolto prima come commedia, quindi come regime e tragedia del contatto, poi come salvage di un noi in seducenti forme femminili il cui futuro è da proteggere. Nel porto di New York una nave è alla fonda, in attesa della partenza. C’è un’impresa da compiere, una spedizione già allestita: l’impresa ha il carattere misterioso di un’esplorazione. Si fonda sulla volontà del protagonista – il regista produttore – di girare il film esotico e antropologico più importante della storia. Al film, purtroppo, manca una protagonista. Il pubblico, infatti, ormai richiede questo: una donna, un bel faccino. Intanto i marinai stivano bombe a gas e altre armi, e il capitano della nave manifesta la sua preoccupazione. La rotta è ancora sconosciuta. Manca ancora la protagonista. Non resta che cercarla nella notte, perché la partenza va affrettata: la polizia ormai sospetta quello strano carico. E, nell’oscurità di una strada malfamata, una giovane fanciulla in cattive acque sarà preda dell’ambizioso regista. Si salpa. Rotta verso l’isola sconosciuta, l’Isola del Diavolo. Lungo la rotta, ecco la preparazione del film. Ovvero prepararsi al reale, filmarlo e fermarlo nella pellicola. La fanciulla sarà l’ornamento, il feticcio umano. La trascendenza orizzontale di Sloterdijk esige, adesso, l’immagine come risultato. E il pathos. Alla ricerca della bestia, il regista produttore produce la bella nel kula occidentale

dell’immaginario. Ai nativi andranno merci, doni, paccottiglia, cargo cultura per cargo culti, al monstrum una meraviglia, la donna dai capelli d’oro – il feticcio sessuato la cui rappresentazione indigena (capelli d’oro) modella la sua cifra simbolica e di scambio nella metaforica occidentale del metallo più prezioso delle conquiste, la moneta della vita. L’oro che, dal canto suo, è la condizione storica occidentale della vita della moneta stessa, il suo fondamento, ma anche l’immaginario: il valore si costituisce infatti come teoria, l’oro luccica. E il cinema lavora la luce: anche in un film in bianco e nero i capelli delle bionde sono biondi, e l’oro è giallo, nella grammatica culturale della percezione. Che cosa va in scena allora, che cosa diviene racconto? Una economia semplice della perversione. O, meglio, la perversione dell’economia: si viaggia e si filma alla ricerca della Grande Scimmia, per produrre il desiderio come surplus, il mai visto, l’altro come piacere e come orrore, la scena cannibale, o la copula tra scimmia e donna, per la nascita di una chimera probabilmente negra. Oppure, più semplicemente, in un ordine diverso dell’economia della perversione, diventa necessario produrre la bestia, come appunto accade nel film, come attrazione, superriedizione degli show di freak, savage, animali, di quegli etnoshow di cui il cinema si fa guardiano e profeta. Bestie a New York per il grande lunapark dell’immaginario, la modernità spettacolare della grande mela, la metropoli che sfida il cielo. Del resto, nella scena di Chicago, nel 1893, nell’altra skyline della modernità americana, nella sua architettura di torri del progresso, officina del movimento moderno americano di architettura, Franz Boas non aveva puntualmente riprodotto – re-enacted – una scena cannibale, il rituale della Hamatsa? In nome della scienza i Kwakiutl recitavano il rituale, in un padiglione della modernità spettacolare. Nel segno della conoscenza spettacolare, di una (im)moralità nuova e necessaria del vedere e del mostrare, la spedizione di King Kong celebra se stessa come dispositivo della vista come tecnica di ripresa, macchina spettacolare, in una sorta di parodica e profetica anticipazione della scena del consumo spettacolare enunciata da Debord negli anni sessanta. Il film esotico, etnografico, è il nuovo feticcio. L’immagine esotica è, ormai, pienamente feticizzata: l’arte, l’economia coloniale, i viaggi impalcano e impagliano il feticcio. Nel cortocircuito di senso prodotto dalla convivenza e coevità dei film di Osa Johnson e di Joseph Cornell, delle avventure esotiche di Congorilla e del remix di Rose Hobart, dove l’esotico di East of Borneo di Melford diviene pura reliquia del reale, reinvenzione materiale, nel montaggio, dell’esotico come fuori campo, come brusio e stupore negli sguardi dell’attrice Rose Hobart, a insinuare il vero pericolo cifrato nell’esotico stesso: non tanto lo straniamento quanto la relativizzazione del sé, della conoscenza di se stessi.97 Nella consapevolezza storica che si tratta di oggetti mediali diversi destinati a destini diversi dell’immaginario collettivo, distinguendo tra prodotti industriali, e pratiche di found footage, film di esplorazione e film d’artista. Ma ritorniamo a King Kong, al luogo dell’evento, allo spazio primitivo matrice del film; ecco, finalmente, l’isola, il topos classico di utopie e distopie, il topos più netto del bordo e del finito, quanto di più geometrizzabile nella forma del cerchio,98 quanto di più isolabile: l’acqua, il mare che la segna e disegna. L’isola, non segnata sulle mappe, si rivela. E la scialuppa che approda con la bella, il regista, e alcuni uomini d’equipaggio, subito incontra i nativi al culmine di un rito di sacrificio: l’imperativo allora è filmare. Il protocollo del regista etnografo non prevede l’operatore: potenza della coincidenza di occhio e sapere, del filmare come una modalità più precisa del vedere stesso, del soggetto e della sua protesi meccanica come espansione della vista, da Vertov al cinema expanded che sperimenterà, con mezzi

diversi, la quotidianità, i riti sociali, la luce. È il protocollo della futura antropologia visiva che chiede all’antropologo di farsi regista. Coincidere coi propri occhi e con la protesi necessaria: cinepresa, oggi videocamera. Dinanzi alla troupe è il rito, il sacrificio: siamo a est di Sumatra, indigeni, negroidi oceanici, sacrificano a Kong, il dio bestiale. Il dio ancora invisibile. Un muro gigantesco separa la baia dal resto dell’isola. Dietro il muro, l’ignoto, e certo la memoria cinematografica di Lost World, 1925, di O’Brien, prima rappresentazione di un parco giurassico, parodia realistica del mondo darwiniano, il cui autore firma i modellini di King Kong. L’isola del Diavolo di Schoedsack e Cooper è una Galapagos nell’Oceano Indiano per grandi animali preistorici, per archeologie viventi, proiezioni dal passato, sopravvenienze darwiniane, negroidi oceanici: memoria pop della teoria delle razze polinesiane che dal 1778, attraversa il pensiero occidentale, frutto delle riflessioni di Forster, il naturalista della spedizione Cook, e delle successive ricerche di Buffon, Bouganville, Cuvier, culminata nell’invenzione finale delle due razze, polinesiana e melanesiana, tracciate dal colore della pelle, ovviamente, le cui danze samoane si esibivano già nei Kinetoscope di Edison.99 E di cui il film sedimenta, in forma spettacolare, il riflesso culturale nel make up dei primitivi. Se lo scopo della missione è filmare, la messa in scena del film diviene qui il fuoco della questione. Che cosa detta, allora, quest’imperativo categorico, per così dire? Filmare a tutti i costi: protocollo estremo del cinema, e dello spettacolo, parodia dello spettacolo etnografico, celebrazione dell’autentico come forma e limite di qualunque verità, e anche, di qualunque orrore. Annullamento dello sguardo, ed elezione meccanica del filming, dello shooting, della scena, trascinandoci qui il doppio senso inglese del termine, dalla scena originale del film, dall’apologo del regista dinanzi all’equipaggio: “Il mio operatore, impaurito, al momento di girare (shooting) fuggì dinanzi alla bestia feroce, mentre io gli ero accanto pronto a sparare (shooting)”. Filmare, uccidere. Teratologia. Dopo e oltre la tassidermia romantica, secondo il lessico di Tobing Rony. Imperativo del filmare: parodia e prescrizione parodica della pratica filmica, dell’istanza del salvage – il rito imperdibile – il rito diventato e reificato come scena imperdibile, al cospetto del muro fantastico, del confine che ripara la baia e il villaggio dall’ignoto. E se, come sappiamo, dietro il muro, l’ignoto ha le forme di un parco giurassico, il rito acquisisce senso e significato. La recita del visibile e dell’orribile dinanzi al muro raffigura soltanto il rituale: rito e sacrificio raccontano dell’ordine tra natura e uomini. La morte della fanciulla nativa assolverà il patto tra presente e storia naturale. L’offerta necessaria. Al di là del muro la perversione scompare: la scena dell’accoppiamento bestiale è la scena mitica di qua dalla parete, dalla parte del noi, così come l’incrocio possibile tra uomini e scimmie, la chimera probabilmente negra. Se King Kong è allora una teratologia, dopo la tassidermia romantica di Flaherty, secondo il vocabolario di Tobing Rony, allora il cinema sembra spiegarsi come il teatro anatomico di questi corpi. La riedizione popolare della scienza dell’altro. O, piuttosto, il dispositivo spettacolare del fantasma. Nell’icona spettacolare della scimmia, Darwin e il fantastico, il razziale e la scienza popolare dei musei di scienze naturali americani si sublimano come entertainment, trama di una scia bestiale che segna il cinema hollywoodiano di quegli anni100 nella misura perturbante di un etologia fantastica dove si gioca certo la perturbazione del sé, così come quella degli ultimi primitivi del moderno. Dove si avviluppa e si sviluppa il nodo stesso dell’alterità storica come grafo di simboli, scritture, restituzioni, immagini del reale, processi economici e politici. Il nodo Borromeo dell’immagine dell’alterità, all’intersezione di chi filma

con chi è filmato, e dei mezzi tecnici di produzione di immagini.

3.5. Paul Fejos o the several lives of a man – dalle etnotopie alle etnografie Nel 1936 una spedizione etnografica finanziata dalla compagnia Nordisk e dalla Società geografica danese raggiunge via mare il Madagascar. Scopo della missione è realizzare una serie di documentari a carattere etnografico, raccogliere artefatti locali, documenti di vita indigena. Alla guida della spedizione troviamo un uomo di nome Paul Fejos. Per la verità dei nomi, il suo nome di battesimo è Pál, ma sulla via della emigrazione la lezione ungrofinnica del nome apostolico ha trovato la forma anglosassone. Nelle sue diverse vite, Fejos è già stato medico a Budapest, ufficiale pilota di aerei nella prima guerra mondiale nell’esercito di Francesco Giuseppe, ha visto e vissuto il crollo della Cacania musiliana, girato dei film muti in Ungheria, si è dato al teatro. Dopo il crollo dell’Impero si è recato oltre oceano, dove ha vissuto per qualche tempo da pianista, per approdare nei primi anni venti alla Rockfeller Foundation e dedicarsi a ricerche virologiche. Nel 1926 Pal, divenuto subito Paul, alla scienza unisce nuovamente lo spettacolo: il suo primo film americano si intitola Last Moment ed è salutato come un geniale film di avanguardia, attualmente perduto. Il film perduto, nel 1926, era appunto un piccolo capolavoro d’avanguardia, capace di suscitare l’attenzione di Charlie Chaplin e di favorire, grazie a lui, l’abbandono della scienza per lo spettacolo. Fejos raggiunge così Hollywood. Carl Laemmle, il boss della Universal di origine tedesca, frutto della prima grande emigrazione intellettuale Vienna-Berlino-Hollywood, quella del primo dopoguerra europeo del Novecento, lo assume come regista. Fejos firma di lì a poco, nel 1928, Lonesome, uno dei film più semplici e affascinanti degli anni venti hollywoodiani, la storia quasi nouvelle vague di un operaio e di una telefonista, innamorati quasi per caso a Coney Island, in una giornata di festa, e separati dalla sorte nel segno di un incidente in una giostra, film recensito acutamente da Michelangelo Antonioni101 su Cinéma e cui si ispirerà Luciano Emmer102 per il suo Domenica d’agosto nel 1950. Lonesome, spesso apparentato a The Crowd di Vidor,103 salutato nel 1929 da Kracauer sulla Frankfurter Zeitung come uno dei film holly​woodiani più importanti degli anni venti,104 traccia in forma inedita una poetica del quotidiano, si offre oggi come un documento della every day life urbana degli Stati Uniti dell’epoca, così come Menschen am Sonntag di Siodmak, Wilder, Ulmer, lo sarà dell’Europa coeva. Il film ha successo, e lo spettacolo sembra essere la nuova casa dell’apolide ungherese, versato per le lingue e votato ad amori a prima vista. Ma tra amori e film, tra dubbi e passioni che appassiscono, già tre anni dopo Fejos lascia Hollywood e gli Stati Uniti, direzione Europa. Parigi è la prima tappa, dove firma ancora un film di culto, questa volta di genere, Fantomas. Poi breve ritorno in patria via Vienna, dove firma ancora un’interessante commedia, e quindi un quasi capolavoro come Tavaszi Zápor (Maria leggenda ungherese), di cui esistono tre diverse versioni, ungherese, francese e tedesca, un melodramma in un villaggio di pescatori la cui sceneggiatura riprende tradizioni popolari del lago Balaton, e per questo è stato oggetto di studi etnologici e considerato, con una certa approssimazione, un film etnografico. Sempre sul lago Balaton è ambientato Ítél a Balaton (Tempesta sul Balaton), ancora del 1934. I casi

amorosi riportano, nello stesso anno, Fejos lontano da Budapest. I paesi scandinavi sono la nuova tappa. Qui Fejos incontra Wenner Gren, un ricchissimo industriale svedese, che diverrà il mecenate della sua vita. Firma alcuni film di finzione in Danimarca, tra cui un notevole melò, Det Gyldne Smile, e una commedia brillante Flugten fra millionerne. Fejos è però ormai attratto da luoghi lontani, esotici, estremi. Da una volontà etnografica maturata nel segno delle spedizioni. Nel 1936 sbarca in Madagascar. Esito della missione: sei film di circa dieci minuti l’uno, una collezione di oggetti etnografici donata alla Società geografica danese in buona parte, e ad altri musei americani, la decisione di trasferire interessi e competenze verso l’antropologia. Fejos non ha un training antropologico, ha interessi molteplici e variegati. Tra il 1936 e il 1941 firmerà quasi una ventina di documentari etnologici, nel senso storico di questo termine, due film a soggetto, due etnofiction assai diverse l’una dall’altra, una monografia di campo, Ethnography of Yagua, una monografia archeologica, sulla scoperta da lui realizzata nel 1940 sulla cordigliera andina del sito Wiñay Waina, sito cerimoniale presso Machu Picchu; insegnerà antropologia alla Columbia University e alla Yale, parteciperà alla scoperta dell’uso del carbonio 14 per la datazione dei reperti. Lavorerà alla Wenner Gren Foundation, di cui sarà direttore scientifico sino alla morte, nel 1963.

3.5.1 Esercizi di antropologia esotica I film antropologici di Fejos riguardano due aree definite geograficamente, il Madagascar e l’Indonesia, e una popolazione, gli Yagua, stanziata al confine tra Paraguay e Amazzonia. I documentari si presentano nel classico formato del tempo, dieci minuti circa, immaginato come complemento e attualità esotica – viste dal mondo – da presentare nelle comuni sale cinematografiche. La prima serie il cui titolo internazionale è Orizzonte nero (Svarte Horisonter) consta di sei titoli.105 I film presentano una breve introduzione di tipo geografico, una cartina a segnalare la posizione della spedizione, una grafica a ricostruirne i movimenti nell’area, l’immagine degli uomini della spedizione, tra cui Fejos, in portantina nella savana o nella giungla con caschi bianchi e abiti intonsi da esploratori, a illustrare e confermare l’immagine standard delle imprese esotiche. I film invece, nella tradizione convenzionale del documentario con commento off, risultano assai più interessanti di queste premesse. La qualità formale di Fejos, straordinario regista di studio, ma capace di lavorare in ambienti naturali, come in Tavaszi Zápor, fa sì che la grammatica di queste immagini sia di estrema trasparenza, e che lavori narrativamente, nel segno di una produzione intesa e pensata ancora nel segno dell’esotico, ma risolta dentro una costruzione orientata dalla fiction. Nello stesso tempo, il girato invece, il framing, sembra l’equivalente formale della tradizione delle monografie classiche di ispirazione funzionalista, la cui descrittività si risolve nella definizione piana di spazi e luoghi, nella bassa densità di aggettivi qualificanti gli stessi. Fejos usa dei totali, procede con delle panoramiche a leggere i bordi di uno spazio rituale – come in Bilo, il cui oggetto è una cerimonia funeraria – ritaglia i primi piani con un gusto teatrale ed etnografico di presentazione: lo sciamano, il capo villaggio, la famiglia del defunto. Bilo, soprattutto, presenta un curioso sfasamento tra introduzione del commento off e immagini via via filmate, come le immagini che descrivono i riti di purificazione, che non risparmiano gli atti sanguinosi dei sacrifici animali, reiterati e numerosi, alla luce di una volontà descrittiva che assottiglia l’ironia iniziale del segno, per registrare puntualmente la dinamica del rituale,

pur nella forma ellittica delle narrazione cinematografica. Fejos presenta, sottolinea, didascalizza abiti, amuleti, gesti, acconciature, produce un documento: la sua rappresentazione si muove ancora nello spazio della definizione esotica, ma la descrizione di eventi e oggetti lascia trasparire una modernità didattica, un empirismo descrittivo puntuale. Danstävlingen i Esira (Dance Contest in Esira), è, insieme con Bilo, uno dei documentari più interessanti della serie. Siamo in un piccolo villaggio a nordest dell’isola dove annualmente ha luogo una gara di danze tradizionali: gruppi di danzatori vi giungono da tutta la regione. Fejos filma l’alternarsi delle danze, le descrive e le nomina, presenta di volta in volta, con inquadrature frontali, piani medi prevalentemente, i danzatori, ne cerca lo sguardo in macchina, segnala la presenza di una donna tra essi, filmandola nella danza con la figlia. Di tutti i soggetti, sottolinea origine e provenienza tribale, status nella comunità, abiti, monili, acconciature: le premesse invisibili restituite come informazioni privilegiate ma disponibili, le presenze visibili come elementi di una descrizione guidata al fine della comprensione, e per questo punteggiata da qualche ammiccamento o dal gioco delle similitudini. Della donna sottolinea ampiamente lo sguardo in macchina, il ripetuto movimento del capo a indagare la macchina da presa, a interrogarla. Inquadrature pensate come fiche di campo, questi piani presentano staticamente i danzatori. Ma il momento visivamente più interessante risulta il film della danza, nella sottolineatura dell’impossibilità, da parte del commento off, di riprodurre la natura compulsiva di certi passi e la velocità di certe cadenze. A 24 fps la lenta velocità del fotogramma, la cadenza del cinema, produce il movimento come una sequenza di stati discreti, di scatti, a smentire la fedeltà dell’immagine del movimento. Franz Boas, nelle lettere dal suo ultimo campo tra i Kwakiutl, nel 1930, all’età di ormai settant’anni, si era interrogato sulla stessa difficoltà, e per quanto fosse fiducioso nel cinema come strumento di registrazione, e avesse con sé una macchina da presa 16mm che certamente maneggiava meno bene di Fejos, chiese alla sua assistente, Julia Averkieva, un’antropologa russa in formazione, autrice poi di importanti studi sulla cultura materiale dei Kwakiutl, di apprendere la danza stessa, in modo da produrla mimeticamente, per facilitare le riprese.106 Boas chiedeva a Julia di danzare, di fare del suo corpo uno strumento di riproduzione. Del movimento ovviamente. Voleva vederla danzare. Magari anche alla Columbia. Per studiare. E del resto, non si era lui stesso offerto come corpo di una simulazione, per la registrazione di una Hamatsa, perchè un fotografo producesse poi dei cliché da cui fabbricare i manichini di un diorama?107 Nella geografia dei viaggi di Fejos nella seconda metà degli anni trenta, il viaggio indonesiano riporta diversi esiti in termini di artefatti e diversi film.108 I materiali della serie indonesiana descrivono prevalentemente attività di pesca e di artigianato, luoghi esotici, episodi di caccia al varano, episodio in cui, Fejos, teatralmente, si fa ritrarre insieme all’animale, dopo la cattura, rivelando tracce di un gusto qui più esotico, ma che si legge, più puntualmente, come la memoria spettacolare e culturale del film Varanus Komodensis di W. Douglas Burden, e del suo libro di successo di fine anni venti, Dragon Lizard of Komodo: the Expedition to the Lost World of the Dutch East Indies, la cui lettura influenzò Cooper nel progetto di King Kong.109 Ma più in generale, come scrive James Boon nel suo importante volume dei primi anni settanta, The Anthropological Romance of Bali (1977), e come sottolinea con acume Tessel Polmann nel suo Margaret Mead’s Balinese: The Fitting Symbols of the American Dream,110 l’area indonesiana si configura storicamente come area di un romanticismo esotico oggetto di una peculiare antropologia delle proiezioni culturali

occidentali, di una sorta di complessa antropologia del sentimento pacificato, di quello steady state indagato e fortemente cercato e “inventato” da Bateson e Mead. Fejos è un uomo che viene dallo spettacolo, il cui cinema, nel suo momento hollywoodiano come in quello europeo, si caratterizza per la raffinata eleganza dei movimenti di macchina e per l’efficacia patemica degli stessi, per una seducente capacità di costruire l’oggetto della rappresentazione e di suscitare l’interesse dello spettatore. Quest’abilità è ben visibile nei documentari sulle cerimonie funebri in Madagascar, nella sottolineatura appellativa della musica funebre come pratica femminile, nella traccia visiva delle tombe e della statuaria ibridata e modificata dalla presenza bianca, segno ammiccante alla curiosità dello spettatore, indice etnograficamente importante, per altro verso. Nell’area indonesiana, Fejos accentua gli elementi pittoreschi, sentimentalizza gli spazi, teatralizza le relazioni tra uomini e cose, restituisce, plasticamente, l’immagine dell’Oriente: segno evidente della destinazione per la sala dei documentari, segno evidente della natura espressiva dello stile di regia di Fejos. Tutto questo però è contraddetto, o meglio affrontato in un altro ordine del discorso, nei due lungometraggi girati nel 1938 e nel 1941, Man och kvinna e The Yagua. Man och kvinna è coevo alla serie documentaria indonesiana. Si presenta come un oggetto intrinsecamente ambiguo dal punto di vista semiotico, come dal punto di vista retorico. Il film è girato nel Siam, l’odierna Thailandia. Di produzione svedese, ne esiste una ulteriore versione con voce off inglese. Il testo, nella versione svedese presenta un’importante differenza: tranne il prologo, girato in Svezia, e quindi dialogato in svedese, e i momenti descrittivi, dove vi è la presenza di un off di commento sempre in svedese, il film è girato integralmente in thai e sottotitolato, scelta assolutamente inusuale per l’epoca. I tradizionali film esotici di quegli anni sono infatti doppiati: gli abitanti locali non hanno letteralmente voce, il suono è ovviamente post prodotto, e raramente vi è traccia della musica originale.111 I documentari tradizionali sono semplicemente muti, risuonano di un commento e di una musica occidentale, nella pratica più connotativa possibile dell’uso della musica di accompagnamento. Il film di Fejos, sorprendentemente, è integralmente girato in thai, con registrazione in loco dei dialoghi stessi. Il film è una etnofiction di fatto: racconta la vicenda di una giovane coppia appena sposata che, lasciato il villaggio, decide di abitare nei pressi della foresta provvedendo a costruire una casa e lavorando il terreno per destinarlo alla coltura del riso. Il prologo svedese ci racconta invece di una famiglia in procinto di lasciare la Svezia per un viaggio nella lontana Asia, l’Asia subito raggiunta dal viaggiatore ubiquitario del Novecento: lo spettatore. L’ellissi, con la consueta carta geografica semplificata come indice semiotico elementare dell’idea dello spazio-mondo, ci porta all’interno di una cerimonia tradizionale di matrimonio thailandese, nel Rod Nam Sang, il momento in cui simbolicamente una catena di fiori unisce i polsi dei due sposi, i nostri due protagonisti. La musica è musica tradizionale thai. Gli sguardi in macchina sono accolti dalla regia, che rispetta, rileva i tempi stessi della cerimonia, ne restituisce la liturgia spaziale attraverso semplici ed essenziali panoramiche; per produrre e conservare, all’interno del montaggio, primi piani di ospiti e musicisti, sollecitando l’illusione mimetica di noi spettatori, quello spazio dello sguardo stereoscopico fatto di attrazioni e attenzioni, la cui memoria fisica il cinema ricostruisce, per inferenza, nel montaggio. Nella foresta, invece, Fejos drammatizza e teatralizza un testo tradizionale di etnografia degli anni trenta: attività di caccia e di agricoltura tradizionale, attività la prima maschile, la seconda attribuita a entrambi i sessi, intreccio di panieri e costruzioni di paglia, attività femminili, addomesticamento di piccoli

animali, presenza di animali di compagnia come piccole scimmie, preparazione e descrizione dei cibi, costruzione della casa tradizionale su palafitta. Un elenco mimetico di plates e disegni da ricerca accademica di quegli anni, com’è evidente, un analogon cinematografico. I legami di parentela hanno avuto già sommaria descrizione nella cerimonia matrimoniale con la presentazione dei parenti più stretti e il saluto del clan. Il film racconta poi la lotta per il cibo, il conflitto con la natura selvaggia – la tigre come in Schoedsack e in diversi altri film d’epoca da cui la metis umana nell’invenzione di trappole e di strategie dell’intelligenza, il rise and fall hollywoodiano di vittorie e sconfitte, la lotta per la terra, il bisogno di lavoro che spinge l’uomo a tornare al suo vecchio impiego di conducente di elefanti, il ritorno a casa, dove la moglie lo aspetta, con un bufalo per migliorare l’aratura, e quindi la prima raccolta dei preziosi chicchi. Questa la linea narrativa principale. Sulla drammatizzazione antropologica del field qui esemplificato si muove, come cornice del registro documentario, la voce off che descrive il viaggio dell’uomo alla ricerca di lavoro, che esalta il lavoro dell’uomo e degli elefanti come strumento di cambiamento e progresso, che descrive ulteriormente la palificazione di alcuni terreni per ottenere migliori risaie, la canalizzazione dell’acqua e così via. Doppio movimento descrittivo, doppia cornice narrativa, doppio registro di enunciazione, monologica e dialogica, a disegnare un duplice spazio retorico: la voce del progresso, l’off assertivo e predittivo, la voce del presente, i dialoghi della coppia come forma drammatizzata del quotidiano. Doppio regime, infine, di finzione, che le due lingue rappresentano acusticamente, restituendo, con le immagini distanti ma piene di senso, una distanza in forma melodico-espressiva in termini di suono. Doppia linea di narrazione, quindi. Il noi loro si fa coevalness evidente di lingue e modalità espressive. Il documentario, la realtà è il noi, parla la nostra lingua; loro invece fanno parte di una finzione. E, in quanto finzione, parlano la lingua misteriosa e vera dell’altro, dello sconosciuto, del fiabesco. La ragione è parlata dalla lingua inglese o svedese: il primitivo, esotico e lontano, ha i suoni melodiosi, musicali e incomprensibili, ma singolarmente affascinanti, capaci di suscitare la malìa di quei luoghi, di quegli abitanti. La cornice documentaria ripropone insomma il principio di ragione, l’esotico, qui temperato, rimanda a memorie di cinema di massa come a Chang di Schoedsack, su tutti. L’off del commento è la linea guida, ci orienta nel mondo, perché intanto è il nostro mondo, la nostra lingua. Ovvero la nostra cultura. A segnalare il movimento del viaggio verso i luoghi lontani da raccontare e descrivere nella lingua di chi vede, a definire la nostra posizione di spettatori, ma anche la posizione del cineasta come di colui che vede. Forma filmica dell’autorità etnografica. Vide et impera.

3.5.2. L’etnofinzione situata, la trasparenza, la differenza Tra il dicembre del 1940 e l’agosto del 1941, Fejos trascorre otto mesi tra il Rio delle Amazzoni e il Putumayo, in un’area di presenza dell’etnia indiana Yagua, dei Bora e dei Witoto, area situata nel nord est del Perù. La spedizione finanziata dalla Viking Foundation, da Alfred Wenner Gren, dedica i suoi sforzi principalmente all’area occupata dagli Yagua, quantunque risultino elementi, nella raccolta degli artifact, che dimostrano il contatto con le due altre etnie. Esito di questa ricerca è una monografia, Ethnography of the Yagua, pubblicata dalla Viking Foudation a New York nel ‘43, una raccolta di oggetti etnografici oggi al museo

di Lima, una ulteriore vasta raccolta donata al Museum of Indian American, di New York, una collezione di taglio minore destinata al Peabody Museum di Yale, una collezione di circa settecento fotografie in bianco e nero e a colori, un film di circa sessanta minuti di durata, bianco e nero, formato 35mm. Il field tra gli Yagua produce, quindi, un complesso di restituzioni diverse, un’articolazione di testi, fotografie, artefatti, un lungometraggio. La monografia, presenta un indice assolutamente classico, le cui sezioni, sono le seguenti: la premessa di chiavi fonetiche, un’introduzione storico-geografica, una descrizione metodologica delle pratiche di campo, una descrizione delle “technical cultures”, la cui lista comprende shelter, dress, food, hunting, fishing, game preparation of food, travel and communication, implements of technique, pottery, tanning, plaiting, wood carving, spinning and knitting, musical instruments, toys; la sezione delle “non technical cultures”, comprendente life cycles, social institutions, social customs, arts and amusements, religion, myths and other tales; quindi, a completare l’esposizione, una sezione ulteriore, “the integration of Yagua culture”, articolata su quattro sezioni così presentate: the daily routine of Yagua life, hunting as the integrative factor, the cultural pattern and individual differences, the acculturation.

Segue una lista di artefatti descritti funzionalmente, un glossario, la bibliografia, l’indice, una sezione formata da cinquantasei tavole fotografiche. The whole culture just in one list. Il percorso della descrizione, il suo indice, la sua stesura, manifestano l’ascendenza americana del lavoro. La cultura è descritta a partire dalle tecniche e quindi, in una evoluzione verso l’immateriale, nelle forme della parentela, le espressioni di clan, la religione, il sistema dei miti, con integrazione culturale e patterns of culture a conclusione, aggiornando il modello noto della struttura di ricerca proposto da Notes and queries, matrice di molta etnografia classica post vittoriana, da Haddon in avanti, nel confronto con la tradizione etnografica americana. Un modello descrittivo compiuto e risolto di una popolazione, gli Yagua, il cui nome stesso deriva dalla nominazione prodotta dalle popolazioni tribali circostanti e che invece si autoappella come Nihamwo. Questione che correttamente Fejos espone già nella sua

introduzione, ma che non trova soluzione, e questo può darsi, ma soprattutto, non genera ulteriori domande. Questione complessa, la questione dei nomi, come vedremo, come apparirà nelle pagine di Tristi tropici, la ben nota leçon d’écriture, ampiamente studiata e vivisezionata dal lavoro di lettura di Derrida. Intanto la monografia di Fejos ci presenta un mondo, e gli dà forma: l’osservatore esterno ne legge le trame, le connette, le inscrive in un dispositivo di senso. Scrive dei taccuini. Filma e fotografa. Produce dei disegni. Delle carte geografiche. Scrive quindi un’etnografia. Sorge qui la domanda su che cosa sia, negli anni trenta e quaranta, un’etnografia, e su che funzioni e scopi presenti e persegua. L’etnografia di Fejos, tradizionalmente, si mostra come una testualità tassonomica, capace di inscrivere storia e cultura, di produrre, sin dalla sua stessa organizzazione, la struttura di un mondo, mondo descritto ovviamente secondo questo stesso principio, informato dalla premessa stessa. Cortocircuito potente di un modello olistico. Tuttavia la prefazione al testo ci avverte dei limiti stessi dell’etnografia, della storia e delle relazioni locali con le popolazioni civilizzate, della necessità di produrre insieme con questa, negli otto mesi di permanenza nell’area Yagua, un film, una diversa restituzione di parte di quell’esperienza. Nel segno della metodologia di registrazione, nella ricerca di un record di lingue e gesti, nella evidenza che filmare un field significa produrre un set di mondi possibili, significa interrogarsi sul profilmico e negoziarlo. Significa fare dello sciamano del film un aiuto regista, un complice nella scrittura di scena dell’etnofiction, significa assumerne la trasformazione da informatore principale a co-regista asimmetrico del film stesso. Significa soprattutto negoziare con i nativi non solo nelle forme storicamente usate di doni e paccottiglia, come osservava dolorosamente nel suo taccuino Castro Faria, nella seconda spedizione di Lévi-Strauss in Amazzonia, ma usare forme e tecnologie dell’incanto, per usare invece un espressione di Gell,112 usare la foto come strategia di seduzione ed elicitazione, praticare e usare le foto come traccia mnemonica, come mnemotecnica, elemento di suggestione e di interrogazioni alla popolazione locale. Nella introduzione alla sua etnografia Fejos riproduce una serie di bias caratteristici della sua epoca, sostenendo ancora la naturale predisposizione delle popolazioni primitive alla drammatizzazione e alla scena, rilevando la caratterizzazione gestuale e mimetica delle conversazioni, la relazione tra atti e linguaggio.113 Al tempo stesso, rilevando questi elementi, il film diviene la formalizzazione puntuale, l’etnografia visiva di comportamenti essenziali, di culture del corpo, il luogo di restituzione drammatica di atti e atti linguistici, ri-naturalizzati dalla messa in scena. Fejos, delucidando come co-regista la figura dello sciamano Unchi, cui l’etnografia assegna prominenza visiva già nei plates, assegnadogli la posizione inaugurale della serie e presentandolo in didascalia come informatore principale, configura il film come strategia essenziale di negoziazione e di restituzione, afferma il piano visuale della comunicazione come centrale della relazione di campo. La fotografia diviene atto di terreno, pratica di sollecitazione, il film scena viva della relazione, coevalness intensa nella mediazione dello sciamano come traccia e trama vivente del sistema culturale, delle situazioni destinate alla messa in scena. Unchi è il medium profilmico: suggerisce pratiche cerimoniali e quotidiane, coglie nel film la forma del suo posizionamento simbolico e politico, configura la relazione come premessa e confronto di due diverse forme di autorità politico-etnografica: l’autorità legittima della tradizione da lui incarnata e l’autorità tecnica dell’antropologo regista. The Yagua diviene così una forma di antropologia visuale partecipata, per un verso, esito di una relazione complessa tra la memoria culturale di un regista europeo divenuto

antropologo, e di uno sciamano divenuto autore e regista di una drammatizzazione del quotidiano, memoria e voce autorevole della sua comunità. Nelle forme di una teatralità tra Hollywood e l’Europa, la cultura e la ritualità, The Yagua si configura come film, offrendosi come documento funzionale partecipato, come negoziazione per immagini di un terreno consapevolmente assunto, pur nella asimmetria tra film maker e filmati – i nativi – come set, come setting di pratiche, di memorie e conoscenze inducibili. I nativi sono, infatti, informati dell’uso delle fotografie come tracce, indici del loro mondo da trasferire in un altro mondo di cui la troupe è partecipe. Unchi, come scrive Fejos, sollecitato dalle foto di campo, identifica pratiche e volti, nomina atti e viventi; tuttavia sembra non riconoscere se stesso, o forse rifiuta autorevolmente di riconoscersi nella forma dell’immagine fotografica, in un gesto di protezione del sé che suscita ilarità negli abitanti del villaggio e curiosità estrema in chi scrive oggi. Fejos non ci dà spiegazioni di quest’atteggiamento, non interroga Unchi, né il comportamento di Unchi. Lo descrive e lo riporta nelle pagine introduttive dell’etnografia. Le foto, usate come sollecito e stimolo di situazioni e transazioni, diventano poi un fondo fotografico presso i Peabody Museum di Yale e il Museum of American Indian: nel volume ritroviamo, come Fejos ci informa, immagini riquadrate o allargate di fotogrammi del film, a segnalare ulteriormente un suo peculiare uso dell’immagine filmica, se pur ridotta a immagine fissa. Nelle tracce filmiche Fejos intravede una vividità e una verità diverse; tracce di vero che la negoziazione tra sciamano e regista sembrano produrre, esitano come luogo di restituzione di due istanze: la memoria Yagua, riprodotta come set, e la potenza del field reinscritta nel profilmico per un verso, nel montaggio classico per l’altro. The Yagua è un film inedito, le cui occasioni di restituzione pubblica sono rarissime, una probabile proiezione a fine anni quaranta, una presentazione in una proiezione pubblica ad inviti nel 1995, al Margaret Mead Film Festival di New York, per un esiguo pubblico di studiosi e amici dell’ultima moglie delle sette della sua vita, Lita Osmundsen, studiosa delle culture inuit, direttore di ricerca per circa trent’anni della Wenner Gren Foundation, alla morte di Fejos stesso, dal 1963 al 1986. Girato in 35mm, il film esiste oggi in copia unica, stampato in copia positiva di formato 16mm. Dalla prefazione della monografia ricostruiamo che, grazie al governo peruviano, la spedizione composta da cinque membri – Fejos, Kenneth Lowther, geologo, Norman Mathews, fotografo, Besserman, incaricato della registrazione del suono, Albert Giesecjke, incaricato della logistica – riuscì a recare con sé, via fluviale, molte apparecchiature e un generatore elettrico alimentato a benzina. Il film è in bianco e nero, di durata di poco superiore ai sessanta minuti. Reca come titolo di testa, la dicitura The Yagua by Paul Fejos in un unico cartello. Non vi sono altre indicazioni, né ulteriori titoli. Il film ha una sua forma compiuta, l’evidenza di un montaggio, un sonoro registrato in situ e post sincronizzato, una colonna musicale. I dialoghi del film sono in lingua yagua, senza sottotitoli, la musica è l’esito di un montaggio piuttosto rough – tecnicamente è appoggiata, non firmata ma ascrivibile a Ferenc Farkas, musicista allievo di Respighi e vicino alla scrittura modale di Kodály e Bartók, autore delle musiche di due film di Fejos, Menschen am Gittern, film viennese del 1933 e Flugten fra millionerne, girato in Danimarca nel 1934; si percepiscono, infatti, tracce di elementi modali, un’orchestrazione vicina a quella di altri testi di Farkas, e la rielaborazione di elementi foklorici.114 Fejos, nella sua etnografia, trascrive in notazione la musica delle danza e dei riti Yagua: la trascrizione mostra la struttura semplice di una musica tonale, con elementi tipici delle musiche a base ritmico percussiva. Di questa musica non vi è traccia nel film.

Subito all’inizio, Fejos filma in campo lungo il fiume, con diverse inquadrature, in diverse condizioni di luce, a segnare diverse occasioni e tempi di ripresa. La musica è struggente, esplicitamente connotativa, il paesaggio filmato con ampie panoramiche, dall’alto, alla scoperta del villaggio. Nel totale si forma finalmente l’immagine di una casa Yagua, la grande abitazione comunitaria. Un’ellissi ci porta quindi a una panoramica notturna su volti di uomini in preghiere: la luce è quella delle torce. Lo sciamano conduce il rito: si tratta della sepoltura del capo villaggio, la sua ascia è deposta sulla terra che lo ricopre. Il giorno seguente gli anziani e gli uomini del villaggio attendono a una decisione. Fejos filma il gruppo accovacciato in terra a formare un cerchio: quindi, segno di montaggio, truccheria tradizionale del cinema delle origini e valida per tutti gli anni trenta, soprattutto nei film di genere, un effetto tendina segna che il tempo è trascorso. Una decisione intanto è stata assunta. Da una casa allora muove un gruppo di donne e bambini che discendono verso il fiume. L’inquadratura è ripresa dal basso, così da vedere frontalmente la discesa degli abitanti del villaggio. Finalmente il campo si apre e lascia apparire due uomini che partono in piroga salutati dalle donne. I due sono seguiti dalla mdp lungo le anse del fiume, dall’alto, in una serie di campi e controcampi, e formano, coi loro sguardi, un sistema di relazioni fitto e denso tra foresta pluviale e spazio aperto. Intuiamo che i due uomini sono alla ricerca di qualcosa. Uno dei due, arrestando l’imbarcazione, si arrampica su un albero per ottenere una visuale più ampia. La mimetica classica hollywoodiana, la tradizione istituzionale del punto di vista come angolo di ripresa, nel senso di Burch produce questo sguardo come il nostro. Fejos filma, inventa e riproduce il medesimo punto di vista del nativo. In montaggio alternato rivediamo poi il villaggio, nella sua vita quotidiana. Il quotidiano, la vita come analogon nella materia dell’immagine movimento, si fa qui, nuovamente, occasione di un’altra analogia: l’analogia con l’etnografia classica. Ecco allora il quotidiano esporsi dinanzi a noi come l’expositio di una monografia: donne che curano acconciature, bambini con pappagalli e altri animali domestici nei giochi, scene di tessitura, intreccio di panieri. Nel montaggio alternato i due uomini – gli esploratori – intanto vanno. Dopo alcune sequenze dedicate alla ricerca di luoghi vediamo i due indigeni di ritorno al villaggio: li osserviamo filmati mentre raccontano agli anziani e allo sciamano il contenuto dell’esplorazione. Il villaggio adesso ascolta. Fuori campo la voce dello sciamano esprime la decisione. Fuori campo avviene la decisione, mentre nell’inquadratura, frontalmente, e poi in una panoramica i volti in ascolto degli abitanti sono come figure dell’attenzione, gli occhi del popolo Yagua. Piani di ascolto. Nel villaggio adesso è il turno delle attività maschili, attività di caccia e pesca. La monografia procede. Preparazione di cerbottane, gara di cerbottane. Teatro della rappresentazione, filmato in un’inquadratura laterale, da codice militare di presentazione truppe, memoria formale, etnicizzata e di genere, delle attività maschili legate alla forza. Quindi caccia agli uccelli e ad altri animali, uccisione di bestie, trasporto delle prede al villaggio, cottura dei cibi, affumicatura, consumo del cibo. La scena quindi presenta una nuova attività. Dalla scelta dell’inquadratura, un totale, e del montaggio, ricco di dettagli, intuiamo l’importanza dell’avvenimento: si prepara una grande zattera, un’imbarcazione collettiva. Stiamo assistendo all’abbandono del villaggio e al trasferimento della popolazione nel sito individuato dai due esploratori. Totale quindi del villaggio, inquadratura dello sciamano accanto alla grande casa comunitaria, ultimo sguardo dell’anziano sulla casa, prima che questi le dia fuoco. La costruzione della sequenza è assolutamente patemica, in un’alternanza di primi piani, e

totali: dettagli, come la torcia infuocata, riverberano senso e producono visivamente il focus dell’attenzione di uno spettatore possibile, di uno spettatore piuttosto che di un etnologo. Siamo dinanzi un’azione sia di filming che di montaggio, pensata in termini drammatici: Fejos pensa nel senso del cinema, filma e monta scene madri come momenti e tempi del climax. Da cui il falso campo controcampo dello sguardo dello sciamano dalla zattera rivolto verso la casa, invisibile dal fiume ma visibile dal punto di vista del racconto. La monografia tassonomizza il mondo, la cinematografia patemizza la tassonomia stessa. Il viaggio è filmato poi in ampie inquadrature, attraverso totali, da un’altra imbarcazione – la lancia fluviale messa a disposizione dal governo peruviano per i trasporti – e da punti di vista diversi e rialzati, lungo le anse del fiume. Totali che descrivono il viaggio come inscritto nelle dimensioni della vastità – l’epopea – in un montaggio alternato con dettagli e inquadrature più strette e ravvicinate che descrivono la quotidianità del cucinare, sulla zattera, i bambini che giocano con le scimmie – la commedia. Giungiamo quindi nel sito dove si costruirà il nuovo villaggio. Tutto il gruppo, donne e uomini, partecipa alla costruzione della nuova casa comunitaria. Ha inizio la preparazione del terreno, il disboscamento, durante il quale la scoperta di tracce di animali feroci innesta un elemento drammatico e un possibile sviluppo narrativo del film stesso. La costruzione della casa consente a Fejos di illustrarci le tecniche costruttive Yagua, le tecniche dell’intreccio per la costruzione del tetto, così come la scoperta delle tracce del giaguaro consente di indicizzare un intero repertorio di trappole e di filmare diverse abilità. L’elemento drammatico della lotta con la natura assume il carattere della commedia della metis, l’astuzia umana e l’astuzia animale, il fallimento come stimolo dell’applicazione e dell’ingegno, il feedback come rafforzamento e mutamento, la messa in scena mimetica di un testo di psicologia behavioristica, e di antropologia boasiana. Tuttavia, la metis indigena si nutre di altre conoscenze e altre credenze. Le deboli trappole sono tali perché gli spiriti non sono ancora intervenuti a favore dell’uomo; l’intervento dello sciamano si produrrà in questo senso, intercedendo. Così il fumo sacro di una sua pipa fortificherà il legno delle trappole, e il giaguaro, una volta imprigionato, sarà ucciso dalle frecce delle cerbottane. Allora i bambini correranno tutti dallo sciamano, mentre la pelle dell’animale scuoiato è issata su una lancia, come trofeo. Il villaggio è adesso sicuro, e l’uccisione del giaguaro è festeggiata da una danza, su di una musica ieratica e solenne che i flauti a canne indigeni non possono certo eseguire: timbrica occidentale, accordi di terze e quinte. Dalle informazioni del 1996 ottenute da Litte Osmundsen si desume che Fejos non riteneva opportuna una visione pubblica del materiale perché riteneva il film come non finito, incompleto. Incrociando questi dati con il materiale delle trascrizioni di una sua intervista depositata presso la Oral History Section della Columbia University, Yagua risulta come un progetto amato ma non risolto, segno di un trascorso su cui Fejos non riteneva opportuno trattenersi ancora, da cui, forse, la forma stessa del film. Come l’edizione e l’uso della musica, in contraddizione esplicita con la scelta di mantenere i dialoghi in lingua originale. Tuttavia, il segno di un’idea elegante di restituzione sia nella scrittura scenica e situata, esito della negoziazione con Unchi, lo sciamano co-regista del film, che nell’esito finale, è comunque palese. Nel filming il cineasta pensa attraverso il cinema le immagini che sta filmando, nel montaggio cerca conferma e ordine in una tradizione di linguaggio formale cui appartiene. La teatralità della sua maîtrise segna, infatti, sia il cinema antropologico, sia il cinema di finzione.115 In viaggio verso l’antropologia, Fejos proviene tuttavia dallo spettacolo, e

prosegue in una marcia di allontanamento dal pittoresco, pur all’interno della memoria narrativa del pathos come pratica di senso e produzione di attenzione, della forma peculiare di conoscenza nell’ordine delle immagini che il Novecento manifesta nel cinema. Come nel film indonesiano, Man och kvinna, Fejos lavora qui su due linee narrative: la prima a carattere documentario, la messa in scena della vita quotidiana del villaggio come rassegna monografica nel senso dell’etnografia del suo tempo, e dell’etnografia americana, in particolare; la seconda patemica, con l’inserimento di elementi narrativi – la messa in scena della lotta al giaguaro – topic classico del cinema esotico, vedi Schoedsack, ma anche di film hollywoodiani da studio, come i Val Lewton per la RKO nei primi anni quaranta e, come prima di Il bacio della pantera, L’uomo leopardo. Messa in scena patemica e drammatica, qui risolta e assolta nella forma della sintassi classica del cinema americano degli anni trenta.116 L’etnofiction di Fejos è qui evidentemente più radicale, segno di un progetto produttivo del tutto diverso, indipendente da un soggetto terzo, da una committenza, da una destinazione esplicita, di tipo commerciale, come diversa è la messa in scena di The Yagua rispetto all’etnofiction thailandese di Man och kvinna. Diversa è la memoria e la forma dello stile di Fejos, la sua personale negoziazione con la memoria del profilmico classico e la direzione di attori e scene In The Yagua osserviamo un’assenza esemplare e paradossale di sguardi in macchina, in un montaggio teso a produrre e riprodurre la grammatica degli eventi come grammatica della trasparenza, nel senso dei modelli americani degli anni dello studio system, pur nella evidente povertà di mezzi e di movimenti di macchina rispetto al film indonesiano, dove lo spazio è abilitato da uno sguardo segnato dal cinema classico americano, e in questa maîtrise formalizzata da una ricchezza di mezzi, si consente una flagranza documentaria tracciata da sguardi in macchina come da tempi nel montaggio diversi. L’etnofiction nasce qui, in senso stretto, nella frizione tra dati e immagini dei dati, su di un set che coincide, come in Rouch, con un field, nella frizione di un linguaggio formale e di una tradizione della scrittura, di una pratica patemica conoscitiva e di una restituzione che invece si vuole inscritta al secondo dei due termini. Da qui il paradosso, splendido e semplice, di una risoluzione fatta, per approssimazione, attraverso la giustapposizione di entrambe, la cornice documentaria reenacted dalla fiction, la fiction come re-enhancing del dato. Nei limiti etnici di ogni etnofiction, nell’illusione ancora viva di una trasparenza possibile attraverso i mezzi e la tecnica, di un’immagine del mondo prodotta da occhi e piuttosto che da sguardi. Immagine che il cinema incrina sin dal 1894 e dal 1895, e che lo spettacolo assolve e risolve nel dispositivo estetico e industriale di un mondo riprodotto in immagine tecnicamente riproducibile. Sulle tracce di un autore come Fejos la cui attitudine muove dalla consapevolezza del linguaggio filmico come costruzione dell’enunciatario, dove la regia e la ripresa si producono come lo sforzo e la capacità di mettere il pubblico nella posizione di chi partecipa alla scena, di farne un osservatore partecipante nella costruzione di un continuità attraverso il punto di vista dell’esperienza filmica, nella differenza tra questa e quella teatrale, come esito esemplare della potenza dello schermo comparata ai confini del palcoscenico. Su questa consapevolezza, manifestata in un articolo del 1929 pubblicato sul New York Times, in Fejos si innesterà, dopo il suo ethnographic turn, la natura necessariamente ambigua e complessa della restituzione filmica di mondi nativi, come testimonia l’introduzione a Etnography of the Yagua, nel passo in cui il regista antropologo introduce il tema della sua presenza sul terreno, della natura di questa durante il film; della sua intenzione di non suscitare o creare le scene, guadagnando a

sé il compito di una intenzione di ripresa, piuttosto che di regia, un filmare neutrale situazioni di vita quotidiana dove i rehearsing delle scene, come l’assigning roles è funzione di Unchi lo sciamano,117 medium esemplare del set come controllore alla sorveglianza di atti e fatti, amministratore di vite re-enacted, come di vite vissute. Come se l’intenzionalità, in forma di inquadratura e linguaggio, già prima del montaggio, non precostituisca esiti e forme di restituzione; come se il montaggio, infine, non sia un processo di scoperta e formazione di mondi, così come la scrittura, anche nella variante etnografica. Come se, infine, la narrazione non definisse punti di vista e trame diegetiche nella potenza degli schermi, come il testo di Fejos del 1929 intuisce e afferma. Come Bateson avrebbe colto nei suoi taccuini balinesi, nella constatazione funzionale della necessità di scenarios. Unchi, lo sciamano, attribuendosi la funzione di co-regista, definendo prove e ruoli, formava ordine nella scena del mondo, allontanava il caso, interpretando se stesso appunto come sciamano, guardiano del cosmo e interprete e demiurgo del caos. Fejos, nella sua apparente inappariscenza, l’incospicuous di Haddon, filmava nella memoria estetica del cinema classico; gesti e attività diventavano una nuova antropologia visiva di gesti e attività nelle forme dello spettacolo e della narrazione. Nella cornice di un racconto, comunque etnografico. Il medium in oggetto, il cinema, smaschera di fatto qualunque idea di trasparenza, riportando alla superficie, nella sua istituzionalizzazione, la tensione tra oggetto e punto di vista, forme dell’intenzionalità ed esiti di ripresa. Sul terreno dell’alterità, come dell’etnografia, la tensione si fa visibile, intrisa com’è di dati e compromessi, di linguaggio e mondo, di negoziazioni specifiche di field e zone di contatto, tra presenza e rappresentazione. Questione di indici, tempo, contingenza, table de matière del cinema sin dalle sue origini, così come dell’antropologia. In entrambi visibili, ma con gradi diversi di occultamento. L’etnofinzione – l’etnodrama – illumina se stessa e fa luce sulla scena accademica del sapere dell’altro, sulla scienza dell’alterità, mette in mostra e rivela l’orizzonte della negoziazione, il terreno e l’altro, l’orizzonte della descrizione – la misura e la forma del tempo, i canoni di restituzione. Come vedremo con Bateson, se la monografia non può ricostruire un’intera cultura, il film etnografico, il film tout court nella sua durata, smaschera il dispositivo culturale della descrizione perspicua, ne mostra la natura di strumento, la sua dimensione di artefatto cognitivo, in un certo senso. Ne sfida e discute la legittimità e i limiti. Se la finzione si affida al diegetico, l’antropologia, come scienza sociale, non può fare altrimenti. Si tratta di cogliere i limiti del diegetico e le sue forme possibili, si tratta di mettere in evidenza i processi di costruzione degli oggetti sociali e delle forme di appropriazione, costruzione e restituzione degli stessi. Le teorie e le pratiche di cinema, soprattutto, cifrano il Novecento di indizi utili alla lettura di questi processi. Nel montaggio di Fejos la rete degli sguardi indigeni sembra neutralizzarsi nel montaggio classico, nell’interdetto dello sguardo in macchina. L’etnografia ci mostra invece cosa davvero guardassero: lo sguardo autorevole dello sciamano, nelle vesti di maestro di cerimonia. Regista-attore della scena, traiettoria vivente di liminalità congiuntive e disgiuntive. Autore della scena sociale di quel rito: la messa in scena yagua di un film.

NOTE 1 Musser 1997, pp. 125-129. 2 Ibid., p. 194.

3 Ibid., pp. 354-356. 4

Cestelli Guidi - Mann 1998, pp. 132-142. Cfr. Michaud 1998, pp. 171-228. Per una posizione storiograficamente e teoreticamente diversa, cfr. Freeberg 2005, pp. 3-24. 5 Griffiths 2001, pp. 100-111; Griffiths 2002, pp. 174-184 e soprattutto pp. 181-182, per la lettura di Moki Snake Dance by Wolpi Indians. Sulla leggibilità, in termini etnografici, dei film delle origini, vedi anche Rosen 2001. 6 Bancel-Blanchard-Boëtsch-Deroo-Lemaire 2002-2004. 7 Burch 1991, pp. 177-202. 8 Greimas 1976. 9 Cfr. Bhabha 1992, pp. 85-93. 10 Comaroff-Comaroff 1992, pp. 3-48. 11 Tobing Rony 1996. 12 Nietzsche 1967 (tr. it., pp. 32-33). 13 “The subject matter of films like Grass, Nanook, Moana, Chang, and other has proved to me that there is an important field open to the Motion Picture Industry that up to this time has not been properly exploited. Excellent material is contained in these pictures; nevertheless they might have been made ever so much more interesting if a person had been consulted who knows the social life of the people more intimately. Assuming for instance, that a man who knows Eskimo life in and out, had been at hand to direct a film like Nanook, many exceedingly picturesque and interesting features of native life might have been brought in which would not only have improved the quality of the film but would have also made it

more attractive to the general audiences. I do not mean to imply that a film of this kind should be built up exclusively on scientific principles, but it ought to contain what is really fundamentally characteristic of each culture, bearing in view also what is picturesque and attractive to the public. […] Most of the materials of this kind has to collected now, because each year sees native cultures breaking down, and disappearing under the onslaught of White Civilization.” (citato in Jacknis 1987, p. 60) 14 Cole 1988. 15 Ruby 2000, pp. 83-84. 16 Per la traduzione, cfr. supra p. 78. 17 Tobing Rony 1996, pp. 77-98.

18 Didi-Huberman 1992, vedi soprattutto pp. 103-125. 19 Cfr. Ruby 2000, pp. 55-66.

20 Cfr. Rydell 1984, pp. 55-71.

21 Jacknis 1985, vedi pp. 86-88, sulla teoria dell’audience, e Griffiths 2002, p. 119, sul

concetto di means of display, e più in generale sulla storia e il significato delle esibizioni etnografiche e la musealizzazione delle culture native indiane pp. 117-124. 22 Fabian 1983, pp. 1-35; Fabian 2001, pp. 1-53; Corbey 2002-2004; Benjamin 1982 (tr. it., pp. 229-265 e 507-542). 23 Serres 1969, 1972, 1974. 24 Mydin 1992, pp. 250 ss. (in Edwards 1992). 25 Appadurai 1996. 26 Jacknis 1991; Tobing Rony 1996; Coutanciere-Barthe 2002-2004, pp. 306-314. E sopratutto Deroo 2002-2004, pp. 381-389; Peterson 2006, pp. 79-98. 27 Jacknis 1985, vedi le pp. 86-88, dedicate alla struttura dell’audience e delle aspettative del pubblico nei musei, e, soprattutto, Boas 1907, pp. 921-933. 28 Pierantoni 1986, pp. 532-535. 29 “L’ethnographe reproduira, à volonté, la vie des peuples sauvages. Quand on possédera un nombre suffisant de films, on pourra, par leur comparaison, concevoir des idées générales; l’ethnologie naîtra de l’ethnophotographie” (Régnault 1912, p. 16). 30 Régnault 1898, pp. 315-317. 31 Régnault 1900, pp. 421- 422. 32 Régnault 1931, pp. 111-127. 33 Serres 1980, pp. 40-66. 34 Goody 1997, e inoltre Goody 2000. Essenziale, ai fini di questa lettura della relazione tra forme della scrittura, potere e rappresentazione grafica del sapere, è ancora Fabian 1983, e soprattutto le pagine di Derrida 1967 (tr. it., pp. 109-140) e Derrida 1996 (tr. it., pp. 13-34). 35 Morin 1956. Cfr. il testo di J. Derrida pubblicato sui Cahiers du Cinéma (Derrida 2001).

36 “In many islands the natives are fast dying out, and in more they have become so modified

by contact […]. No one can deny that it is our bounden duty to record the physical characteristics, the handicrafts, the psychology, ceremonial, observances and religious beliefs of vanishing peoples: this also is a work which in many cases can alone be accomplished by the present generation […]. The history of these things once gone can never be recovered” (Haddon 1897, p. 305). 37 Cfr. Haddon 1935; Stocking 1995, pp. 98-115; Hearle-Rouse 1998, pp. 1-22. 38 Edwards 1998, pp. 107-135 (in Hearle-Rouse 1998). 39 Severi 2004, pp. 37-39. 40 Cfr. Taussig 1993, pp. 19-43.

41 Stocking 1995, pp. 98-115. Su Haddon vedi anche Stocking 1992, soprattutto le pp. 21-40.

È importante ricordare che il gruppo di Haddon dopo Torres rivoluzionò, di fatto, il contenuto di Notes and Queries, sopratutto grazie al contributo di Rivers che teorizzò la necessità dell’apprendimento delle lingue native come premessa stessa dell’osservazione etnografica. Cfr. infine, Grimshaw 2001, pp. 15-31. 42 Long-Laughren 1993; Griffiths 2002, pp. 129-148. 43 Edwards 1988, p. 121. 44 Long-Laughren 1993, p. 35. 45 Griffiths 2002, pp. 142-143. 46 Beckett 1998, pp. 41-46; sempre di J. Beckett è utile un contributo storico sul colonialismo nelle isole australiane Torres Strait Islanders: Custom and Colonialism (Beckett 1987). Ancora di Beckett, si segnala infine Beckett 2004. 47 Griffiths 1996/1997, pp. 18-43. 48 Godard 1980 (tr. it., p. 77). 49 Ibidem (tr. it., p. 78). 50 Tobing Rony 1996. Cfr. anche Piault 2000. 51 MacDougall 1998, p. 105. Cfr. anche Grimshaw 2001, pp. 54-66. 52 Serres 1980, p. 15. 53 Marcus 2006, p. 206. 54 MacDougall 1998, p. 104. 55 Ruby 2000, p. 67. 56 Morris 1994, pp. 39-42; Gidley 1998, pp. 232-255; Russell 1999, pp. 102-108; Wakeham 2004, pp. 108-127. 57 Ruby 2000, pp. 72-73. 58 Christopher 2005. 59 R. Flaherty in Christopher 2005, pp. 331-333. 60 In Flaherty - Hubbard Flaherty 1924, p. 24. 61 Cfr. Balikci 1989, pp. 4-10.

62 Foucault 1966a (tr. it., pp. 31-60); Goody 1977, pp. 74-111; Goody 2000 (tr. it., pp. 146-

165). 63 Burch 1991 (tr. it., pp. 177-209). 64 Wittgenstein 1967 (tr. it., p. 31). 65 Wittgenstein 1989, 43, pp. 175-203.

66 Hansen-Needham-Nichols 1991, pp. 201-228. 67 Harris 1999, pp. 31-48.

68 Geertz 2000 (tr. it., pp. 93-95). 69 Tobing Rony 1996, p. 113. 70 Bourdieu 1979.

71 Kittler 1999 (tr. it., pp. 37-62). 72 In Taussig 1993, p. 200. 73 Severi 2004, pp. 41-44.

74 Comolli 2004 (tr. it., p. 167). 75 Taussig 1993, p. 201.

76 “The projector light shone out. There was a complete silence in the hut. They saw Nanook.

But Nanook was there in the hut with theme, and they couldn’t understand: then they saw the walrus, and then pandemonium broole loose. Hold him, they screamed. Hold him and they scrambled over the chairs and each other to get to the screen and help Nanook to eat the walrus” (Flaherty 1984, p. 18). 77 In Foucault 2001, p. 540. 78 Segalen 1995c, p. 779. 79 Sloterdijk 2005. 80 Wittgenstein 1961a, nn. 5.633, 5.6331, 5.634. 81 Panofski 1927. 82 Burch 1991 (tr. it., pp. 177-200). 83 Heidegger 1950 (tr. it., pp. 87-88). 84 Naficy 2006, p. 117. 85 Balikci 1980, p. 229. 86 Schmitt 1954; Sloterdijk 2005. 87 Cavell 1979. 88 Schoedsack in Naficy 2006. 89 Marabello 2010, pp. 35-48. 90 Tobing Rony 1996, pp. 133-135. 91 “Chang venait à son heure. C’était l’époque ou toute une littérature de reportage découvrait un sens nouveau à l’aventure, en insufflait au foule le prestigieux attrait. Brusquement, dans la vie banale de notre cités, sur cette toile blanche un monde inconnu

surgissait […] Le monde familier s’effaçait. Un autre se précisait pour nous, avec des noms de fleuves et de bêtes, aussi, mystérieux, aussi passionnants que nos rêves” (Leprohon 1945, p. 116). 92 Burch 1991 (tr. it., pp. 165-201). 93 Tobing Rony 1996, p. 137. 94 Jahoda 1999. 95 Richards 1998, pp. 136-157; Kuklick 1998. 96 Casetti 2005, pp. 96-103.

97 Wagner 1986, p. 132, e più in generale pp. 126-134. Cfr. anche Segalen 1995c e Clifford

1988. 98 Marin 1973, pp. 135-148.

99 Tcherkézoff 2008, pp. 127-197; Musser 1997, p. 125.

100 Bellour 2009, soprattutto “Animaux d’Amérique”, pp. 453-493. 101 Antonioni 1940.

102 Luciano Emmer, comunicazione personale, 1997. 103 Hansen 2004, pp. 50-61. 104 Kracauer 1974.

105 Petermann 2004, pp. 178-202. 106 Ruby 2000, pp. 59-65. 107

Hinsley-Holm 1976, pp. 306-316, soprattutto pp. 306-308. Cfr. Glass 2004 e il documentario di Aaron Glass, In Search of the Hamat’sa: A Tale of Headhunting (33, Program for Culture and Media, New York University, 2004). 108 Stammen Lever an (The Tribe Lives on), Bambuå påldern på Mentawei (The Age of Bamboo at Mentawei), Hövdingens Son är död (The Chief’s Son is Dead), Draken på Komodo (The Dragon of Komodo), Byn vid den Trivsamma Brunnen (The Village Near the Pleasant Fountain), Tambora, Att Segla är Nödvändigt (To Sail is Necessary, completato da Åke Leijonhufvud). 109 Tobing Rony 1996, pp. 164-165. 110 Pollmann 1990, pp. 1-35. 111 Schneider 2004, pp. 203-219. 112 Gell 1992, pp. 159-186. 113 Fejos 1943, pp. 28-29. 114 Farkas ha firmato oltre settecento lavori musicali, tra sinfonie, cantate, colonne sonore per il cinema, musica cameristica, il che rende difficile l’attribuzione esatta, in assenza di altre indicazioni. 115 Marabello 1996, pp. 75-76. 116 Rossellini, in India Matri Bhumi, nell’episodio della lotta con la tigre riprodurrà il topos producendone una radicale variante di senso: ecologica ed etologica invece che etnocentrica nel senso hollywodiano. Lo stesso tema diverrà una variazione culturale in Appunti per un film

sull’India di Pasolini, pretesto narrativo dell’ipotesi stessa del film. Vedi Marabello 2011, pp. 103-127, e per una visione di quadro su Pasolini e l’oriente, Caminati 2007. 117 Fejos 1943, p. 29.

4 BALINESE LAS MENIÑAS DI GREGORY BATESON E MARGARET MEAD Si avverte nel teatro balinese una situazione anteriore al linguaggio e in grado di scegliersi un linguaggio proprio: musica gesti, movimenti, parole. Un teatro di quintessenze, in cui le cose compiono strani voltafaccia prima di diventare nuovamente astrazioni. A. Artaud

4.1. L’immagine non è l’eidos, l’immagine non è l’ethos e la foto non è la cosa designata Tu dici che qui è proprio così come con occhio e campo visivo. Ma l’occhio, in realtà, non lo vedi. E nulla, nel campo visivo, fa concludere che esso sia visto da un occhio. Ciò inerisce al fatto che nessuna parte della nostra esperienza è anche a priori. Tutto ciò che vediamo potrebbe anche essere altrimenti. Tutto ciò che possiamo comunque descrivere, potrebbe essere altrimenti. Non vi è un ordine a priori nelle cose.1 I Renoe è una bambina. Danza, posseduta forse dagli dei. La sua immagine tradisce una grazia lontana e molto antica. Il suo piccolo sarong, un palinsesto di tessuti leggeri, un albero di trame di cotone, sembra fermo con lei nel movimento, un tratto dello spazio, una geometria composta di lembi. Come una voluta di spiriti e mondi, traccia di una deissi misteriosa, trasmessa nel sapere del corpo, nelle routine dei simboli. Nei segni pieni dei cenni, delle pose. I bordi del suo palco di terra battuta sono di tronchi orizzontali, semplicemente legati tra loro. Delle foglie di banano pendono sulla destra, formando un’ombra. Il palco ha la forma di un piccolo giardino. Dietro di lei un cavalletto, il treppiedi, esteso al massimo della sua altezza, ospita su gambe lunghe e sottili, di metallo, una piccola cinepresa, presenza silenziosa e straniera, come un’arma abbandonata, o un relitto del futuro. Ancora più indietro, oltre la macchina, non c’è nessuno. Ma, qualora vi fosse, bisognerebbe immaginarlo come un essere molto alto, perché altrimenti l’occhio non sarebbe alla sua altezza, e la lente non potrebbe sposarlo. Ma I Renoe è ancora immobile nella sua danza, e di fronte al suo corpo c’è di certo qualcuno: lo scatto che la ritrae ci dice che si trova alla sua altezza. Sopra la sua testa c’è aria, anche se non c’è cielo. Il tredici luglio del 1936, Gregory Bateson fotografava questa meniña balinese. Era inginocchiato, o forse addirittura seduto. Alle sue spalle, la casa di Bajong Gedè non sappiamo chi ospitava, chi, sulla scena, guardava la scena.2 Chi, sulla soglia dell’indessicale,

era pronto a testimoniare il teatro dell’osservazione. Chi, invece, era semplicemente presente, nel fuori campo, materia senza immagine, come un’impronta senza la sua emulsione. Una camera chiara di ombre trascorre ancora dal field balinese della coppia Bateson-Mead. Una tradizione i cui presupposti ed esiti, nelle forme di restituzioni diverse, film, foto, saggi, si costituisce come traccia e progetto, si insedia nel perpetual inventory della ricerca antropologica novecentesca, trascinandosi interrogativi e paradossi, archivi di immagini irrisolte, di storie possibili di interpretazioni, di archeologie del sapere fotografico recente, proponendosi come una riserva di possibili. La giovane danzatrice bambina, I Renoe, attraverserà mondi diversi di immagini, mondi tipografici diversi, da Balinese Character a Trance and Dance in Bali, ai volumi curati da Jane Belo, come un nachleben incarnato e ricitato, esposto come impronta e traccia coreutica, stato di embodiment. Nei diversi con-testi sarà diversamente viva. Elemento discorsivo, elemento dimostrativo. I Renoe è, intanto, una foto, una serie di foto. Il suo corpo che danza muto è una metrica antica. La foto che la ferma, la forma di analisi. Così come la traccia che resta di quell’analisi. L’intenzionalità di chi l’ha ritratta, dinanzi alla routine del movimento. Alla tecnica del corpo di cui la tecnica fotografica si fa carico. Nell’embricarsi di stati di intenzione – della bambina, come di Bateson – e di routine – il gesto e lo scatto. Nel contesto di due verità, e due diverse pratiche. In un corpo che assume il segno del rito e della danza, la cultura che lo esprime, e di un atto fotografico che interpreta, nella grammatica e nella sintassi occidentale, l’alterità di spazio e senso del rito. All’ottica analitico-narrativa di foto e film, alla geometria del fuoco, si presenta, qui, il movimento coreutico e non geometrico del rito. Specie di spazi diversi, di cui le foto sono indice parziale, restituzione di segni indiziali, formalmente ripetuti e routinari. Tuttavia, i corpi e i riti non sono indifferenti al tempo e alla liturgia. Se la liturgia è anche una mnemotecnica, la realtà del rituale resta comunque situata, incarnata in officianti e fedeli; la si può descrivere, più o meno fedelmente, nell’illusione del geometrale, nella potenza o nella moltiplicazione delle ottiche, come indicherà poi Griaule.3 Nei limiti e nelle possibilità di render conto di intenzioni ed esiti, come annota Sullivan nella sua ricerca sul field balinese di Bateson e Mead. Nel rischio di trasformare gli esiti in protocolli, invece che in dati raccolti e interpretati: Le fotografie sono al tempo stesso note, segni e ombre: note nel senso che l’antropologo usa le fotografie come supporto mnemonico o registrazione di ciò che vede; segni quando le fotografie diventano parte del tentativo dell’antropologo di illustrare agli altri ciò che ha visto; e ombre nel senso che le fotografie prendono sempre forma in gran misura dal mondo che l’antropologo ha scrutato. La densità comunicativa di tali fotografie, vale a dire la loro capacità di illuminare e simultaneamente oscurare, di attirare e simultaneamente allontanarsi, si estende in un senso dalle scelte di quel particolare etnografo rispetto a un mondo visto parzialmente e, in un altro senso, dalle sensibilità del mondo che l’etnografo esamina con comprensione parziale.4

4.1.1. Dell’immagine, del metodo, della metascrittura, della facoltà di parlare liberamente, della parresia

L’edizione originale di Naven pubblica, a conclusione del volume, quarantotto fotografie e altrettante didascalie, alcune delle quali si presentano, per ampiezza e forma della scrittura, come ulteriori microtesti. L’apparato testuale, il testo con le immagini che così si offre, dispone il testo che lo precede ad una diversa lettura, probabilmente. Impegna certamente alla lettura di questa conclusione peculiare, anticipata dal famoso epilogo, provocando la necessità di domande ulteriori. Com’è noto, all’epilogo originale del 1936, si aggiungerà nella seconda edizione l’epilogo del 1958. Nella prima edizione vi è, come sappiamo, una prefazione, che rende omaggio al carattere analitico della scuola funzionalista, ma introduce, subito all’inizio, il fantasma, meglio la materia immaginale, di cui il libro è anche oggetto, lo spettro con cui fare i conti: Se fosse possibile presentare una cultura nella sua interezza, dando a ogni aspetto lo stesso peso che quella cultura gli attribuisce, nessun elemento apparirebbe strano o arbitrario.5 L’ethos di questa proposizione si presenta, per così dire, nella forma di un andamento wittgensteiniano. La sua forma logica, ma soprattutto le implicazioni etiche e gnoseologiche, sembrano un’eco del Wittgenstein inedito di quegli anni, volto all’impresa dello smontaggio dell’universo del Tractatus e del rischio teorico delle pratiche e dei linguaggi nelle forme di vita, il Wittgenstein del Big Typescript. Accanto a questa traccia, al gioco di rispecchiamenti tra i due pensatori, arco possibile di un dialogo che non si struttura evidentemente sulle uniche due citazioni esplicite di Wittgenstein nel frammentato corpus di Bateson, l’incipit di Naven, come un prisma, scompone e propone, nella sua apparente semplicità, la questione centrale della ricerca antropologica: la costruzione dell’oggetto etnografico. Naven è, infatti, nella forma del saggio imperfetto, uno dei testi chiave dell’etnografia moderna: una pratica riflessiva e di metodo nello spazio tensivo di una forma di vita, un esperimento nella forma dell’esperienza. L’invenzione, infine, di un lessico capace di ritrovare le immagini in cui disegnare i limiti del linguaggio e i limiti del mondo. Tra Cambridge e gli Iatmul, invece che tra Vienna e il Trinity College. Interrogandosi quindi sul sapere nelle sue forme di trasmissione, sulle forme di vita come pregnanza di linguaggio e senso, corpi e nomi, attività. Che cosa vedo, che cosa descrivo, che cosa cerco, che cosa sono i dati, in quale sincronia li organizzo e mi situo, per riusare il lessico di Bateson, ripensato oggi nel senso di Fabian, a settant’anni da Naven: queste domande venivano esposte in forma implicita in quell’inizio. Duecentocinquanta pagine trascorrono tra l’incipit della prefazione e l’incipit dell’epilogo datato 1936. Ritornando alle domande implicite, Bateson esplicita severamente, verso se stesso, e sinceramente, verso chi legge, la natura frammentaria del suo lavoro di campo: Dopotutto, noi ci apprestiamo a fare l’impossibile, a raccogliere in pochi mesi una cultura complessa, e totalmente estranea. Ogni antropologo sincero con se stesso scopre, tornando a casa, che nel suo lavoro di campo ci sono tragiche lacune; nel mio caso le cose stavano ancora peggio.6 L’epilogo assume allora la forma della confessione scientifica ma, anche, esistenziale: incertezza metodologica, impraticabilità di una scelta netta nella costruzione dell’oggetto di

ricerca, intuizione di un’eccezionalità, il rituale di travestimento, ma apparente inaccessibilità logica e culturale dell’oggetto, aperture alla comprensione provenienti da suggestioni diverse, come alcuni capitoli del manoscritto di Patterns of Culture,7 le conversazioni con la Mead sul terreno, la prospettiva di un disegno dell’ethos e di una ricerca sulla cultura e i comportamenti degli Iatmul. Tutto questo è espresso, nitidamente, come il progetto e il prodotto di una sconfitta di metodo, di un’impossibilità materiale a raccapezzarsi tra i dati. Tuttavia, poche righe più avanti, un elemento è presentato e proposto come un éscamotage teorico possibile, ed è il racconto di un’esperienza illuminante, o di un detour, se si vuole: Molto tempo dopo in Inghilterra, mi accorsi, dalle mie fotografie, che le donne, quando sono abbigliate per le cerimonie pubbliche, indossano ornamenti che usualmente sono indossati soltanto dagli uomini e la scoperta mi condusse all’analogia con la donna vestita da cavallerizza e a sviluppare la teoria del travestitismo iatmul.8 È una serie di fotografie a provocare, in Bateson, la vista di una diversa inquadratura teorica, a offrire un’apertura in termini cognitivi e analitici, in termini di costruzione di un senso. Bateson si accorge, dalle fotografie, di una pratica di ornamento come pratica di travestimento: sono le foto a orientare e ri-orientare la ricerca: lo stato delle cose, come dei nomi, le lunghe liste di nomi dei suoi taccuini di campo, di cui racconta, si ridefinisce a partire da una memoria suggerita dall’immagine fotografica: la stessa immagine vista sul campo ad occhio nudo e fotografata nel field non si era prodotta come segno, indice di una leggibilità. Nella condizione discreta della rappresentazione fotografica, nello stato isolato di immagine riprodotta la prova dell’ornamento assumeva una possibilità di senso: l’ornamento diventava una body of evidence. Ornamento come delitto e prova, in un senso affatto diverso che in Adolf Loos. Vedere nelle foto, attraverso le foto: sembra la scena di un paradigma indiziario che si forma, una dimensione congetturale, una spia prodotta dalla foto, invece che dalla vista: lì, dov’ero non vedevo, qui dove sono intravedo. Blow up, nel senso della procedura, come sarà quarant’anni dopo, nel film omonimo di Antonioni, in un universo del tutto funzionale dove epistemologia e percezione si fanno discorso e narrazione. Non si tratta qui soltanto della normale selezione dei fatti e dei dati che producono fatti, a partire dal field: qui sono i dati a prodursi lontano dal field; nella mediazione di un’immagine, nella rilettura di una serie fotografica: la stampa produce una nuova e buona visibilità.

4.1.2. Produzione di immagini a mezzo di immagini È chiaro che la mente non contiene né oggetti né eventi – né maiali, né palme, né amori – ma contiene soltanto trasformate, percezioni, immagini ecc., insieme con certe regole per generare queste trasformate, percezioni ecc. Sotto quale forma esistano queste regole non lo sappiamo, ma possiamo presumere che esse siano incorporate nel meccanismo stesso che crea la trasformata. In generale, certo, tali regole non sono esplicite come ‘pensieri’ coscienti. Comunque non ha senso dire che un uomo è stato spaventato da un leone, perché un leone non è un’idea. Di

questo leone l’uomo si costituisce un’idea.9 L’atto classificatorio primario, la prima opposizione binaria (o, per usare la famosa espressione di Bateson, la differenza che fa la differenza) è quella fra testo autoctono e discorso tassonomico su quel testo. A questa fanno seguito due tappe: una è di dichiarare che lo stesso testo autoctono è tassonomico (contrapponendo i suoi rapporti classificatori costitutivi a delle relazioni reali, cultura vs natura); l’altro è di presupporre che la natura tassonomica, cioè scientifica, del discorso antropologico è in contrapposizione con l’approccio umanistico, cioè ermeneutico. Il risultato di tutto ciò non è assolutamente un equilibrio strutturale, né semplicemente uno schema classificatorio interpretato ingenuamente in un gioco in cui si impongono modelli arbitrari di realtà. Ciò che si ottiene è una gerarchia costituita da ordini che sono sequenziali e irreversibili; ne deriva dunque la gravità del gioco tassonomico.10 Che cosa producono le quarantotto fotografie di Bateson poste a chiusura di Naven? Che relazione intrattengono con il testo? Come si confrontano con esso? Come leggerle? Una serie di cornici? Finestre capaci di realizzare, a posteriori, un dentro e un fuori, stabilendo gerarchie nella successione delle differenze?11 Nella ricostruzione delle omologie? Un’epistemologia locale, nell’accezione propria di Bateson, ovvero di quel sistema di presupposizioni che stanno alla base dell’interazione di un gruppo sociale, fosse anche una semplice diade? Eco, qui, ulteriore, del Wittgenstein degli ultimi scritti sulla certezza e sulla percezione dei colori come fatto linguistico e sulla natura del giudizio e della certezza come sistemi che operano nelle forme di vita. Cornici, successioni, differenze. Se diamo credito alla successione, alla sequenza delle fotografie, che percorso leggiamo nella strategia di interpretazione di Bateson? Che cosa produciamo dalla sua redazione: una classificazione, una sinossi, una cornice dove inquadrare e visualizzare la scrittura? Che cosa significano le prime fotografie, soprattutto, mai usate come rimando visivo per oltre un terzo dell’etnografia? La prima foto produce un indice di localizzazione. In campo lungo, e da una posizione elevata, il piano superiore di una casa cerimoniale, la foto inquadra il field come un villaggio in lontananza rappresentato da una costruzione di ampie dimensioni: foto di landscape, nel segno del picturesque, con una piccola canoa in primo piano che attraversa il corso d’acqua, condotta da una donna. La didascalia ci informa sull’identità del luogo, il villaggio di Palimbai; ci avverte delle abitazioni nascoste dalla vegetazione lussureggiante; indica le specie principali di alberi da fusto, ci descrive, in forma competente, lo spazio come luogo di pratiche cerimoniali e di pratiche dell’abitare. La didascalia, sin dalla prima foto, richiede la conoscenza del glossario indigeno, la lettura del libro e la memoria del lessico locale. A questa foto seguono sei foto del naven a Palimbai. La prima, isolata, presenta due uomini vestiti da donne, con cappe sfasciate e piccole pagaie da donna alla ricerca dei laua; tre sono parte di una sequenza, i waus – fratelli della madre – alla ricerca dei rispettivi laua (figlio della sorella o padre del marito della sorella, detto da un uomo, e altri parenti classificati con loro); la quinta foto descrive una scena con un momento di restituzione pubblica e scenica dell’azione rituale, il riso dei bambini circostanti alla vista di un wau che finge di cadere per

la stanchezza; la sesta fotografia mostra poi il raggiungimento della canoa da parte di un wau, che, letteralmente, ci casca dentro, fingendo uno sfinimento, e ricordando come sia elemento essenziale del rito il lavoro di costruzione della canoa stessa. Le didascalie rappresentano il rituale attraverso exempla che le foto producono sul piano della visibilità: Bateson non resoconta fotograficamente le fasi del rituale, ma lo produce parzialmente nel suo ambito puntuale – vedi la scena dei bambini – e nello spazio. Localizza senza indicare, descrive nelle didascalie senza spiegare. Le foto sono cornici: dentro di esse qualcosa di incomprensibile accade, l’intorno è la condizione di quell’accadere. Le foto sono in campo lungo: non vi sono primi piani o dettagli: lo spazio è drammatizzato nel totale. La fotografia è in senso tecnico teatrale: esplicita il teatro dell’evento, l’orizzonte di questo. Nel piano della composizione il centro della fotografia – il focus spaziale dell’inquadratura – è denso di avvenimenti. Non ci sono vuoti: i corpi risultano centrati, le azioni corporee centrate, e centrali, come poi vedremo nel film balinese e nelle foto di Balinese Character. “Corporeal image” sia nel senso di un progetto, la restituzione dell’ethos attraverso le immagini statiche e in movimento, sia nella forma esplicita del campo dell’inquadratura, pensata nei termini di una anatomia del corpo, e di una centratura di esso come focus non soltanto diegetico ma formale. Altri naven di altri villaggi sono restituiti dalle foto successive. Dopo Palimbai, Bateson propone quattro foto scattate a Kankanamun. Nella prima, un uomo, travestito da donna, danza con la testa dipinta di un nemico ucciso presa ad uno dei suoi lawa; nella seconda Bateson nella didascalia ci avvisa di un diverso stato della cerimonia, lo stato dell’iniziazione; quindi due foto, in campo lunghissimo, una a 45 gradi, l’altra semifrontale, inquadrano delle canoe e delle donne su di queste: la scena è quella di un naven femminile, ovvero la celebrazione della costruzione di una canoa fatta da un ragazzo le cui madri, le sorelle del padre e le mogli dei fratelli maggiori sono adesso travestite, ovvero svestite, nude, come sottolinea il testo sottostante, nella attitude di un piccolo naven. Di queste foto nei capitoli dedicati al rituale non vi è traccia nella forma del rimando. Queste foto, come un’epifania, si producono alla conclusione del testo. Dopo-testo.

4.1.3. Tavole di una legge della rappresentazione, Plates Sembra, con questa sequenza di foto didascalizzate, o di foto che didascalizzano visivamente una descrizione, che Bateson allarghi il campo e proponga una strategia comparativa, nella forma di una sinossi di immagini come progetto di rappresentazione perspicua. E, invece, la sequenza è interrotta dalla foto di una splendida casa cerimoniale in Kankanamun, casa maestosa e nobile: è la fotografia di un uomo in un interno, foto posata, di un uomo intento a discutere, in piedi presso una sedia evidentemente cerimoniale. Dietro di lui si intravede il volto di un altro uomo, seduto su di una piattaforma letto, il cui sguardo è rivolto verso il fotografo. La foto, da didascalia, ritrae l’interno della casa cerimoniale del villaggio di Malingai. Quindi due fotografie, di interesse strutturistico e simbolico: la prima descrive un pilastro ligneo di una casa cerimoniale a Palimbai, la cui sommità è scolpita nelle forme di un widjimbou o spirito del legno, la seconda descrive le procedure di costruzione di una delle case cerimoniali di Palimbai, come nelle etnografie classiche accade coi disegni utilizzati come strumento di descrizione delle tecniche costruttive. Bateson muove le sue foto

costruendo dei percorsi visivi di restituzione, suggerendo accostamenti, attacchi di montaggio utili alla lettura, per smentire, subito dopo, i suoi stessi procedimenti. Dalla sinossi, dalla ricostruzione comparativa del rito, all’immagine localizzata di una casa cerimoniale, fotografata in ragione della sua funzione e bellezza, all’inserzione della foto di un uomo all’interno di una casa cerimoniale, foto posata; al dettaglio costruttivo e simbolico, materializzato in un pilastro colonna, quindi alla materialità della casa stessa, sino all’atto pubblico e collettivo della costruzione di una casa cerimoniale. Infine, la sequenza, ciò che si dà come tale, si chiude con la presentazione di due slit gongs lignei, di notevolissima fattura, la cui didascalia ci illustra in dettaglio la facies della maschera, il naso la cui grandezza ha importanti significati presso gli Iatmul e altri dettagli scultorei, come la rana scolpita in bassorilievo, altri elementi di morfologia animale. L’origine di questi materiali è il villaggio di Mindimbit. Le fotografie sembrano così, in questa successione per differenza, descrivere e disegnare altre pratiche, le stesse condizioni materiali oltre che culturali della cerimonia, o meglio l’agire materiale come altra manifestazione del cerimoniale in situ. Il montaggio dei materiali fotografici si fa allusivo. Una geografia di nomi di luoghi si propone come un catalogo di nomi. Alcuni riferiti a immagini di luogo – totali fotografici descrittivi – altri destinati visivamente al silenzio eloquente di un nome di luogo. Non vi sono, infatti, ed è curioso per un’etnografia degli anni trenta di scuola funzionalista, mappe geografiche, cartine. Quindi, proseguendo la lettura del materiale fotografico pubblicato, un numero importante di foto descrive, attraverso scatti multi-situati, nel tempo come nello spazio, il noviziato, o meglio, varie fasi del noviziato attraverso immagini di esso. Alcune di queste fasi sono ritratte dalle foto pubblicate, la cui cadenza si dispone in una sequenza aleatoria dettata inizialmente da una scena situata e ritratta in campo lungo, nel sito di Kankanamun, dove è ripreso il corridoio umano dell’iniziazione, dove il novizio è battuto sulla schiena dagli uomini del villaggio, protetto dal padre che ne riceve, di fatto, i colpi; a questa scena si accompagna la scelta di pubblicare una sequenza, inscritta nel principio dell’analogia, di incisioni rituali e sanguinose sulla schiena del novizio, in due diversi villaggi, a Malingai, e, ancora, a Kankanamun. Infine, al noviziato sono dedicati altri quattro esempi: quattro foto situate a Komindinbit. Due sono foto frontali, due prevedono la camera posizionata a 30 gradi sulla destra circa, in una sorta di semi panoramica. I momenti del rituale, qui registrati e rappresentati dalle didascalie – ma forse è più corretto invertire i termini di questa esposizione – riguardano nel primo e quarto scatto una continuità di comportamento differita e riferita a due stati del rituale: il bullying del novizio al mattino e la concessione del riposo nella casa cerimoniale al pomeriggio. La didascalia illustra e registra il dialogo che intercorre al mattino, tra novizio e adulto mascherato – il novizio è trattato come una bambina e interrogato, insultato e schiaffeggiato. La seconda è una visione grandangolare della scena di riposo nella casa cerimoniale. Si intravedono e riconoscono dei tamburi, e fuori quadro, sulla destra si intuisce la presenza degli iniziati seduti – di questi scorgiamo le gambe e i piedi. Le due foto stampate e riprodotte tra queste, descrivono invece un momento del rituale che prevede l’offesa del novizio (l’adulto sfrega sulla fronte del ragazzo le natiche in segno di sfida) e la figura di un bambino nudo e dipinto d’argilla che secondo la descrizione starebbe per lavarsi – questo atto è invisibile nella foto stessa, ma, accanto al bambino, vi è effettivamente un recipiente con del liquido. Richiesta didascalica di un’inferenza. L’immaginazione visiva di un movimento. La statica dell’azione produce e suscita la dinamica

dell’immaginazione. A questo punto, tra le foto che abbiamo descritto, complessivamente ventuno, nove presentano il naven e altrettante esemplificano il noviziato; sei scatti ritraggono case e dettagli di costruzioni e manufatti, includendo la foto posata dell’uomo che discute, foto comunque spaziale, come le altre, la cui cifra è data dal luogo in cui il ritratto si produce, la casa cerimoniale di Malingai. Di qui in avanti le foto restanti, venticinque, si presentano come una sorta di messa in scena dell’incipit di partenza, di quel passaggio che Bateson propone come paradosso stesso dell’esperienza di field, già precedentemente citato: “Se fosse possibile presentare una cultura nella sua interezza, dando a ogni aspetto lo stesso peso che quella cultura gli attribuisce, nessun elemento apparirebbe strano o arbitrario”. Ecco allora la futura sequenza aleatoria, il montaggio delle foto, in quanto immagini di stati singolari, discreti, che, prodotti in sequenza, si organizzano, almeno in parte, sintagmaticamente, generando catene metonimiche, inevitabilmente. Immaginiamole, allora, come un elenco, una lista con minimi elementi descrittivi. Una casa; l’interno di una casa; il campo lungo di una scena sul fiume dove due donne sono su due piccole canoe; una scena di pesca femminile su un lago, forse; una donna con un bambino in braccio, la donna con una gonna di materiale vegetale, a seno nudo, con un collare e una collana; in un totale, un taglio stretto dall’alto, una donna accovacciata con un bambino; un gruppo di spettatori, donne, e bambini, i cui ornamenti suggeriscono essere in presenza di un evento rituale importante, probabilmente lo stesso ritratto nella foto sottostante, dove due uomini riccamente vestiti e adornati di piume sollevano una rete come in una danza; una donna a seno scoperto, riccamente ornata di monili e con un copricapo di piume, ritratta a taglio stretto; un gruppo di donne che danzano, nella medesima tavola, foto sottostante, scena fotografata con un grandangolo. Quindi un reticolo di lance, in un taglio stretto, una sorta di griglia, infissa nel terreno; un uomo che armeggia con una lancia, foto verticali entrambe; un campo lungo dove il reticolo di lance si mostra nel totale e in fondo ad essa si intravede una figura maschile eretta. A seguire delle figure e maschere cerimoniali, delle teste riccamente ornate. Poi, ecco cinque figure maschili: la prima e la terza ritratte di tre quarti, la seconda frontalmente, in piano medio, con il fiume sullo sfondo. La prima ha il viso colorato d’argilla. Le restanti due sono fotografate frontalmente, foto entrambe posate; la prima mostra un nativo dal volto dipinto che reca un curioso bastone con delle insegne, così sembra, mentre l’altra è il ritratto un uomo con una gonna di cotone bianco dall’aspetto quasi occidentale nella postura. Infine, appaiono una testa di donna, due foto di donne in piano medio, una statua feticcio, due sculture e una maschera. Questa lunga descrizione si produce, qui, come una sorta di esperimento paradossale: elude volutamente la restituzione delle didascalie e le informazioni contenute in esse, accolta nella prima parte di questo testo, per leggere quindi il montaggio dei materiali fotografici come una sintagmatica di immagini fisse in sequenza. Che cosa accade allora? Accade che la descrizione delle immagini si disegna nella soglia della rappresentazione formale e mimetica, nell’interpretazione di segni e oggetti, a partire dalle qualità spaziali di essi, dalla percezione culturale dei segni stessi, dall’abilita tassonomica e classificatoria del vedente, dalla riconoscibilità di elementi naturali nella definizione degli sfondi, e così via. Dalla possibilità di costruire cornici, dalla natura dei materiali con cui pensi e produci le cornici. Dall’aver letto Naven prima, e dal ritrovarlo, tradotto e risolto, in un ordine aleatorio di tipo superiore.

4.1.4. I see, therefore it is Che cosa vuol dire credere? Che relazione si stabilisce tra la credenza e la visione? Due frammenti tratti entrambi da testi scritti da Bateson sul finire degli anni settanta suggeriscono alcune tracce: Un po’ di fede nella percezione è una necessità vitale, e riunendo i nostri dati sotto forma di immagini ci convinciamo della validità di ciò che crediamo. Vedere è credere. Ma la fede sta nel credere che vedere è credere.12 La mappa non è il territorio e il nome non è la cosa designata. Questo principio, reso famoso da Alfred Korzybski, opera a molti livelli. Esso ci ricorda in termini generici che quando pensiamo alle noci di cocco o ai porci, nel cervello non vi sono né noci di cocco né porci. Ma in termini più astratti la proposizione di Korzybski asserisce che sempre quando c’è pensiero o percezione oppure comunicazione sulla percezione vi è una trasformazione, una codificazione, tra la cosa comunicata, la Ding an sich, e la sua comunicazione. Soprattutto, la relazione tra la comunicazione e la misteriosa cosa comunicata tende ad avere la natura di una classificazione, di un’assegnazione della cosa a una classe. Dare un nome è sempre classificare e tracciare una mappa è essenzialmente lo stesso che dare un nome.13 Queste tracce ci suggeriscono di guardare diversamente alle foto degli anni trenta. Ritorniamo alla lista, all’elenchos, alle fotografie, all’ordine aleatorio di queste. Al di là della fascinazione crudele di alcune (le foto di iniziazione e travestimento, le foto di feticci rituali), è lo statuto testuale di esse a farsi complesso e contradditorio: l’uso di queste come prova e la pratica di queste come indagine, la pragmatica e la metodologia. La foto si fa indagine e reperto: si produce come approccio e come risultato, come osserva Marcus nel suo A Timely Rereading of ‘Naven’: Gregory Bateson as Oracular Essayst del 1985, tradotto e ripreso nell’edizione italiana del 1988: Per Bateson le immagini sono le prove più convincenti che si possano portare, ed esse subentrano nel testo esattamente nel punto in cui le descrizioni verbali diventano più problematiche, cioè all’interno delle descrizioni quasi letterarie dell’ethos. È questo il punto in cui Bateson si sente metodologicamente più debole, e così egli comincia a citare le fotografie nel testo come prove, pur avendole praticamente ignorate nei capitoli precedenti […]. Il più potente rimedio sono appunto i dati fotografici, simbolo della rappresentazione pura. Ma, di fatto, le immagini non parlano da sole; di qui la necessità di rafforzarle con didascalie narrative.14 Tuttavia, quest’osservazione puntuale, che sottolinea sia la natura paradossale dell’uso delle immagini, sia la natura narrativa del sistema delle didascalie, non affronta il progetto stesso

di risoluzione fotografica del rituale e della cultura iatmul. A differenza che in Malinowski, in Argonauti del Pacifico, le cui fotografie – indubbiamente di qualità inferiore – così come i disegni, diventano illustrazione del testo nelle forme della tradizionale cultura didascalica delle immagini, e del tradizionale uso diegetico delle stesse – l’inserimento nel testo nelle consuete forme della messa in sicurezza tipografica del senso, ovvero la spaziatura – le foto di Bateson costituiscono una messa in scacco ulteriore del senso dell’agire etnografico come scrittura. Il montaggio paradossale della sequenza fotografica, il tentativo di produrre, per interpolazione di oggetti unici e discreti, la restituzione del senso del progetto stesso, dichiarano l’evidenza di una messa in scena della rappresentazione come challenge epistemico essenziale. Che cosa vediamo, si domanda Bateson, e soprattutto come vediamo le cose che vediamo, come credere a ciò che si crede e vede? Ecco l’elenco allora, che produce una curiosa sintagmatica anche nella produzione di senso delle didascalie. Abbandonato il rituale, sfocato il centro oggettuale, il topic dell’etnografia, la sequenza fotografica, mimeticamente, come il volume, lavora ulteriormente nel segno dell’alea della rappresentazione, della restituzione etnografica come metodo. Il montaggio della sequenza propone le fotografie come una sincronia paradossale, produce un tempo differito e differente, il tempo degli spazi come dei riti, all’interno della stessa catenaria. Dal capitolo nono in avanti, la fotografia è acclusa e inclusa come prova: pilastro visivo – mimetico – del reale. I luoghi diversi sono disposti nella medesima stringa di dati, le immagini localizzate aggregate ad altre immagini, ora per tipologia ora per analogia. L’ethos vorrebbe e dovrebbe farsi eidos, l’immagine testimoniare e ripresentare in forma di documento la verità dell’habitus e della cultura; le foto degli uomini sono didascalizzate come foto di tipi e, viceversa, la descrizione testuale di esse rimanda, in un perfetto cortocircuito di senso, alla fotografia. La logica dell’interpretazione si fonda sul cortocircuito della tautologia. Le foto di donne rappresentano il carattere della modestia. La postura, lo sguardo poco frontale, che scivola di lato, oltre le spalle, nel fuori campo, sono il segno di questo ethos – anche se la fotografia di una donna con bambino, accovacciata, ripresa in una conversazione, e incosciente dell’obiettivo, come Bateson annota in didascalia, manifesta una differenza. In quella fotografia, infatti, la donna produce semplicemente uno sguardo diverso, non etichettato nell’ethos, smarcato dalla volontà iconica di un volto segno, di una espressione segno. Questione che in Naven, Bateson poneva a se stesso con chiarezza, osservandosi agire in quanto osservatore e osservato, ma cortocircuitando esperienza e significato, strategie mimetiche e di camouflage dell’altro nativo, strategie culturali proprie della cultura iatmul nelle pratiche di contatto, definendo discrezione ed esibizione come immagini sociali e non individuali. Riconoscendo ma sottacendo infine, e in atto, le condizioni di rappresentazione fotografica, il contesto come occasione di confronto, diversione, sottrazione, il campo degli sguardi in cui il soggetto fotografato viene ad essere ritratto: Nelle condizioni sperimentali prodotte dal fatto di inquadrare un individuo con la macchina fotografica si osserva abbastanza normalmente un fenomeno simile a quello che si vede in occasioni rituali. Quando una donna è fotografata, la sua risposta alla macchina fotografica differisce a seconda che indossi le sue cose più belle o i vestiti di ogni giorno. Nel primo caso tiene la testa alta davanti all’obiettivo, ma in abiti quotidiani piega il collo, distoglie il viso ed evita di

comparire in pubblico, cioè di stare sola davanti al fotografo mentre le sue amiche guardano, mentre un uomo, qualunque sia il suo abito, tende a gloriarsi davanti alla macchina fotografica e porta quasi istintivamente le mani alla paletta da calce come se dovesse produrre il suono forte che esprime collera e fierezza.15 Ma, ancora più significativa, e perturbante, anche se poi inesplorata, risultava la relazione tra immagine riprodotta e interpretazione nativa, tra esperienza fotografica come attività di registrazione e restituzione locale dell’immagine come senso, ricezione culturale dell’immagine stessa: Un’altra volta chiamai uno dei miei informatori ad assistere allo sviluppo delle lastre fotografiche. Le sviluppavo con una luce fioca in un largo piatto e quindi egli poteva vedere il graduale apparire delle immagini. La cosa lo interessò molto e alcuni giorni dopo mi fece promettere che non avrei mai mostrato il procedimento ai membri di altri clan. Kontum-mali era uno dei suoi antenati ed egli vide, nel processo di sviluppo fotografico, la vera incarnazione delle increspature dell’acqua in immagini, e lo considerò la dimostrazione della verità del segreto clanico.16 Osservazione questa il cui esito e le cui conseguenze non trovano ulteriore analisi: la descrizione si presenta però come un’interpretazione. Il circuito culturale dell’informatore traccia una lettura puntualmente e localmente orientata dalla propria tradizione indigena: Bateson lo evidenzia, ma tralascia la conseguenza del suo atto, e, sopratutto la forma della sua presentazione; non si tratta di un domain dell’immagine e del suo senso, ma invece della creazione dell’immagine, la sua produzione nel contatto del bagno chimico come equivalente di un atto che si dà come esoterico e magico: il formarsi dell’immagine, il centro di questa esperienza non è l’immagine, e neanche la foto come materia, oggetto tangibile. Da cui, come osserva Francesco Faeta: L’immagine tra gli uomini studiati da Bateson, proviene dalla divinità e non è rilevante in sé, ma del suo costruirsi, nel suo promanare dalla tremula azione delle onde. È l’in sé della rappresentazione che viene scartato lì, a favore dell’agente mitico e del progresso.17 L’ordine di senso e di valori in cui viene a inscriversi è quindi l’ordine del segreto e del privilegio. Nei termini di una tecnologia dell’incanto, come direbbe Gell.18 L’immagine processo ritorna nell’eidos, nel senso di Bateson, e in questa legittimazione viene fatta propria dall’informatore Iatmul. La foto rimane, comunque, un atto di appropriazione, di iscrizione dell’altro nel proprio universo di senso: nella differenza le due posizioni, incommensurabili, sembrano darsi come una figura, una rappresentazione di Feyerabend di due diverse ipotesi di comprensione e spiegazione, di logiche simboliche irriducibili delle culture native, come poi ha cercato di mostrare Roy Wagner.19 Nella realtà dell’etnografia di Bateson, questa relazione si inscrive, nella sua evidenza, nella relazione asimmetrica del field: la dimostra. L’interpretazione, culturalmente legittima da parte dell’informatore, è comunque

un’interpretazione orientata dalle condizioni di produzione del contatto nella bacinella dello sviluppo fotografico. Letteralmente, in questo senso e in questo caso. La stampa. Il contatto. L’immagine. Se il progetto di Bateson muove dall’ipotesi che qualunque gruppo sociale, dai cacciatori di teste Iatmul ai fellows di un college di Cambridge, impone ai propri membri una serie di atteggiamenti emotivi obbligatori,20 il record fotografico è appunto la prova pubblica dell’ethos: la postura si fa natura, l’ethos, differenziandosi nell’infanzia tra maschile e femminile, si produce corporalmente; nelle società semplici l’embodiment traspare. Le forme di vita, pur capaci di realizzare forme così complesse di rituali, forme culturali, possono essere risolte otticamente – un vero reset del setting culturale e del field come prodotto di questo contatto e frizione. Nell’impossibilità storica di un’etnografia dialogica, l’etnografia ottica sembra prodursi come scarto, mossa del cavallo, traccia boasiana nel quadro culturale dell’empirismo della formazione di Bateson, della sua ragione analitica. Apparentemente vicino al Wittgenstein a lui coevo delle lezioni e seminari di Cambridge, Bateson ripropone piuttosto, in forma sofferta e rimodellata, il Wittgenstein del Tractatus accostando, in un certo senso, limiti simili, per produrre un movimento opposto – l’ethos letteralmente si mostra, si fa record, non esperienza. Di esso si produce, attraverso la fotografia, conoscenza. I tipi russelliani sono la matrice di questo progetto, l’universale singolare: ai limiti del linguaggio, l’immagine fotografica si costituisce come soglia, passaggio ad un altro stato della rappresentazione, ad un altro circuito della verità come visibilità. La presa diretta fotografica si fa validazione, dimostrazione. Le tavole, cui il testo rimanda di volta in volta, così come il testo, ma in un’ulteriore, evidente, drammatica polisemia, realizzano il teatro di una necessaria semiosi di tipo behaviorista, alla ricerca di pattern, nell’attrazione verso una psicologia della cultura. L’interpolazione di eventi, come la morte di un importante membro della tribù, un cacciatore coraggioso di teste, omicida di diversi uomini, non produce la necessaria apertura – o per alcuni scissura se non ferita – diacronica nel progetto di interpretazione: la scoperta concettuale della schismogenesi impatta e collide con la necessità di rappresentare l’interezza culturale della comunità e del gruppo, di riportarla nel segno dell’ethos, di inscriverla nella teoria dei tipi, di tipizzare le foto stesse, sia nella didascalia che nell’inquadratura. Il punctum, nel linguaggio di Barthes, si fa progetto di studium.21 L’evidenza eventualmente emica, e comportamentista dell’etnografia, trova la sua equivalenza e conferma nel processo di rappresentazione, nella forma del record. Nell’immagine fotografica così ottenuta, oggetto costruito e oggetto presentato finalmente coincidono nell’occhio ottico del medium, nell’inconscio meccanico della relazione tra fotografo, strumento e oggetto. Protési verso il mondo, lo tocchiamo con la protesi. Ecco l’obiettivo, letteralmente. La donna modesta non guarda in macchina: lo sguardo laterale è lo sguardo della modestia. Il carattere maschile, incardinato nell’idea di fierezza, si fa invece eccesso: surdeterminazione di senso, teatro; lo sguardo si ostenta, obiettiva l’obiettivo. Il paradosso della mappa di Korzybski si rovescia, pienamente, in questa rappresentazione: il territorio diventa davvero la sua mappa. Persino il rito, in un certo senso, rischia di essere nuovamente ritualizzato dall’interpretazione: per evitare questo, il record, come rappresentazione, si presenta e si inscrive nel segno dell’ethos, della tonalità emotiva di una cultura, come la funzione di verità del positivismo logico. Sraffa, intanto, in quegli stessi anni, smascherava, nella cinesica culturale delle sue conversazioni con Wittgenstein, la forma logica del significato, mentre Boas, e poi il comportamentismo, al

di là dell’oceano, o Mauss, al di qua, in un’altra e più complessa accezione culturale, riportavano in superficie il mondo, nello specchio in apparenza primitivo del primitivo, alla ricerca dell’autentico. I gesti si situavano, si imitavano, si diffondevano, si relativizzavano, come forme concrete di vita embodied, incarnata, di cultura e tecnica del corpo. Il progetto antropologico di Wittgenstein era molto più radicale. Inedito e segreto, sfiorava il mondo antropologico anglosassone e la sua presupposizione analitica e funzionalista. L’analitica delle forme di vita come pratiche di linguaggio era la via di un alterity verso cui la mimesis empirica operava in forme e modi di fraintendimento comico. Episteme sincera, ma tragica, nel field diabolico dell’obiettivazione per immagini.

4.2. Produzione di immagini a mezzo di immagini o la tavola periodica degli elementi dell’ethos balinese Se la questione del metodo è centrale nelle scienze sperimentali, nelle scienze sociali del Novecento assume spesso la forma di una excusatio, o la tattica di una presa coerente di distanza da modelli eccessivamente formalizzati. Negli anni trenta la questione dei social data segna il dibattito scientifico, costringendo le scienze sociali alla messa a punto di nuove metodologie di rilevamento e interpretazione dei dati. La lettura delle note di metodo, dalla prefazione di Balinese Character, testimonia l’originalità del progetto Bateson-Mead e lo spirito del tempo, il contesto in cui è maturato, il cui esito diviene pubblico negli anni di guerra, in una New York lontana dai bombardamenti europei, dove Lévi-Strauss immagina, grazie a Jakobson, la formalizzazione dei lignaggi e delle strutture di parentela, e dove, in nome dell’analisi delle immagini, Bateson e Mead ipotizzano un turning point metodologico nelle scienze antropologiche. Un esame attento delle premesse metodologiche si rende così necessario, e un riferimento testuale, ampio, si fa essenziale:

La forma di presentazione usata in questa monografia è un’innovazione sperimentale. Nel periodo fra il 1928 e il 1936 eravamo separatamente impegnati in tentativi di tradurre aspetti culturali – quelli che, pur essendo spesso colti dall’artista, non

riescono ad essere documentati adeguatamente dallo scienziato – in qualche forma di comunicazione che fosse sufficientemente chiara e inequivocabile da soddisfare i requisiti dell’indagine scientifica. L’adolescenza in Samoa, Growing up in New Guinea, e Sesso e temperamento, tentavano di comunicare quegli aspetti intangibili della cultura che erano stati vagamente definiti come il suo ethos. Dato che non era disponibile una terminologia scientifica precisa, usammo comuni parole in inglese, con tutto il peso e limiti delle connotazioni culturali, in un tentativo di descrivere il modo in cui la vita emotiva di questi popoli dei mari del sud fosse organizzata in forme culturalmente standardizzate. Si trattava di un metodo angusto: trasgrediva i canoni dell’esposizione scientifica, precisa e operativa, propria della scienza; era troppo dipendente da fattori idiosincratici di stile e di abilità letteraria; era difficile da duplicare; ed era difficile da valutare. Fatto ancora più importante, noi siamo coscienti del rapporto fra cultura e concetti verbali: le parole che una cultura ha investito di significato sono, proprio per la loro stretta aderenza culturale, particolarmente inadatte come veicoli per interpretare con precisione un’altra cultura. Molti antropologi sono stati così colpiti da questa inadeguatezza verbale al punto che hanno cercato di acuire le loro interpretazioni di altre culture appropriandosi, a piene mani, di termini della lingua nativa. Tuttavia, oltre a essere goffa e proibitiva, questa procedura non risolve il problema, perché l’unico metodo di traduzione disponibile per rendere finalmente comprensibile la terminologia indigena è sempre la nostra lingua culturalmente limitata. D’altro canto, vari tentativi di sostituire termini di valenza interculturale, pur essendo abbastanza efficaci nel campo dell’organizzazione sociale, si sono rivelati estremamente carenti quando si trattava di sfumature culturalmente più sottili. Parallelamente a questi tentativi di affidarsi alla comune lingua inglese come mezzo, stavamo sviluppando l’approccio discusso in Naven – un approccio che mirava a sviscerare ulteriormente il problema dimostrando che le categorie quali l’ethos, lì definito come “un sistema organizzativo, culturalmente standardizzato, degli istinti e delle emozioni degli individui”, non erano classificazioni di elementi di comportamento bensì astrazioni che potevano essere applicate sistematicamente a tutti gli elementi di comportamento. Il primo metodo fu tacciato di essere giornalistico – di essere una selezione arbitraria di casi molto pittoreschi con cui si illustravano tipi di comportamento così alieni al lettore che quest’ultimo continua a considerarli incredibili. Il secondo metodo fu bollato come troppo analitico – in altre parole trascurava i fenomeni di una cultura per intellettualizzarla e schematizzarla. Il primo metodo fu accusato di essere talmente sintetico da diventare finzione, il secondo di essere talmente analitico da diventare discussione metodologica dissociata. Nella presente monografia cerchiamo un nuovo metodo con cui affermare il rapporto intangibile fra tipi diversi di comportamento culturalmente standardizzato, accostando fotografie reciprocamente rilevanti. Elementi di comportamento, spazialmente e contestualmente separati – un danzatore in trance portato in processione, un uomo che guarda su a un aeroplano, un servo che saluta il suo padrone in una rappresentazione teatrale, il

dipinto che rappresenta un sogno – possono avere rilevanza in un’unica discussione: lo stesso filo conduttore emotivo può attraversarli tutti. Per presentarli insieme in parole, è necessario ricorrere a espedienti inevitabilmente letterari, oppure dissezionare le scene viventi in modo tale che ne rimangono solo gli elementi disseccati. Usando fotografie, l’interezza di ciascun elemento del comportamento riesce a essere conservata, mentre lo speciale riferimento incrociato che si desidera può essere ottenuto organizzando la serie di foto sulla stessa pagina. È possibile evitare la costruzione artificiale di una scena in cui un uomo, mentre guarda una danza, guarda anche su a un aeroplano e fa un sogno; è anche possibile evitare di pensare mediante diagrammi l’elemento singolo in queste scene sul quale vorremmo soffermarci – l’importanza dei livelli dei rapporti inter-personali dei Balinesi – in modo tale che la realtà delle scene stesse risulti distrutta. Questo non è un libro sulle usanze balinesi, ma sui Balinesi – sul modo in cui essi, come persone viventi che si muovono, stanno in piedi, mangiano, dormono, danzano e vanno in trance, incarnano quell’astrazione che (dopo che l’abbiamo astratta) chiamiamo tecnicamente cultura.22 Questa lunga nota, estratto della prefazione di Balinese Character, 1942, firmata Mead e Bateson, ci introduce nel cuore di un modello teorico, di un viaggio ai bordi della scienza. L’impresa forse più estrema dell’antropologia del Novecento, in termini di metodo, restituzione, esperienza di costruzione di un set di lavoro e di un set di strumenti a questo votati, è un volume di grande formato, con una prefazione, il testo succitato, una introduzione etnografica sul field di Bajong Gede e sull’attività ivi realizzata, a firma Mead, una nota tecnica e di metodologia sulle riprese fotografiche, e sull’uso della cinepresa, a firma Bateson, cento tavole, comprendenti ciascuna da quattro a un massimo di undici fotografie, stampate sul recto, con note per ciascuna tavola e didascalie di ciascuna foto, stampate a fronte, per un totale di settecentocinquantanove foto. La prefazione si presenta nella forma di una excusatio scientifica di entrambi. Essa rende nota la problematica accoglienza dei recenti rispettivi testi etnografici, l’accusa di eccesso analitico espressa verso l’uno, di giornalismo impressionistico verso l’altra; la sostanziale disapprovazione della comunità scientifica in ragione degli stili di approccio e restituzione, di metodologia, sin lì manifestati da entrambi. Accanto a questo rendering pacato delle posizioni accademiche, emerge poi la diffidenza comune verso la scrittura e nei confronti della lingua materna di entrambi, il dubbio condiviso della difficoltà di traduzione in una lingua moderna di un sistema di lingue diversamente arcaiche, dove la traduzione, inevitabilmente culturalizzata di una cultura, si costituisce come tradimento o, quanto meno, travestimento della stessa. Da cui l’esplorazione di una metodologia nuova, il disegno di un metodo, l’ipotesi del metodo capace di restituire formalmente lo stile emotivo di una cultura nella forma della rilevazione dei patterns gestuali di una popolazione. Riecheggia quindi la lezione boasiana, l’attenzione al movimento come spettro, in senso fisico, del comportamento e dell’imprinting culturale, del gesto come marker e marca di una semiotica dei comportamenti. Nella rilevazione ottica della corporeità culturale dei gesti, le culture si mostrano specificamente: la dimensione motoria, la matrice corporea sembrano potersi eleggere come dati scientifici che la registrazione fotografica è in grado di

produrre, dati che l’analisi successiva organizzerà e renderà comprensibili. Tuttavia la lezione boasiana è qui assunta e risolta attraverso uno scarto metodologico rischioso e innovativo: l’intelligenza dei dati, delle immagini come dati, sarà assolta attraverso l’uso delle immaginidati come oggetto e strumento dell’analisi, all’interno quindi di una omologia linguistica da inventare, di una procedura dove l’analogon fotografico è sollecitato e analizzato, per contrasto o affinità, nella forma dell’analogia: produzione di immagini a mezzo di immagini, intelligenza delle immagini attraverso le immagini. Così le une accanto alle altre, nella sequenza, nella cadenza, nella serie convergente, o divergente, per comparazione ad altre immagini provenienti da altri repertori e cataloghi, così le immagini della popolazione balinese, appunto predisposte, mostreranno l’ethos della popolazione stessa. Progetto della rappresentazione perspicua, certo sostenuta e ri-tracciata dalla descrizione puntuale delle immagini stesse in forma di didascalia, impalcata dalla strutturazione di una vera e propria tavola dei principali comportamenti collettivi e individuali, sinossi visiva della cultura non solo del luogo e del field, ma della stessa cultura balinese. Progetto di una matrice visiva, di una macchina di Turing delle tonalità culturali, principio del locale e dell’universale risolto nella traduzione del tono emotivo nelle pratiche del corporeo, dell’ethos nel gesto, del reale nel visto-visibile – che gli strumenti documentano, e che l’occhio risolve successivamente nell’organizzazione tassonomica: classe di comportamenti, classi di nomi, teoria dei tipi. Oppure, in un’altra lettura, la matrice originale, embodied, dell’identità, il termine e il luogo del progetto nella storia della cultura del disegno warburghiano, della mnemosyne, dell’atlante. Vale la prima ipotesi. Riprendiamo allora Korzybski, nell’uso che ne fa Bateson: Passiamo quindi all’enunciazione, nella forma più ampia possibile, della famosa asserzione generale di Korzybski, secondo la quale la mappa non è il territorio. Osservando la cosa nella prospettiva amplissima che qui adottiamo, noi vediamo la mappa come una specie di assetto che assomma le differenze, che organizza le notizie di differenze del ‘territorio’. La mappa in questione si manifesta grazie al metodo di indagine e risoluzione delle questioni indagate, come un metalinguaggio della cultura, dove l’analisi delle immagini, statiche, ma soprattutto l’analisi delle immagini in movimento, non si presenta come una euristica: si costituisce, letteralmente, come una teoria del metalinguaggio, nel circuito, apparentemente coerente, della produzione di immagini a mezzo di immagini. Nella traccia di Arnold Gesell e della sua analisi psicometrica dei comportamenti infantili, analisi formalizzata attraverso l’uso del film come record di situazioni e comportamenti già dalla metà degli anni venti, la cui ricerca verrà utilizzata dalla Mead in Growth and Culture.23 Tuttavia la struttura di Balinese Character necessita di un’analisi che intanto tracci la forma stessa della pubblicazione, la sua intenzionalità grafica e tipografica come progetto di analisi culturale, come modello paradigma di una scienza sociale nel segno delle immagini fotografiche. Le tavole della cultura balinese si presentano raggruppate in dieci categorie: queste le formano e le consolidano, sono mappa e territorio. Le dieci categorie di questa macchina, ipoteticamente leibniziana, sono le seguenti:

a) introduzione geografica, socioeconomica e psicoculturale b) l’organizzazione sociale c) apprendimento d) integrazione e disintegrazione del corpo e) orifizi del corpo f) simboli autocosmici g) genitori-figli h) relazioni tra fratelli i) stadi di sviluppo dell’infanzia e dell’adolescenza j) riti di passaggio Le dieci categorie raggruppano oggetti e classi di oggetti evidentemente non commensurabili, nella forma delle categorie, non modellizzabili come tipologie. La prima categoria illustra il luogo, partecipa di un criterio di descrizione fisica che viene sussunto nell’ipotesi psicoculturale attraverso la messa in forma come scena ottica e visiva di tre categorie, crowd, awayness e trance, in quanto matrici della struttura sociale, di cui l’ethos peculiare del balinesi è fondamento: il carattere è il visibile e il visibile è il carattere: da cui il balinese steady state. Le tavole dedicate all’organizzazione sociale si producono come un tentativo di restituzione spaziale e simbolica e descritta attraverso le offerte e i sacrifici alle divinità: il sacro come comportamento pubblico regolato e culturalmente incorporato. L’apprendimento, luogo classico degli interessi di Bateson, come della Mead, viene risolto da una serie di tavole che presentano l’apprendimento non verbale, l’esperienza cenestetica, la danza come pratica di un sapere corporeo che viene trasmesso mimeticamente dove trasfigurato, e formalizzato, appare il beroek, ovvero il corpo che cade a pezzi, elemento centrale della cultura balinese e della restituzione e interpretazione della cultra locale in Balinese Character. La quarta categoria è appunto il beroek e i rituali a esso dedicati, con immagini di una scena teatrale dove il feticcio bambola che rappresenta il corpo disintegrato provoca la trance di un’adolescente, sequenza leggibile come la trama di una catena sintagmatica complessa, designando in parte il concetto di pattern batesoniano.24 La quinta categoria si occupa degli orifizi del corpo, e di alcuni atti legati ad essi, e della valenza sociale e culturale manifesta. La bocca e l’ano diventano luoghi di pratiche pubbliche interdette – l’evacuare e il mangiare, atto privato nel field balinese – di pratiche pubbliche socialmente esibite come il bere e l’urinare, ma anche gli estremi di una rappresentazione del corpo che lo inscrive morfologicamente in una descrizione tubiforme, lo pensa come un canale, una macchina semplice e binaria – in and out. Gli atti di suzione, i modi dell’oralità, sono attribuiti a questo gruppo di significati, nello spazio di questa sintagmatica, in una pura risoluzione analogico-culturale di una interpretazione morfologica e anatomica, un geniale atto di sovrimpressione di immagini, una truka cinematografica, un trucco concettuale. La sesta categoria riguarda immagini di simboli autocosmici: ovvero la costruzione di cosmogonie pensate e immaginate intorno a proiezioni oggettuali o di tipo fallico. La settima, la più vasta, si occupa della relazione genitori/figli, individuando nell’infanzia il

momento essenziale della formazione del carattere, la costruzione sociale delle differenze, la costituzione del maschile e femminile, sulle tracce del concetto di schismogenesi prodotto da Bateson nell’etnografia tra gli Iatmul. In questa sezione gli oggetti esaminati, le sequenze proposte, la sintagmatica suggerita nelle tavole e tra queste, si fa più complessa e non scevra di numerose aporie. Qui troviamo il germe del doppio vincolo, nella scena materna di una relazione improntata prima all’entusiasmo, la seduzione della madre, poi rovesciata nel rifiuto di questa di proseguire il gioco appena il bambino manifesta la sua volontà di giocare. Qui nei comportamenti materni e infantili è visualizzata la awayness e, sempre nella stessa sezione, è trattata la trance, anch’essa risolta come origine e spiegazione nella relazione madre/figlio, e insieme letta come permanenza di un’istintualità primaria, memoria di una passato lontano, il primitivo e il rimosso che emerge nella steady state culture. Anche qui la spiegazione è il prodotto di un’inferenza illecita. Dato l’ethos ri-costruito e costituito dall’interpretazione, la trance infatti si manifesta come aporia, pur essendo un’evidenza sociale complessa e ripetuta, sia in situazioni altamente formalizzate e ritualizzate come la danza, sia nel teatro del beroek: così la trance diviene il ritorno del rimosso, il primordiale, una sorta di deus ex machina dell’interpretazione invece che dell’azione e dell’interazione sociale. Il soggetto osservato è qui oggettivato dall’immagine fotografica, o, più correttamente, dall’immaginazione fotografica. La spiegazione si mostra: evidenza, flagranza, evidence scientifica. La sintagmatica si risolve ed è risolta come una tautologia, attraverso un’abduzione imperfetta: il carattere balinese si vede nell’oggettività delle fotografie – i balinesi sono ciò che si mostra in fotografia – i balinesi mostrano il loro carattere, oggettivamente. Le categorie restanti trattano delle relazioni tra fratelli, della costruzione dell’identità attraverso giochi di rivalità suggeriti e prodotti dalle madri e degli stadi di sviluppo dell’adolescenza, a definire ulteriormente il piano dell’opera e l’assunto da dimostrare e validare. Infine l’ultima categoria traccia i riti di passaggio e dedica ampio spazio ai riti funerari e alle cerimonie di congedo, alla pratica di riesumazione del cadavere, la ricostruzione dello scheletro, con accanto una bambola feticcio sul corpo della quale viene disegnato il corpo come intero, e, infine l’incenerimento dello stesso. L’ultima tavola, la numero cento, è dedicata al concetto di continuità della vita nel modello culturale balinese secondo cui le anime dei morti si reincarnano nei bambini secondo uno schema che vede il bisnonno dare il suo nome ai pronipoti, così da costituire un asse per cui il ciclo viene a compiersi nella trasmissione ciclica dei nomi: il bambino sarà Made, il padre del bambino il padre di Made, il nonno del Bambino il nonno di Made – nel caso il bisnonno sia ancora in vita si provvederà ulteriormente alla differenziazione terminologica. Detto nei termini di Bateson, sinteticamente: “ciascun individuo si trova in qualche punto di questo ciclo di tre generazioni e la sua particolare posizione è determinata dalla tecnonimia”.25 Questa è una breve descrizione del contenuto di Balinese Character. Ma quanto ancora resta da indagare è semplicemente sorprendente: al di là, infatti, della evidente dimensione di aporia che sottende la restituzione del progetto e che coincide largamente con i presupposti, è la prassi che, indagata, riserva elementi originali e paradossali, elementi che attengono alla costruzione dell’oggetto di indagine innanzitutto. Ciò che conta è la rilettura del materiale, la definizione di questo sul campo, in ragione e in virtù della registrazione come flusso della coscienza meccanica dei mezzi. Grazie alla fedeltà al reale, ai dati di realtà più esattamente, l’intelligenza differita dell’analisi e del montage, consentiranno ai materiali

stessi di manifestarsi: la finestra su Bali ha la forma di un mirino fotografico e la bidimensionalità di partenza di una pellicola 35mm. Il caricatore automatico consentirà gli scatti in successione alla ricerca della sequenza, la stampa consentirà l’esplorazione della materia stessa dell’impressione fotografica: nell’emulsione chimica risiede il tono e l’emozione altrimenti chimica di una cultura: prima del montage, lo sviluppo è il tempo di ridefinizione dell’inquadratura, di messa a fuoco di un focus, di tipizzazione dell’immagine obiettiva. Lo sviluppo, nel taglio, si produce come un nuovo e necessario cadrage, come récadrage. Attraverso la forma ripensiamo la potenza, l’in nuce di quella foto. Questo è il progetto del libro. Come da prefazione. Soprattutto un esito di una relazione complessa tra taccuini e materiali visivi, tra tempo della ricerca e strumenti di questa, tra dati e record da decifrare e organizzare: Mentre avevamo progettato di scattare 2000 fotografie, ne facemmo 25.000. Ciò significava che gli appunti che scrissi furono analogamente moltiplicati per dieci e, quando vi si aggiunsero anche quelli di Made, [il segretario, traduttore, etnografo], il volume del nostro lavoro mutò in modo straordinariamente significativo.26

4.2.1. Note ciclopiche, taccuini visivi, oggetti felici, oggetti melanconici, carattere a stampa Le note di accompagnamento alla produzione e all’uso di materiale fotografico e filmico sono un elemento cruciale di Balinese Character, essenziale nell’analisi ex post del progetto, essenziale come atto di restituzione metodologica ex post del progetto stesso da parte dell’antropologo inglese: […] Si possono menzionare quattro fattori che hanno contribuito a diminuire la camera consciousness, cioè la timidezza e la diffidenza dinanzi all’obiettivo fotografico o cinematografico, nei nostri soggetti: A. Il gran numero di fotografie prese. In due anni abbiamo fatto circa 25.000 scatti con la Leica e girato circa 22.000 piedi di pellicola in 16mm, ed è quasi impossibile che un soggetto rimanga camera-conscious dopo la prima dozzina di scatti.

B. Il fatto che non abbiamo mai chiesto il permesso di fare le foto ma abbiamo fotografato continuamente, in forma di abitudine, portando sempre i due apparecchi con noi in ogni momento, in modo che anche il fotografo stesso smetteva di essere consapevole della loro presenza. C. Normalmente ci concentravamo sul fotografare i neonati, e i genitori trascuravano che anch’essi erano ripresi nelle foto (come farebbero anche dei genitori americani in circostanze simili). D. A volte, quando ci aspettavamo che il soggetto non avrebbe apprezzato di essere fotografato in quel particolare momento, abbiamo usato un mirino angolare […] In parecchie occasioni abbiamo creato il contesto in cui prendere note e fotografie, ad esempio pagando per la danza, oppure chiedendo alla madre di aspettare che il sole fosse alto per fare il bagno al bambino, ma questo è molto diverso da scattare fotografie posate. Il Teatro Balinese dipende economicamente dai pagamenti per le performance teatrali, e l’enfasi ulteriore data al bambino serviva a sminuire la consapevolezza della madre di essere fotografata. Una visita per “vedere il bagnetto del bambino” durava da un quarto d’ora a due ore, con la gran parte del tempo dopo il bagno passata a osservare una vasta gamma di tipi di gioco e altri comportamenti della famiglia. In una situazione del genere, un rullino di film per la Leica (circa quaranta scatti), durava da cinque a quindici minuti. […] C’è stato però un tipo di selezione piuttosto curioso. Eravamo obbligati a economizzare sulla pellicola in 16mm. E non badando a future difficoltà di esposizione, abbiamo presunto che le fotografie e il materiale filmato insieme

avrebbero costituito la nostra documentazione dei comportamenti. Abbiamo dunque riservato la cinepresa per i momenti più attivi e interessanti, registrando invece i comportamenti meno significativi e più lenti con la macchina fotografica.27

Sono due gli argomenti utilizzati da Bateson nell’indicare e convalidare il lavoro fotografico di campo come lavoro di registrazione scientifica di dati di realtà: il primo argomento di tipo quantitativo –il large amount – contiene un elemento di tipo qualitativo riportato all’ordine precedente: dopo dodici scatti è impossibile che i soggetti siano coscienti della camera. Affermazione genuina ma ambigua e apodittica; dipende dalle condizioni, dai presupposti, dalla fatica soggettiva, dalle pressioni oggettive o almeno producibili come tali: tempo, elementi di disaccordo, valutazioni di luce, altri elementi contingenti e di realtà. La seconda affermazione è il completamento della dichiarazione qualitativa, per così dire, ovvero che la natura ripetitiva e continuativa dell’agire fotografico nel villaggio, la sua durata nel tempo, produca essa stesso le condizioni di cessazione di un’attività fotografica cosciente, riportando questa a una sorta di attività motoria riflessa, a una positività meccanica di blicks di clicks. Se non si tratta qui, com’è storicamente evidente, di surrealismo etnografico, l’inconscio motorio sembra essere il fondamento dell’oggettività, una tonalità emotivo-scientifico-culturale tra Cambridge e la Columbia University. La terza considerazione, apparentemente più fondata, attiene alla natura degli oggetti fotografati, ovvero in prevalenza bambini, ritratti insieme ai genitori e agli adulti, nell’implicita osservazione che i bambini, in quanto tali, siano più spontanei, cosa socialmente evidente, ma essa stessa non oggettivabile se non come presupposto ambientale nell’ipotesi delle riprese fotografiche. La quarta considerazione riguarda l’uso di tecniche di ripresa angolare e concerne le fotografie della tavola 29, legate

alla nutrizione e ad altri gesti socialmente inibiti dalla cultura balinese. Le fotografie scattate sul campo sono ancora in corso di classificazione presso la Library of Congress di Washington, Fondo Mead-Bateson, così come le rushe dei materiali filmati. Delle foto scattate, milleduecento circa risultano pubblicate tra Balinese Character e Growth and Culture della Mead (1951), Trance and Dance in Bali (1960) e Traditional Balinese Culture (1970), entrambi di Jane Belo, anche lei presente sul campo di Bajong Gedé negli stessi anni. La modalità dell’approccio fotografico, dai materiali di campo della coppia di antropologi, appare subito votata alla definizione dell’ethos. La Mead osserva e rileva una carenza di affettività, diffusa nella popolazione balinese, e la porta a fondamento della natura pacifica di Bali; Bateson osserva la percezione temporale degli abitanti del villaggio, descrivendo una concezione dove il passato si manifesta come non significativo perché costruito come tempo ciclico. Ancora una volta, lo stato ciclico è assunto a fondamento del carattere: l’irrilevanza del passato consente di vivere il presente come stato stazionario, esclude l’ipotesi lineare o comunque cumulativa dell’esperienza. Mentre la prima assunzione presuppone la visibilità dell’affettività come espressione pubblica di un universale cinestetico, di una plasticità universale dell’affetto, o almeno di una possibile indagine dell’affettività a partire dalla fisicità di questa, tratteggiando le forme dell’aptico, la seconda impegna l’idea stessa di tempo nell’accezione occidentale cristiana di tempo lineare, producendo le condizioni dell’interpretazione stessa: sul campo l’allocronia è sempre evidente, ancor più quando le note di field riportano l’ora degli scatti, l’ora delle riprese. Il tempo di vita locale si confronta al tempo dei dati e degli strumenti. Bateson e Mead diventano i pace maker di se stessi ma anche del villaggio, in un certo senso. Ma i taccuini visivi, come nota Sullivan nel suo testo di ricostruzione storica del field balinese del 1999, si definiscono e mutano via via che il progetto si amplia, mentre il numero di scatti modifica la scala della rilevazione fotografica. La camera, infatti, si orienta alla ricostruzione del paesaggio gestuale e motorio, dirigendosi verso moti e movimenti corporei, le attitudes cerimoniali, e producendo uno spazio della rappresentazione etnografica assolutamente nuovo. La fotografia registra, quindi, il non codificabile verbalmente, e si produce a sostegno delle ipotesi osservate, muovendo dal rendering verbale dei taccuini della Mead. Questo circuito, però, è un circuito imperfetto: Bateson non ha sul campo gli strumenti per la stampa a contatto dei suoi negativi, a parte un certo numero di stampe prodotte subito all’inizio del lavoro da un fotografo professionista – Sagami – nella città più vicina, Den Pasar, una parte delle quali verranno utilizzate da questi per la stampa di cartoline di cui Bateson cercherà di far collezione (il ruolo di stampatore, peraltro, sollecita interessanti questioni sulla formazione locale del progetto e sulla sua messa a punto, probabilmente dopo la stampa e l’invio a New York di materiale fotografico ai finanziatori della ricerca).28 Nella fase di proposal il progetto non aveva, soprattutto da parte di Bateson, la struttura di un fotorilevamento, di una mappatura fotografica dei comportamenti balinesi, piuttosto immaginava di usare il film come strumento di elicitazione per proseguire lo studio del schismogenesi. Bateson contava di girare un film e di sottoporlo ai nativi balinesi come elemento sensibile di sollecitazione, come strumento di setting ai fini di orientare i comportamenti e provocarli: l’esperienza filmica come forma di esperienza clinicoculturale, in una antropologia visiva dell’elicitazione, performata da una narrazione per immagini. I test dei primi mesi di campo del 1936 modificarono gli orientamenti di entrambi, focalizzando il fotografico come forma dell’indagine di field, attraverso una serie di approssimazioni successive, nella misura inedita di una doppia registrazione di dati, le

running notes della Mead e la traccia fotografica di Bateson, due record peculiari. Le running notes erano taccuni a doppia colonna, una fitta di osservazioni focalizzate sull’oggetto di studio, l’altra come diario di eventi secondari e di commenti, registrazioni di date e occorrenze. Scenarios, forme di copioni scritti dal vero. Che orientavano la ricerca fotografica e filmica, la cui regia, in un certo senso, si formava attraverso la sceneggiatura dei materiali orali trascritti e interpretati da I Madé Karé, insieme con gli eventi del villaggio e di quelli vicini – feste, cerimonie, funerali. In una lettera della Mead a Boas, scritta nel corso della traversata di Torres Straits, luogo eminentemente simbolico (Naven è dedicato da Bateson a Haddon), datata 29 marzo del 1938, l’antropologa osserva come film e foto producano una diversa ricchezza di segni, di materiali originali di fatto incomparabili ad altri, provocando in lei una sorta di scoramento epistemologico e, insieme, un’eccitazione intellettuale.29 Il campo grazie al film è una augmented reality. Mead e Bateson avranno contezza del loro lavoro solamente nel 1939 a New York, non prima, tra l’altro, di reperire ulteriori fondi, vista l’ampiezza del materiale da processare, e giungendo al progetto di Balinese Character dopo avere immaginato una pubblicazione completamente diversa, una etnografia fotografica del villaggio, della sua storia, un’analisi sociologica, uno studio su due casi di corteggiamento, nel segno di un esito affatto diverso e molto più situato. Ma nel 1941 il progetto prende finalmente forma, inscrivendosi, emblematicamente, nella tradizione di una morfologia culturale, di una scienza umana delle forme, nella tradizione di Haddon e dell’ultimo Boas, maestro della Benedict e della Mead, e nel segno tecnico scientifico del record fotografico e filmico, pensato e prodotto come non era mai stato ancora fatto. Ecco allora il formarsi del testo fotografico, la strutturazione a partire dal materiale finalmente stampato, di un’ipotesi teorica rivelata da questo, la definizione delle categorie, la rilevazione empirica del materiale come momento e documento di campo, record appunto, e la sua completa riorganizzazione a dimostrazione dell’assunto teorico, della possibilità fotografica e visiva di disegnare per immagini l’ethos di un popolo. Ma, se il record fotografico è rilevazione di dati e la sua natura descrittiva ne esprime la veridicità, la sua natura stessa di dato (taccuino) ne consente la trattabilità. Si può stampare ritagliando l’inquadratura nel campo dell’immagine, si può lavorare il fotogramma, di fatto interpretare. Ecco allora formarsi dei nuovi allineamenti: allineamenti delle linee, la prospettiva che ne risulta, il posizionamento dei soggetti, secondo direttrici ortogonali o diagonali rispetto alla riquadratura. Una certa attenzione appare rivolta alla profondità di campo, a volte rilevabile con esiti compositivi. Tale forma espressiva appare, consapevolmente, messa in pratica con l’uso del teleobiettivo.30 La stampa stessa si produce a conferma dell’ipotesi di lavoro: visto, si stampi. Ma il visto, come sarà poi in Blow up di Antonioni, abita nello sviluppo. Come già nella sua prima esperienza tra gli Iatmul, è nel lavoro fotografico che Bateson rivede o vede sotto luce nuova, o semplicemente scopre il non visto ma fotografato. Nella distanza ristabilita, di tempo come di spazio, i segni sembrano disporsi nuovamente in un’ipotesi di ordine, le morfologie ritornano alla luce, i pattern sono immaginabili: le trame si connettono. La selezione del materiale avviene scientificamente, secondo Bateson: i criteri estetici sono soppressi – il picturesque non è qui richiesto. Balinese Character non è e non deve farsi spettacolo,

fotogiornalismo. Il montaggio del materiale avviene scientificamente: data la tesi da dimostrare si cercano i dati che la confermino; meglio: si organizzano i dati in quella finestra di opportunità e necessità. La cogenza e la coerenza si costruiscono ora sintagmaticamente ora nuclearmente: le didascalie, a firma di Bateson, sono da leggere in una corrispondenza biunivoca – testo/foto – e quindi come descrizione, in prima istanza. Quindi, se lette le une dopo le altre, col sistema dei rimandi e delle connessioni suggerite, esse costituiscono condizioni di senso generale. Dalle etichette agli indici, dagli insiemi alla rete. Processo straordinario, che vede stati discreti, le foto, prodotti in sequenze come catenarie di senso, dentro un sistema chiuso, in un oggetto olistico, dove il record è dato e metadato, dove Gödel è un osservatore lontano, dove la morfologia dei comportamenti, dei toni emotivi, sembra aver trovato il suo Tractatus, il suo viaggio ai limiti del linguaggio, nell’attesa del mondo frammentato e frantumato dalla storia. Oggetti melanconici e paradossalmente felici, le fotografie giungono fino a noi, isola di un territorio di cui forse non sono mappa, piuttosto la carta cognitiva di una diade di studiosi, o la proiezione cartografica di due mondi tra l’Atlantico, di due università alla ricerca degli universali, di una coppia alla ricerca della forma, in un teatro di ombre materiali balinesi: Non vediamo direttamente non tanto perché la fotografia non è la vita fotografata ma perché non vediamo quella vita direttamente con gli occhi e i cuori formati all’interno di abitudini appropriate alla vita balinese. Ciò che discerniamo sono ombre formate quando quella vita, avvolta nella luce solare dei tropici, si è impressionata sul film dentro la macchina fotografica o la cinepresa; vediamo ombre proiettate su carta quando il film in quella macchina fotografica, inspessito quando il rullino veniva sviluppato, è successivamente stato esposto alla luce dell’ingranditore. Eppure, proprio come l’idea – consueta in quella parte del mondo – che l’immagine del dio e il dio partecipano l’una nell’altro ha un senso ultimamente non corrente in Occidente, così l’idea che la fotografia e la vita fotografata partecipano l’una nell’altra può avere un senso altro da quello semplicemente di cogliere il comportamento nel suo insieme.31

4.2.2. Il movimento nelle immagini – still life non solo balinesi Dinanzi alle immagini dei filmati batesoniani commentati dalla Mead la questione che sorge immediata è una questione genealogica, di iscrizione dei film in un contesto e in una tradizione, di visione di questi come azione teorica piuttosto che come esito testuale. O altrimenti di indice di eventi e situazioni di terreno balinesi. Record di dati, invece che progetto di teoria, lama ben visibile nella carne stessa della metodologia delle scienze sociali: Quando si gira solo per produrre un film alla moda, non si hanno quelle lunghe sequenze da un punto di vista fisso che sole possono fornirci brani non montati di osservazione sui quali deve essere basato il lavoro scientifico. Tuttavia, anche se dobbiamo rallegrarci del fatto che la camera fornisca un mezzo di espressione a chi è incapace di esprimersi verbalmente e che possa drammatizzare una cultura

esotica sia per i suoi membri che per il mondo, come antropologi dobbiamo insistere su un modo di filmare e registrare prosaico, controllato e sistematico che ci fornisca materiale ripetutamente ri-analizzabile con strumenti più raffinati e con nuove teorie.32 Prima che le immagini in movimento assumano una forma, prima che il loro stato stazionario di taccuini trovi la differenza nel tempo, prima che questo accada, trascorrono oltre quindici anni. La coppia Mead-Bateson si separa, Bateson abbandona l’antropologia di campo in senso tradizionale, un massacro mondiale ha mutato lo stato di luoghi e stati nazionali. Le mappe disegnano e rappresentano altri territori. I sette film realizzati, dalla matrice del girato balinese degli anni trenta, hanno visto infatti la luce, come la fisica richiede, soltanto negli anni cinquanta: questo vale per i primi sei, mentre è della fine degli anni settanta l’ultimo realizzato. L’edizione definitiva dei film, curata da Margaret Mead, e montata da Josef Bohmer, non ha visto l’impegno di Gregory Bateson. Dal 1951 al 1953 è stata pubblicata la serie di sei film denominata Character Formation in Different Cultures. I primi quattro vedono la luce nel 1951: Bathing Babies in Three Cultures, Karba’s First Year, First Day in the Life of a New Guinea Baby, Trance and Dance in Bali. Del 1952 è A Balinese Family. Del 1953 Childhood Rivalry in New Guinea and Bali. Infine, il più recente, Learning to Dance in Bali è datato 1979. Tutti i film sono girati da Gregory Bateson, mentre la Mead vi compare come curatrice, autrice dei testi, voce narrante, meglio: voce didascalica. In Trance and Dance in Bali tra gli autori è presente anche Jane Belo, cui si devono alcune sequenze al ralenti della danza dei Kris, così come Colin McPhee, anche lui partecipe dell’esperienza balinese e marito della Belo, qui in qualità di curatore delle musiche. Margaret Mead non ha lasciato molti appunti riguardo al lavoro di postproduzione dei film. Ciò che appare evidente è l’intento scientifico del progetto, il pensiero di un cinema come modello di conoscenza del movimento, sulle tracce di Haddon, Boas e Régnault, la destinazione universitaria dei materiali definitivi, nella logica di una produzione e diffusione di materiali di una peculiare e unica etnografia visiva. Non vi sono poi elementi che rassegnino le ragioni di alcune scelte, l’uso nello stesso film di materiali provenienti da set diversi – come nel caso di Trance and Dance in Bali, esito di due set realizzati e filmati a distanza di oltre un anno: 16 dicembre 1937, 8 febbraio 1939. O dell’uso, nel film stesso, di sequenze al ralenti.33 Certo il progetto si articola nella volontà esplicita della Mead di presentare un’ipotesi di cinema volto a cogliere “un’interpretazione dei materiali nel quadro di un’ipotesi teorica ben definita, forse il primo film antropologico a fare questo”.34 Un cinema pensato in termini di scienza del movimento, ma anche, come vedremo, di esito di montaggio. Cifra della verità della rappresentazione è, infatti, il materiale, su cui il lavoro di interpretazione si esercita come analisi dei dati al fine di organizzare i film stessi come un’esposizione leggibile, una struttura che si mostri, almeno in teoria, come macchina in grado di leggere e restituire il field. Doppio vincolo di due movimenti e di due teorie dello sguardo, di una pratica come montaggio in diretta e selezione del materiale, scelta del punto di vista, la pratica di Bateson; e di una pratica della restituzione come teoria dell’interpretazione nel montaggio, la pratica della Mead. Doppio vincolo vertoviano: Bateson come cineocchio, nel suo agire di set e field, Bateson come kinoki, dal punto di vista della Mead, portata a credere alla verità del materiale come dato: kinoglaz.

Bathing Babies in Three Cultures prende in esame la pratica del bagno dei bambini nella cultura balinese, in quella iatmul, e infine nella cultura americana urbana, tra gli anni trenta e quaranta. Karba’s First Year, è il risultato del montaggio in sequenza temporale della vita di un bambino balinese dall’età di sette mesi all’età di trentaquattro mesi. First Day in the Life of a New Guinea Baby mostra i primi giorni di vita di un bambino iatmul dal momento del parto, la vita della madre in quei giorni e la relazione madre/figlio dalle prime ore dopo la nascita. Trance and Dance in Bali riprende e mostra la rappresentazione rituale di un combattimento tra due entità soprannaturali centrali della cultura balinese: la strega Randa e il drago Barong, combattimento durante il quale si manifestano numerosi casi di trance collettiva. A Balinese Family e Childhood Rivalry in New Guinea and Bali tracciano ancora elementi della cultura quotidiana, della everyday life, disegnando il primo una sorta di ritratto, una protostoria di vita, nel segno monologico e morfologico della Mead, il secondo la struttura del comportamento competitivo a Bali come prodotto dell’azione materna, nella prospettiva ancora una volta comparativa, riferita sempre alla cultura delle popolazioni iatmul. Infine, il più recente, Learning to Dance in Bali, è un ritratto di Mario, uno dei più famosi ballerini balinesi negli anni del field. Com’è evidente da questa breve descrizione, il campo di intervento e rilevamento è lo spazio visivo, semantico, di ricerca di Balinese Character. L’evidenza di questo field, sia in senso proprio che in senso più ampio, riporta alla nota di Bateson, sulla relazione tra fotografia e cinepresa, e alla nota della Mead, sulla necessità, avvertita in fase di campo, di modificare la scala del rilevamento. Il progetto balinese nasce nella forma di un’intuizione ipertestuale: l’uso simultaneo di tecniche di rilevamento diverse – i taccuini, la fotografia, la ripresa cinematografica, il sistema delle note di campo costruito su di un sistema di rimandi ai relativi e diversi supporti, la struttura stessa di Balinese Character, la forma strategica del montaggio e del sistema di didascalie, la restituzione ex-post, durata di fatto quarant’anni, degli stessi materiali in forma cartacea come filmica, o verbale – conferenze, interventi, interviste – disegna una costellazione testuale e di progetto straordinariamente moderna: la formazione di un dispositivo, l’ipotesi di una matrice. L’ipertesto. Ma, al di là del progetto, i testi prodotti si presentano non privi di paradossi e aporie, emergenza di intuizioni e deriva di queste, processo di approssimazioni e, di fatto, prodotto di presupposizioni. E, ancora, appare evidente, anche al di là delle biografie e delle vicende della coppia Bateson-Mead, una diversità di approccio che, soprattutto sull’uso dei materiali, appare sempre più chiara, come vedremo da una conversazione tra Mead e Bateson datata anni settanta, nella sezione del dialogo che ritorna sul senso e la pratica di field a Bali. Bateson, infatti, assume il film letteralmente come bio-grafia: la scelta di un punto di vista, il rifiuto del piano sequenza, la percezione estetica della scelta di questo, dove estetica è inteso in senso percettivo e fisico, l’approssimazione come pratica sperimentale, l’intuizione visiva come elemento di contingenza e necessità del filmare. Infine l’ipotesi, non chiarita dalle note di campo, di quanto gli scenarios, le running notes, abbiano poi influito sulla reinvenzione locale di forme e modi di vita in ragione della scelta filmica, destinata a eventi particolarmente significativi e in qualche modo spettacolari. Tutto ciò riposiziona il senso e la logica del suo lavoro e produce una distanza teorica dagli intenti e scopi della Mead. Se infatti la ratio del lavoro di interpretazione è il reperimento di una morfologia delle forme culturali, la rappresentazione di questa differisce sostanzialmente, e il metodo stesso di reperimento e costruzione dell’oggetto si produce diversamente. Bateson cerca di pensare per immagini. Nel frame

disegna una nuova cornice, dentro il rettangolo del mirino, nella ciclopia tecnica del mezzo si costituisce un orizzonte di dati di realtà come progetto e prodotto, reperimento e selezione. Sembra, soprattutto, definirsi una differenza di costruzione del punto di vista all’interno delle due pratiche, nella natura tecnica di entrambe: la cinepresa opera nel campo di una semantica dei movimenti, mentre la fotografia sembra muoversi nel campo della sintassi. La fotografia comunque si produce come sequenza di scatti, da cui l’uso del wind, nella definizione del movimento: cronofotografia, produzione di stati discreti. Il cinema sembra invece consentire un progetto semantico diverso e più complesso, sia nella possibilità del montaggio del movimento e del pensiero di una continuità, sia attraverso una riflessione sulla forma della restituzione, l’ipotesi della narrazione, il quasi progetto di etnofiction balinese, la produzione di trame in grado di connettere, definizione con cui Bateson definiva i miti. La Mead, invece, pensa le immagini come dati da interpretare, tracce di memoria, reperti dell’attività filmica e fotografica, quindi oggettivi: archivio e testo, field e distanza dal field, indici di verità e produzione testuale. Il montaggio è il film, atto di intelligenza del materiale. I segni sono un percorso, ma, al tempo stesso, sono semplicemente lì per essere colti e interpretati. Il record, come la lettera rubata di Allan Poe, è dinanzi ai nostri occhi. C’è una volontà etica di verità come scienza in questo approccio, c’è la frizione di questa volontà nell’atto di farsi intelligenza della realtà, ci sono i paradossi delle convenzioni e delle rappresentazioni. C’è, infine, il presupposto, insieme ingenuo ma storicamente fondato, di una morfologia delle immagini e per immagini come morfologia dell’ethos, dove il record fotografico e filmico divengano il filo di Arianna, l’algoritmo potente perché proprio dell’analogon cinematografico, allo scopo di indagare e ritrovare la realtà nella potenza espressiva della sua superficie. Tra Bateson e Mead la scena dell’intelligenza produce, attraverso i film e l’atlante fotografico di Balinese Character, una biforcazione epistemica, uno stato di non equilibrio tra due modelli di rappresentazione del mondo, di costruzione e restituzione di esso nelle forme dei linguaggi e nella trasmissione pubblica di questi. I film sono la faglia di questa scena, l’emergenza locale di questa divergenza, quasi una serie di successioni divergenti, in senso di Bateson, e quindi, pur nell’immenso e lunghissimo lavoro di montaggio, l’esito di un’imprevedibilità. Intanto, pur filmati da entrambi, tecnicamente sono l’esito di un montaggio esclusivo della Mead, il cui testo, e la cui presenza, come voce narrante, impone una volta ancora una dimensione monologica alla restituzione, costituendosi volontariamente come autorità etnografica in senso tradizionale – o come paradossale allegoria di questa, atto della presenza, phoné come verità ulteriore: ero lì sono qui, voce e testo. I film poi risultano e si presentano come un lavoro scientifico ma, inevitabilmente si affidano, nel montaggio, alla costruzione di una grammatica della verità il cui insieme di regole non si mostra: dato il presupposto, le immagini sono il circuito logico della conferma. Il testo di commento, apparentemente soltanto descrittivo, si pone esso stesso nel segno della validazione, riaffermando il tratto classico dell’equazione vedere sapere nell’uso del lessico, nella pronominazione, nei processi di interpellazione dello spettatore, spettatore evidentemente inteso come studioso, allievo, scholar. Le fonti, in Trance and Dance in Bali, soprattutto, non sono citate. La continuità narrativa, che il montaggio restituisce in forma peculiare, è realizzata da materiali diversi, due set cerimoniali; ma la narrazione, di fatto praticata, è volutamente messa in secondo piano: la descrizione piana è il primo e più potente camouflage narrativo, come l’incipit di Argonauti del Pacifico dimostra ancora assai

bene. Trance and Dance in Bali si presta a numerose riflessioni di metodo e di merito. Esito di due set, a distanza di oltre un anno, il film presenta, com’è noto, la messa in scena del combattimento di due entità soprannaturali, la strega Randa e il drago Barong, una cerimonia recente della cultura balinese a forte connotazione di spettacolo turistico. Il filmato è il risultato di due performance prodotte esplicitamente per la produzione, due set espliciti piuttosto che due field. Le condizioni di produzione dei due eventi assumono, in virtù di questo, una forma paradossale: Uno dei nostri film più riusciti fu fatto quando chiedemmo a un gruppo di esibirsi alla luce del sole in una rappresentazione che di solito veniva eseguita a notte inoltrata. Non disponevamo di riflettori e volevamo filmare modi diversi in cui uomini e donne maneggiavano i loro kriss, affilati come rasoi, nelle danze in trance, quando rivolgevano il pugnale contro la loro persona in un’imitazione scherzosa del suicidio. L’uomo che aveva combinato la cosa decise di sostituire donne giovani e belle alle vecchie rugose che si esibivano la notte, e così potemmo registrare come donne, che prima di allora non erano mai cadute in trance, ripetessero, senza un solo errore, il comportamento tradizionale al quale avevano assistito tutta la loro vita.35 La Mead affida all’autobiografia queste indicazioni di merito e di metodo, non le esplicita nel testo del film, offrendo il testo come dato trattato allo spettatore. La natura della scena, la sua verità, si danno nella forma dello spettacolo, nella forma della performance spettacolare. Con un geniale rovesciamento metodologico, la Mead afferma che la natura occasionale dell’evento – la natura occasionata di una prestazione a pagamento – ha reso l’evento stesso fattore più esplicito di verità: le trance delle danzatrici occasionali (ma quanto occasionali è difficile da valutare) dimostrano ulteriormente la natura peculiare di queste pratiche nello steady state balinese. La ripetizione performativa della trance viene così ricodificata come stato di natura della cultura balinese, proprietà del carattere. In Balinese Character troviamo ulteriormente ma diversamente specificato il senso e il presupposto dello stesso set: Avevamo visto donne danzare con i kriss durante le feste notturne al tempio e osservato che le danze, pur essendo nominalmente uguali a quelle degli uomini, erano fondamentalmente diverse. Volevamo filmare le donne che ballavano e quindi abbiamo suggerito al club di danza di Pageoetan, nel 1937, che includessero nella loro performance delle donne con i kriss. Lo hanno fatto senza esitazione, e già nel 1939 le donne erano parte integrante della performance.36 Siamo qui sulla scena di una contaminazione spettacolare, prodotto di una negoziazione tra antropologi e impresari di danza, una scena di contatto, che, come un repertorio o un catalogo, mette in scena se stessa come prodotto e progetto di salvage, appeasement, misunderstanding, psicologia del comportamento di massa, evidenza del set, estetica del diverso, memoria del picturesque boasiano, nell’inserimento della scena dei coltelli come

ulteriore spettacolarizzazione dell’evento. Il film costituisce così le condizioni esplicite del set, la performance diurna, la contaminazione di materiali provenienti da due diverse esibizioni, l’assenza di spettatori: teatralizza l’evento, lo riproduce, boasianamente, come oggetto di studio. Tuttavia, tra materiale e commento, la visione produce frizione. Il testo della Mead è ridondante, lavora nell’ordine di verità dell’equazione sapere-vedere, descrive ciò che si vede, ogni gesto, costume, espressione, mette in scena verbalmente, attraverso la descrizione, il carattere, ciò che dovrebbe darsi come visibilità, evidence del record. In questo senso la Mead disvela e denuncia l’aporia del progetto: è lo sguardo a produrre l’oggetto, è lo sguardo e non l’occhio a doverlo restituire. Il film ha una struttura classicamente narrativa: un incipit, un centro dello sviluppo dell’azione; un climax visivo nelle scene al ralenti, elemento di rafforzamento diegetico esplicito nella visualizzazione ma anche elemento mimetico della trance e della sua visibilità; uno svolgimento della trama del combattimento; un finale tensivo con la mimetica di un suicidio rituale con gli elementi spuri, i coltelli, cui accenna la nota di Balinese Character. La performance ci mostra, nel suo inizio, la presenza dei musicisti, quindi occultata per tutta la durata della stessa. Il film è girato senza sonoro e il sonoro è accluso in sede di montaggio, a cura di Colin McPhee, il musicologo marito della Belo – cui si devono le scene al ralenti – studioso della musica balinese e presente a Bali in quegli anni. Il girato di Bateson è iperframmentato: shot brevissimi, prodotti grazie alla portatilità della piccola cinepresa, frammenti di focus sui corpi, focus sul centro della scena, in una pratica di ripresa ravvicinata, qui molto diversa dagli altri film. La natura occasionale prestabilita della performance consente, a Bateson, di oltrepassare qualunque liminalità nel senso turneriano: Bateson partecipa la scena con una presenza che anticipa la camera di Rouch, produce un’istanza di filming di segno vertoviano, si fa semplicemente cineocchio. La statura fisica gli consente, pur nel restringimento di campo, un curioso effetto quasi à plonger dell’obiettivo. La ricerca di una densità al centro dell’inquadratura produce nel filming e poi nel film, quanto lo sviluppo fotografico produrrà nel lavoro preparatorio per Balinese Character: un lavoro di riquadratura del frame nell’atto di girare. La durata degli shot fa sì che le immagini si presentino come set fotografici, anche se questo effetto è un prodotto ulteriore del montaggio della Mead. La somiglianza delle immagini di Balinese Character e delle immagini di Trance and Dance in Bali, risalta nitidamente: stessi angoli di inquadratura producono evidentemente l’impressione di un metodo. Bateson impugnava spesso la Leica con una mano e sulla spalla destra portava la piccola Movikon Zeiss 16mm, da cui il medesimo angolo di visuale tra foto e riprese, dove le prime non sono certo le foto di scena del film, ma un processo di relazione differente, di mezzo e approccio, con l’oggetto. Ancora: pur in questa differenza esplicita tra fotografia e cinema, Bateson non ama comunque il piano sequenza, la panoramica; ai long shot preferisce inquadrature brevi, non superiori ai venti secondi, anche se, probabilmente su richiesta della Mead, nel caso di Trance and Dance in Bali, girò delle sequenze più lunghe. Questa scelta linguistica riporta il cinema di Bateson, la sua pratica filmica, alla fotografia per un verso, e d’altra parte, mentre esalta la nuclearizzazione del report visivo, il suo filmare si produce davvero come memoria o istanza del cineocchio vertoviano: lo stato discreto della visione è nella pratica visiva, nell’occhio, nella sua protesi, nello sguardo che esercita sorveglianza su occhio e obiettivo, disposto a farsi distrarre da essi, e da entrambi, divenuti fatalmente un dispositivo, una diade originale, pur nell’obbligo di rammentare le possibilità di ripresa della camera, la durata dei caricatori. Trance and Dance in Bali nella sua versione finita è, comunque, un oggetto paradossale:

documentario narrativo, esercizio di analisi, restituzione formalizzata di una messa in scena paradossalmente etnografica, memoria flagrante di un allocronia nel senso di Fabian, performing ethnography nel senso di Turner.37 Nello stesso tempo il film è erede del tentativo di analisi prodotto e inesitato da Boas nel girato di Baffin del 1931, nel tentativo di formalizzare lo studio delle danze Kwakiutl, alla ricerca di una resa filmica come notazione del movimento, come teoria, letteralmente.38 Nel cuore del gesto, come diversamente osservava nella sua analisi estetica del cinema di finzione Balázs nel 1924 nella cornice del espressionismo coevo.39 Il montaggio della Mead produce poi un effetto Rouch probabilmente involontario: la camera di Bateson, prossima e contigua alla scena della danza, risulta ancora più sperimentale, sollecitata e prodotta come tale dal montaggio iperframmentato, tardo esito vertoviano, anch’esso paradossale. E, infine, il segno della trance manifesta la sua irresolubile trasparenza ottica, la sua irriducibilità cognitiva, la sua possibile negazione nello sguardo di chi assiste o vede a distanza: lo sguardo, dinanzi alla flagranza evidente di un comportamento altro, può rinnegare persino l’occhio. Ecco allora la tecnica: ecco allora la scelta di un effetto di verità prodotto visibilmente come trucco della visione, elicitazione e sollecitazione di un diverso regime di credenza da rendere addirittura necessario con il ralenti, nel tentativo di sottolineare il feeling di un otherwolrdliness dello spettacolo.40 Se il ralenti è in sé uno strumento di analisi potenziale, il suo uso nelle scene di possessione lo rende un elemento di spettacolarizzazione intensiva. Esso, infatti, stilizza ed estetizza l’evento, sottolineandone la straordinarietà e risolvendola sul piano percettivo prima che interrogativo: l’ecstatic sospende la domanda, ci disloca sul piano del piacere o dell’orrore. La produzione del set balinese sembra l’eco, involontaria, di Fotogenia dell’imponderabile, di Jean Epstein, del 1935, la forma visibile delle considerazioni sul ralenti del regista francese, ancor di più la forma teorica dell’analisi psicologica e culturale intravista e ipotizzata in quelle pagine. La stessa dimensione fotogenica del set balinese non può essere elusa: al di là della reinvenzione del set, della scelta delle giovani ballerine dai corpi eleganti e giovani, la tensione formale degli shot tradisce e restituisce il senso dell’evento tra ecstatic e aesthetic.41 Il fotogenico si fa chiave di alcune inquadrature, come attrattore nello spazio della danza: le figure addensano topologicamente lo spazio performativo, e la camera ne segnala la geometria dei gesti e la struttura del ritmo, come mediazione verso la cultura del rito, risoluzione di questo nel codice dell’espressione corporea.42 Nella durata di ventidue minuti si condensa così l’esperienza di un rituale di alcune ore: in questa prima asincronia, risolta dall’idea dell’analisi, dall’idea quindi di sintesi come processo proprio della scienza, si celebra ovviamente il paradosso necessario della registrazione, il paradosso dell’esperienza ridotta a taccuino; il paradosso dell’esperienza sensoriale risolto e messo in sicurezza dalla distanza, dal testo, dalla musica ridotta a sottofondo. Liminali senza limen, gli sguardi non possono che, nel film di Bateson e Mead, proporsi come il risultato di un esperimento di cinéma verité in parte inconsapevole, in parte probabile, almeno nel punto di vista dell’antropologo inglese. Punto di vista inteso letteralmente, lì in quel set, come posizione di soglia, che la camera e il profilmico trasformano in presenza.43 Il film era uno stato nuovo diversamente autentico, prima che falso, del combattimento rituale. Un’etnografia performativa, nel segno delle tecniche e delle ideologie aveva il suo teatro a Bajong Gedé e dintorni, nella seconda metà degli anni trenta. Il trance club di Pagutan era una scuola eccellente dove le tecniche della trance si trasmettevano in modo efficiente.44 La visibilità, infatti, include anche le strategie

dei soggetti che si lasciano osservare.45 La superficie, oltre che luogo dell’autentico, è il prodotto del mimetismo consapevole. Il bagnetto del bambino americano di Bathing Babies in Three Cultures, offre un consapevole e bambinesco sguardo in macchina, uno stato di esibizione spettacolare, nel comfort modernista di una casa agiata degli anni trenta. Anche la superficie è un fenomeno storico, nelle società evolute come nelle semplici. Come lo steady state era la traduzione paradossale dello slogan coloniale olandese calma e ordine, o meglio la strategia mimetica di una popolazione all’interno della politica di balinizzazione dell’amministrazione olandese, il cui progetto coloniale e politico di salvage pensava l’intera Bali come un museo a cielo aperto per ricchi esoti di successo.46 Museo dello steady state, della ragione coloniale, allocronia politica la cui mappa disegnava di riti e divinità di un territorio dell’immaginario: Torniamo alla mappa e al territorio e chiediamoci: “Quali sono le parti del territorio che sono riportate sulla mappa?” Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui qui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza: si tratti di una differenza di quota, o di vegetazione, o di una struttura demografica, o di superficie, o insomma di qualunque tipo. Le differenze sono le cose che vengono riportate sulla mappa. Ma che cosa è una differenza? Una differenza è un concetto molto peculiare e oscuro. Non è certo né una cosa né un evento. Questo pezzo di carta differisce dal legno di questo leggio; vi sono tra essi molte differenze, cominciano le difficoltà. Ovviamente la differenza tra la carta e il legno non è nella carta; ovviamente non è neppure nel legno; ovviamente non è nello spazio che li separa. (Una differenza che si produce nel corso del tempo è ciò che chiamiamo ‘cambiamento’). Dunque una differenza è un’entità astratta.47 La differenza, come testimoniava I Male Kader, il segretario balinese della missione MeadBateson, era appunto astratta: alla ricerca di universali del comportamento, nel segno di categorie come la awayness, la storia si allontanava: l’esperienza del primitivo come steady state48 consentiva alla scienza di scivolare oltre l’esotico, vivendolo come storia della modernità, e di scivolare oltre la storia, in nome della natura umana, nella tranquillità morfologica delle immagini dei dati, dove occultare e incrociare archetipi junghiani e tipi russelliani. Una società stazionaria era la società giusta da inventare tra due guerre. La vita quotidiana dei Balinesi come prodotto di storia non era oggetto di morfologia, non era oggetto dell’esperimento. Nelle lettere dal campo di Margaret Mead, veri e propri bollettini di lavoro e cronache di field, il mondo coloniale si manifesta soltanto in un testo datato 21 giugno 1936,49 nella dolorosa e sincera osservazione del malgoverno olandese. Lo spazio della politica è lontano dalle forme di questo lavoro antropologico, la sua rimozione utile al progetto di indagine.

4.3. Talking heads

For God’s Sake Margaret è il testo di una conversazione tra Margaret Mead e Gregory Bateson pubblicata nel 1976 su Co-Evolutionary Quarterly e animata da Stewart Brand, alla cui cura si deve la forma attuale del testo. Ripubblicato parzialmente in Studies in the Anthropology of Visual Communication, col titolo Margaret Mead and Gregory Bateson: the Use of the Camera in Anthropology, il testo è adesso disponibile nella sua forma originaria nel sito www.oikos.org, e, sempre in versione inglese, in un’antologia di testi, Bateson, Mead e la fotografia, curata da Antonello Ricci nel 2006.50 La struttura e la natura della discussione tra due protagonisti della storia dell’antropologia e dell’epistemologia del Novecento ha caratteristiche assolutamente seminali, un andamento assolutamente peculiare, tra elementi di autobiografia intellettuale, strategie retoriche ed epistemiche di posizionamento, interruzioni, puntualizzazioni, forme regolate ma sincere di conflitto, atti di diversione intelligente e sovversiva, soprattutto da parte di Bateson. Le osservazioni qui riprodotte sono parte di una riflessione più ampia sulla storia dei reciproci interessi, sulla ricerca tra cibernetica e psichiatria di Bateson, sull’impresa scientifica dagli anni cinquanta ai settanta, sull’antropologia nel campo delle scienze umane, e nella sua relazione con le scienze esatte. La sezione qui riproposta occupa, più o meno, il centro della conversazione, ma non per questo ne è il centro. Una parte di questa intervista è pubblicata e commentata nel volume di Fadwa El Guindi, Visual Anthropology, pubblicato nel 2004,51 all’interno di un capitolo sulla storia e sul metodo della ricerca visiva in antropologia. Il testo commentato è, in questo caso, una sorta di griglia o di tool attraverso il quale viene a prendere forma un punto di vista sull’attualità della ricerca. L’uso di questo testo, in quest’occasione, ha invece come oggetto la possibilità, attraverso i frammenti di una conversazione tra i due protagonisti, di una discussione dei materiali prodotti da entrambi nel soggiorno balinese, sull’esito degli stessi, e sulla natura dell’approccio alla ricerca visiva, all’antropologia come pratica di ricerca visiva. Se la domanda generata da Balinese Character, come dai film, è una domanda sul metodo e sul risultato di un progetto così fortemente embedded alla sua metodologia, questa domanda può essere inscritta in una riflessione storica, certamente, ma soprattutto teorica. Ma se la domanda più cogente è una domanda sull’implicita trasformazione tecnologica della ricerca di field e in generale della ricerca scientifica, sulla trasformazione del concetto di prova come della nozione di evento, in quanto orizzonte di una visibilità come producibilità, la questione evidentemente attiene a un ordine diverso di complessità. Se poi la pratica visiva dei segni che genericamente, ma storicamente chiamiamo cinema (definendo con questo il contesto in cui gli oggetti discreti singolari, i film, si producono come tali) si offre come una pratica scientifica, ottica, sociale talmente e diversamente pervasiva e originale, da aver prodotto un orizzonte di partecipazione visiva alla riproduzione stessa del mondo che viviamo in immagine, la discussione della Mead e di Bateson diventa essa stessa, nella sua storicità, la manifestazione di questa ultima affermazione; il campo di forze in cui le parole e le cose accadono e si confrontano, assumono lo statuto di immagini, per essere, di volta in volta, una successione divergente o congruente di eventi, tra spettacolo e conoscenza: in between e betwixt. Be-twisted, to be twisted. In questo senso la conversazione tra Bateson e Mead va subito, per così dire, rititolata, ripensata già dal suo titolo, così semplicemente descrittivo: Sull’uso della cinepresa nell’antropologia. La conversazione, infatti, muove piuttosto dall’uso delle immagini e si confronta quindi sullo statuto di queste. L’implicito tecnico produce una dialettica tra tecnica stessa e ideologia, usando questo termine in senso di visione del mondo, tra lavoro sul senso e lavoro di

costruzione del senso attraverso le immagini: ciò di cui si parla è l’oggetto della rappresentazione, e le forme di questa rispetto all’oggetto. La cosa rappresentata nel suo regime di rappresentazione in quanto rappresentante:52 BATESON› Mi chiedevo del guardare, per esempio, attraverso una cinepresa o una macchina fotografica. MEAD › Ti ricordi di Clara Lambert e di quando cercavi di insegnarle? Quella donna che stava facendo degli studi fotografici delle scuole di teatro ma che usava la macchina fotografica come un telescopio. Tu hai detto: “Non sarà mai una fotografa. Continua a usare la macchina per guardare le cose”. Tu non lo facevi. Usavi sempre la macchina fotografica per scattare foto, che è un’attività diversa. L’incipit della sezione che concerne direttamente il visual e le tecniche visuali non poteva presentarsi in modo più netto: usare una camera come telescope, dice la Mead a proposito di un’allieva, ma, prosegue, al fine di guardare alle cose – things. Di converso, ecco l’attacco a Bateson, all’idea di usare la camera per ottenere delle fotografie: è in gioco un’idea di realtà, un’idea di soggetto, ancora intrinsecamente cartesiano per la Mead. Si dà la possibilità di guardare alle cose: look at things. B › Sì. Non mi piacciono comunque le cineprese sul treppiede, che stanno lì a girare. Nell’ultima parte del progetto sulla schizofrenia avevamo le cineprese sui treppiedi, che giravano e giravano. M › E non ti piace? B › Disastroso. M › Perché? B › Perché penso che la documentazione fotografica dovrebbe essere una forma d’arte. M › E perché? Perché non dovresti avere alcune documentazioni che non sono forme d’arte? Se è una forma d’arte allora è stata alterata. B › È certamente stata alterata. Non penso possa esistere non alterata. Bateson scarta, si appiglia retoricamente a una figura della diversione, parla d’altro, della sua insofferenza nell’uso del cavalletto. Innesta un punto di vista quasi psicologico, nel lessico, o estetico, allude a un passato di riprese di materiali con malati schizofrenici, il lavoro di Palo Alto, a un uso di campo della pratica, ne nega la validità. Alla domanda diretta della Mead sulle ragioni di questa idiosincrasia, Bateson indica la necessità di una riflessione estetica, di una scelta estetica: la fotografia si configura, addirittura deve essere una forma artistica. All’obiezione della Mead sulla natura alterata di questa registrazione, di questa azione se inscritta in una pratica artistica, più esattamente in un forma artistica, Bateson lapidario risponde che non esiste una fotografia che non sia alterata, che non alteri l’oggetto stesso. Cuore e fuoco, letteralmente, del problema. È in gioco la natura dell’oggetto, lo scacco di questo dinanzi al soggetto; ma anche e sopratutto lo scacco del soggetto: viene a mancare la datità del mondo, il suo essere riprodotto come dato, la

filmicità come stato possibile di un evento nel campo delle scienze umane, il paradigma stesso dell’antropologia classica. E ancora, ma non esplicitata, la natura stessa del processo tecnologico, la delega umana alla tecnica, in quanto strumento di produzione e indagine della realtà e della sua restituzione. La scienza come polizza assicurativa del mondo e sul mondo, a partire dai soggetti che lo abitano. Scienza che si caratterizza per la certezza dei dati e la riproducibilità di questi, come dice la Mead appena dopo: M › Credo sia molto importante, se vuoi seguire un comportamento scientifico, dare accesso al materiale ad altre persone, un accesso il più possibile comparabile a quello che hai avuto tu. In quel modo non alteri il materiale. Ci sono dei registi oggi che dicono: “Dovrebbe essere arte” e stanno sfasciando tutto quello che cerchiamo di fare noi. Perché cavolo dovrebbe essere arte? Idea di scienza come sistema di dati: non c’è il dubbio che la natura stessa della registrazione e della produzione tecnica di immagini sia leggibile in un contesto dove metadata diversi organizzano il discorso stesso, sia della visione, che della pratica di restituzione visiva della realtà; idea semplice e centrale della finestra, del mondo reso visibile dalla scrittura come dal film o dalla fotografia, come idea sullo sfondo, idea neoclassica del mondo e del field, su cui l’analisi visiva impalca una visione più esaustiva, telescopica della realtà. Quindi la discussione ritorna su dettaglio del cavalletto, almeno in apparenza: B › Beh, non dovrebbe essere sul treppiede. M › E quindi corri in giro. B › Sì. M › E quindi ci introduci una variazione inutile. B › Quindi traggo le informazioni che penso siano rilevanti al momento. M › Esatto. E quindi cosa vedi dopo? B › Se metti quel benedetto affare sul treppiede, non ottieni alcuna rilevanza. M › No, ottieni quello che è successo. B › Non è quello che è successo. M › Non voglio che la gente corra in giro e magari pensi che un profilo in quel momento sarebbe bello. B › Non lo vorrei bello. M › Va bene, ma perché tutto quel correre in giro? B › Per cogliere quello che sta succedendo. M › Quello che pensi stia succedendo. B › Se Stewart si allungasse la mano dietro la schiena per grattarsi vorrei essere lì in quel momento. M › Se fossi lì in quel momento non lo vedresti dare un calcio al gatto sotto il tavolo. Come discorso semplicemente non tiene. La questione del cavalletto diventa così una discussione sulla natura dell’osservazione, sulla posizione dell’osservatore, sulla possibilità di promuovere una definizione della posizione che si determini come presenza, coscienza peculiare di uno stato di presenza, una sorta di liminalità congiuntiva nel linguaggio di Turner. Il movimento dell’osservatore partecipante, la

camera partecipata, perseguono la produzione di una relevance. L’obiezione della Mead muove dall’idea semplicistica di una posizione assoluta, di una predefinizione della posizione, tale da poter registrare ciò che comunque accade dinanzi all’obiettivo. Per difendere questa posizione, debole sul piano teorico, la Mead muove l’attacco a Bateson introducendo la questione del bello, la questione estetica come scelta di grammatiche e pratiche non scientifiche. Il punto di vista assoluto, e il mondo come datità dinanzi alla macchina da presa vs la camera in movimento come prassi estetizzante; la registrazione del movimento come memoria materiale dell’evento in mutamento, e il registratore corpo umano macchina come macchina statica di ripresa del dinamico, del tempo che accade. E, infine, argomento apparentemente chiave, esito del percorso, l’impossibilità di essere in due posizioni diverse da parte di chi osserva, filma, fotografa: il principio di posizione. Obiezione e argomento cui Bateson ancora una volta risponde in forma lapidaria e conclusiva, epigrammatica: B › Una delle cose certe è che la camera, comunque, riesce a documentare l’un per cento di quello che succede. M › Giusto. B › E io voglio che quell’un per cento racconti. M › Guarda, ho lavorato con queste cose fatte da registi “artistici” e il risultato è che non ci riesci a fare nulla. B › Allora sono dei cattivi artisti. M › No, non lo sono. Voglio dire, un regista “artista” può arrivare a una nozione bellissima di ciò che egli pensa sia lì, ma poi con quel materiale non puoi fare alcun tipo di analisi. È stato un po’ questo il problema con l’antropologia, il fatto che dovevano fidarsi di noi. Se eravamo strumenti abbastanza affidabili, e dicevamo che le persone in questa cultura fanno qualcosa in più delle persone in quell’altra, se si fidavano, lo usavano. Ma non c’era modo di approfondire il materiale. Allora abbiamo sviluppato gradualmente l’idea dei filmati e delle registrazioni. B › Non ci sarà mai un modo di approfondire il materiale. M › Ma che cosa stai dicendo, Gregory? Non hai idea di quello che dici. Certamente quando abbiamo mostrato quella roba balinese quella prima estate sono state identificate diverse cose – per esempio la floscezza identificata da Marion Stranahan, o il punto sul petto e il suo ruolo nello sviluppo infantile identificato da Erik Erikson. Posso riprendere quel materiale e mostrarti cosa hanno tratto da quei filmati. Non l’hanno tratto dalla tua testa, né dal modo in cui miravi la cinepresa. L’hanno potuto identificare perché il filmato era lungo abbastanza e hanno potuto vedere cosa succedeva. La discussione entra nel vivo, nella materia comune di un lavoro comune, il set Balinese, non prima che la Mead riproponga il tema del salvage boasiano che dà luogo a un geniale e puntuale esempio di coevalness involontaria di due mondi del senso. L’affermazione della Mead: “But there was no way of probing further material. So we gradually developed the idea of film and tapes”, cui si contrappone, risposta musicale in senso stretto, Bateson con la sua affermazione: “There’s never going to be any way of probing further into the material…”,

scena vera di una ulteriore allocronia rispetto all’idea di campo e di costruzione dell’oggetto, di diffidenza di Bateson rispetto alla possible risoluzione dell’oggetto nel visto, dell’oggetto tout court. Tuttavia la Mead, nel commentare e ricordare le visioni di studio dei materiali balinesi, guadagna dei punti a suo favore. Nelle immagini definite e risolte, chiare ed evidentemente oggettive, nei limiti del mezzo e della pratica, altri sono stati in grado di riconoscere degli eventi: i film si sono comportati come dati, dati interpretabili scientificamente, fonte di interpretazione. Elemento essenziale, a questo fine, la durata delle singole riprese, delle inquadrature, tempo e durata sufficienti e utili all’interpretazione. A questo punto Stewart Brand introduce un elemento di discussione, un film Navajo di produzione nativa. Il film viene letto dalla Mead a partire dai movimenti, dal movimento riprodotto, nella relazione tra corpo del filmmaker e immagine esitata. Quindi la Mead ritorna al cuore dell’argomento appena esposto, invitando Bateson a definire l’uso stesso della parola artistic a proposito dei film: STEWART BRAND › Cosa dite invece di qualcosa come il film navajo, Intrepid Shadows? M › Quella è una produzione bella e artistica che ti dice delle cose di un artista navajo. B › È diverso, è un’opera d’arte di un indigeno. M › Sì, e bellissima. Ma l’unica cosa che si può fare con quel film è analizzare il regista, cosa che ho fatto. Sono riuscita a capire come ha ottenuto quell’animazione negli alberi. B › Ah sì? E cos’hai tratto da quel film? M › Sceglieva dei giorni quando c’era il vento e mentre filmava muoveva la cinepresa indipendentemente dal movimento del suo corpo. L’effetto era ottenuto così. Allora, considerando quanto altri sono riusciti a trarre dai tuoi filmati, il tuo lavoro per certi versi potrebbe essere considerato come un lavoro d’artista, piuttosto che un lavoro scientifico… SB › Ma lui sta dicendo che era artistico. M › No, non lo era. Voglio dire, è un bravo regista e i Balinesi possono posare molto bene, ma il suo impegno era quello di tenere la cinepresa ferma abbastanza a lungo da cogliere una sequenza di comportamenti. B › Per capire cosa sta succedendo, sì. M › Quando corri in giro scattando foto… B › Santo dio, nessuno sta parlando di questo, Margaret. M › Va bene. B › Sto parlando di avere il controllo di una cinepresa o di una macchina fotografica. Tu stai parlando di mettere una cinepresa morta sopra un fottuto treppiede. Non vede niente. M › Invece penso che veda molto. Ho lavorato su questi filmati presi da artisti, pure ottimi… B › Scusa se ho detto artisti; volevo semplicemente dire artisti. Cioè, nel mio vocabolario il termine artista non è un’ingiuria. M › Non lo è neanche nel mio, ma…

Il senso delle affermazioni della Mead muove evidentemente dal riconoscimento del film come elemento di analisi culturale nelle società complesse e dal film antropologico come strumento scientifico. Da qui il rifiuto del termine artistico. Ma il gioco è più rischioso, dal punto di vista intellettuale, per entrambi: lo scacco è la possibilità di produrre, per immagini, una ricerca o un’affermazione sensata intorno alle culture altre, da una parte; dall’altra la relazione tra corpo e cinepresa, occhio dell’osservatore e protesi tecnica, tra registrazione dei dati e restituzione di un mondo come dati e come metadati: la visione come interpretazione. Ma da qui in avanti, dopo una comune deprecazione di Dead Birds di Gardner, il tono del dibattere si accende nuovamente a partire dai film balinesi di entrambi: M › Scusa, allora. È solo che produce qualcosa di diverso. Per esempio ho cercato di usare Dead Birds… B › Dead Birds non lo capisco assolutamente. L’ho guardato e non ha alcun senso. M › Invece credo che abbia molto senso. B › Ma non ho nessuna idea di come sia stato fatto. M › Ok, mi dispiace, è solo qualcosa di diverso. Ho cercato di usarlo… B › Io l’ho visto, e per me non ha senso… M › Ma no, è profondamente sensato… L’assenza di piani sequenza nel film di Gardner è l’elemento che introduce la differenza più evidente tra le posizioni della Mead e Bateson. Il piano sequenza è qui pensato, piuttosto che come scelta di fedeltà al reale, al movimento così come è dato nel set field, come la pratica di produzione di sequenze lunghe adatte ad essere oggetto di studio e riflessione all’atto del montaggio, montaggio che produce il film stesso come materiale di studio, risorsa per l’analisi. È evidente che questa strategia di field si muove sostanzialmente in una logica grammaticale piuttosto che sintattica, non pensa per immagini attraverso la pratica filmica, ma piuttosto si definisce come un pensare con le immagini a partire dal girato. Taccuini filmati, nell’idea, conseguente, di una sorta di grado zero della scrittura, sia nella forma propria di questo termine che nella pratica filmata. La registrazione si forma quindi come orizzonte esclusivo e primario del field, e consente la restituzione elementare dei dati, la neutralizzazione dell’io etnografico nella rassicurante protesi ottica dell’obiettivo, la neutralizzazione dei dati stessi come emergenza locale, nella elusione della dimensione produttiva degli stessi, nella fase di campo. Il visual, nella sua prassi tecnica, consente la sincronia di dati e di eventi, almeno consente di crederlo. Ma la risposta secca di Bateson, sull’idea di piano sequenza, sulla durata degli shot, venti secondi al massimo, così come l’ulteriore riproposta da parte di Mead delle sequenze lunghe come pratica dell’esperienza balinese, riporta alla differente e diversa valutazione, da parte di entrambi, del processo di restituzione e analisi del materiale filmato e del filming come condizione di produzione di senso e come luogo e tempo di ricerca; posizione questa che sembra orientare più consapevolmente e dolorosamente Bateson: M › Beh, non c’è mai una sequenza abbastanza lunga di nulla, e tu hai detto che assolutamente quello di cui c’era bisogno erano sequenze lunghe, molto lunghe, da una posizione nella direzione di due persone. Lo hai scritto tu. Ora lo rinneghi?

B › Beh, sì, una sequenza lunga nel mio vocabolario è venti secondi. M › Non lo era quando scrivevi sui filmati balinesi. Era di tre minuti. Era il massimo a cui potevi caricare la cinepresa a quel tempo. B › Solo pochissime sequenze duravano tutto l’avvolgimento della bobina. M › Ma se a quel punto avessi avuto una cinepresa che girava 1200 piedi di pellicola, li avresti girati. B › Lo avrei fatto e avrei sbagliato. M › Non sono d’accordo, neanche per un minuto. B › Il film balinese non varrebbe nulla M › Va bene. Questo è un punto su cui sono in totale disaccordo. Non è scienza. B › Non so cosa sia la scienza, non so cosa sia l’arte. M › Va bene. Se non lo sai, allora è semplice. Io lo so. [a Stewart:] Quei filmati che Gregory ha fatto e che ora sta ripudiando, ci hanno fornito materiale di studio per venticinque anni. B › È materiale piuttosto ricco. M › È ricco perché sono delle sequenze lunghe, e sono quelle di cui c’è bisogno. B › Non ci sono sequenze lunghe. M › Oh, Gregory, comparate a quelle che fanno tutti gli altri. B › Ma a loro insegnano di non farle. M › Ci sono sequenze che sono abbastanza lunghe da poter essere analizzate… B › Prese dal punto giusto! M › Prese da un unico punto. B › Prese dal punto che in media era meglio degli altri. M › Beh, tu ci hai messo la cinepresa. B › Ma non puoi farlo con un treppiede. Sei bloccato. L’affare gira per 1200 piedi. È una noia. M › Preferisci venti secondi a 1200 piedi. B › Di certo. M › Il che dimostra che ti annoi molto facilmente. B › Sì, è vero. La polemica, apparentemente molto tecnica, sulla durata delle inquadrature, come sull’uso del cavalletto, sul posizionamento della camera nel set, rimanda alla produzione di set come punto di vista dell’agenda di ricerca. Bateson, ripensando ai film balinesi, il cui montaggio, è bene ricordarlo, e le cui forme definitive si devono alla Mead, autrice del testo e voce del commento, evidenzia in forma breve, lapidaria, dissimulata in una serie di osservazioni appunto tecniche, la questione del punto di vista di ricerca, la possibilità artistica di pensare per immagini, di produrre un montaggio in macchina, di interpretare i dati nel mirino dell’obiettivo. La sua ferma e ossessiva difesa di inquadrature brevi, produce una posizione affatto diversa sul senso di un agire filmico orientato alla produzione estetica, nell’accezione classica, della realtà: il montaggio in macchina è qui sostanzialmente evocato e anticipato, si profila l’orizzonte di un cinéma directe, che il cinema di Bateson sfiora già a Bali. Si produce, infine, la necessità narrativa di produzione del field – gli scenarios della cui proposta vi è traccia dai materiali di field secondo Gerald Sullivan. La posizione della Mead, di fatto autrice dei film, produce invece l’assunzione del materiale, come materiale di una potenza che il montaggio restituisce come atto; affida al testo e alla voce fuori campo la restituzione

narrativa di esso, produce nella scelta comparativa, come in Bathing Babies in Three Cultures, la condizione di una sintagmatica del testo realizzata come visual. In un quadro dove il punto di vista classico del narratore in off discrimina, illustra, introduce il materiale filmato, realizzando, di fatto, una restituzione orientata di questo. Senza di cui il materiale, dal punto di vista della Mead, pur nella forma definitiva e definita dal montaggio, si presenterebbe come illeggibile. Ma la questione dello sguardo come teoria ritorna verso la conclusione del brano qui riprodotto, nelle riproposizione del rischio che lo sguardo influenzi il materiale, che lo sguardo orientato e prodotto dall’obiettivo modifichi profondamente l’oggetto: la possibilità di guardare le cose, look at things: M › Beh, ci sono altre persone che non si annoiano, sai? Prendi i filmati studiati da Betty Thompson. Quella sequenza di Karbo – è bellissima – lei era disposta a lavorarci per sei mesi. Tu non sei mai stato disposto a lavorare sulle cose così a lungo, ma non dovresti essere contrario se altre persone lo fanno e dovresti dare loro il materiale per farlo. C’erano momenti sul campo che lavoravo con le persone senza filmare, e quindi non ho potuto sottoporre il materiale alle teorie che cambiano, come invece abbiamo potuto fare con il materiale balinese. Così, quando sono tornata a Bali non ho visto cose nuove, Quando sono tornata a Manus, dove avevo scattato solo fotografie, invece sì. Man mano che la tua percezione si sviluppa, se hai materiale girato puoi riesaminarla in una certa misura in base a quel materiale. Una delle cose, Gregory, che abbiamo esaminato negli scatti fotografici, era la misura in cui le persone, se si appoggiavano ad altre persone, lasciavano cadere la mascella. Lo abbiamo visto esaminando tantissime foto. È lo stesso principio. È molto diverso se hai una tesi e hai la macchina fotografica o la cinepresa in mano, le possibilità di influenzare il materiale sono maggiori. Se non hai in mano l’apparecchio puoi guardare le cose sullo sfondo. B › Ci sono tre conclusioni in questa discussione. C’è il tipo di film che voglio fare io, c’è il tipo di film che vogliono fare loro in New Mexico (che è sostanzialmente Dead Birds), e poi c’è il tipo di film che si fa lasciando la cinepresa su un treppiede e non curandosene più. M › Chi è che fa questo? B › Oh, gli psichiatri lo fanno. Albert Scheflen lascia una videocamera in casa di qualcuno e poi se ne va a casa sua. È attaccata al muro. M › Beh, sono assolutamente contraria alle persone che vogliono il video così non devono guardare. Poi lo danno in mano a uno sventurato studente che fa tutto il resto del lavoro e ci scrivono un libro. Siamo tutti e due contrari a questo. Ma credo che se guardi la tua lunga sequenza di scatti – lasciamo stare i filmati per un momento – quelle sequenze lunghe e molto rapide, a Koewat Raoeh, quelle foto, sono magnifiche, e forniscono ricchissime opportunità di lavoro e ricerca. E se non fossi rimasto nello stesso posto non avresti quelle sequenze. SB › Lo ha mai fatto nessuno dopo di lui? M › Nessuno è stato più bravo di Gregory in questo tipo di cosa. La gente è molto riluttante a farlo, molto riluttante.

SB › Non ho mai visto nessun libro che si avvicina lontanamente a Balinese Character. M › È vero, nessun libro. E ora Gregory dice che era sbagliato fare quello che ha fatto a Bali. Gregory è l’unica persona che è riuscita con successo a filmare e scattare foto al tempo stesso, cosa che si faceva mettendo un apparecchio sul treppiede e tenendo entrambi alla stessa distanza focale. B › Era come averne una intorno al collo e l’altra in mano. M › A volte sì, a volte no. B › Abbiamo usato il treppiede alcune volte quando usavamo i tele​obiettivi. M › Lo abbiamo usato per i bagni dei bambini. Credo che la differenza fra arte e scienza sia che ciascun evento artistico è unico, mentre in scienza una volta che metti in pista una teoria prima o poi qualcuno giunge alla stessa scoperta. Il punto principale è quello dell’accesso, in modo tale che altre persone possano vedere il tuo materiale e arrivare a comprenderlo e condividerlo. Le uniche informazioni vere che Dead Birds offre sono cose come quella che non ero riuscita neanche a immaginare veramente, e cioè l’effetto del tagliarsi le falangi delle dita. Ti ricordi? Le donne si tagliano una falange per ogni morte di una persona vicina, e iniziano quando sono ragazzine, dunque una volta che sono donne adulte non hanno più dita. In quella società tutti i lavori di fino sono svolti dagli uomini, perché le donne non hanno più dita per farli, hanno le mani che sono dei monchi. Sapevo di questa usanza, ne avevo letto, ma non ha avuto alcun significato finché non ho visto quelle immagini. Ci sono tante cose che possono essere illustrate da questo film quasi artistico, ma quando vogliamo suggerire alla gente che è importante sapere ciò avviene tra le persone – una cosa che hai sempre sottolineato – dobbiamo ancora far vedere i tuoi film, perché non ne esistono altri che ci si avvicinano lontanamente come qualità. SB › Non è un po’ scioccante? Quanto tempo è passato, anni e anni? M › Molto scioccante. B › È perché la gente è diventata brava a mettere la cinepresa sul treppiede. Non a capire ciò che succede nei rapporti fra le persone. M › È il fatto che in questi venticinque anni nessuno che ha messo la cinepresa sul treppiede ha osservato nulla che valesse la pena osservare. B › Va bene, non hanno comunque osservato qualcosa che valesse la pena. L’esito della conversazione riporta ancora, in forma puntualmente polemica due posizioni, due modi di pensare le immagini e con le immagini: la memoria del campo balinese produce, al di là degli esiti pubblicati (come Balinese Character a firma di entrambi, e progetto e prodotto di entrambi) e dei film, la cui fattura definitiva è dovuta alla Mead, o al volume ulteriore da lei firmato (Growth and Culture, basato sulle foto di Bateson), una rielaborazione del profilmico e del prefilmico, come riedizione di una divergente strategia di field, mossa di fatto da presupposti alquanto diversi. Se per Bateson la fotografia è l’esito paradossale di Naven, il tentativo di costruire visivamente un sistema, una griglia di evidenze, una pratica che lo induce a riflettere già sul field sulla natura della procedura, sulle implicazioni epistemiche della rappresentazione fotografica, sulla perturbazione complessa di quell’agire nelle relazioni locali e nelle percezioni culturali,53 per la Mead la fotografia, come il film,

sono invece l’esito di una prospettiva boasiana, la sperimentazione di una restituzione obiettiva e analitica il cui oggetto diviene l’ethos stesso, la tonalità emotiva di una cultura. Se il movimento è, da Régnault a Boas, il marker fisico di una cultura, qui il movimento si dispone ad essere pensato nelle immagini, come la tag dell’ethos stesso, l’evidenza di un cultural imprinting, la possibilità di un universale che le immagini riproducono e colgono: in attesa di occhi che siano in grado di leggerle. Con l’avvertenza di una differenza, che Bateson sottolinea in un intervento del 1974,54 successivo quindi al dialogo con la Mead, dove il tema dell’equilibrio tra corpo e cultura nel movimento, tra corpo e paradigma dell’equilibrio nel carattere balinese è assunto come locale e situato, decretando illegittima ogni inferenza di carattere universale. La questione attiene allora ai metodi di indagine, ma anche agli oggetti della stessa, alla costruzione dell’oggetto antropologico come istanza di selezione dei dati, come restituzione di frammenti e brandelli di mondo in una forma che li renda leggibili, all’incrocio di tecniche di riproduzione dei materiali e interpretazione di questi. Mentre Bateson si interroga sulla natura degli occhi che dispongono gli oggetti, e in un certo senso li producono, sui limiti del linguaggio come limiti del mondo, la Mead si interroga, severamente ma semplicemente, sulle cose: la finestra della scrittura, come la cornice della fotografia, sembrano poter inquadrare e contenere le cose stesse, mentre per Bateson, riprendendo una citazione già usata, la questione è situata, in qualche modo, nel bios: È chiaro che la mente non contiene né oggetti né eventi – né maiali, né palme, né amori – ma contiene soltanto trasformate, percezioni, immagini ecc., insieme con certe regole per generare queste trasformate, percezioni ecc. […] Comunque non ha senso dire che un uomo è stato spaventato da un leone, perché un leone non è un’idea. Di questo leone l’uomo si costituisce un’idea.55

NOTE 1 Wittgenstein 1961a, nn. 5.633 e 5.634 2 Sullivan 1999, p. 92 (“Plate 64”). 3 Griaule 1957, p. 86. 4 Sullivan 1999, p. 1.

5 Bateson 1958 (tr. it., p. 7). 6 Ibid. (tr. it., p. 241). 7 Benedict 1934.

8 Bateson 1958, p. 244.

9 Bateson 1972e (tr. it., p. 316). 10 Fabian 2002, p. 99.

11 Manghi 2004, pp. 23-52 e soprattutto pp. 38-46, per l’analisi del concetto di cornice nel

pensiero di Bateson. 12 Bateson-Bateson 1987 (tr. it, p. 150). 13 Ibid. (tr. it., p. 47). 14 Marcus 1985, pp. 66-82 (tr. it., p. 302). 15 Bateson 1958 (tr. it., pp. 143-144). 16 Ibid. (pp. 213-214). 17 Faeta 1998, p. 24. 18 Gell 1992.

19 Wagner 1975 (tr. it., pp. 81-126). 20 Houseman-Severi 1988.

21 Barthes 1980 (tr. it., pp. 27-30).

22 “The form of presentation used in this monograph is an experimental innovation. During

the period from 1928 to 1936 we were separately engaged in efforts to translate aspects of culture never successfully recorded by the scientist, although often caught by the artist, into some form of communication sufficiently clear and sufficiently unequivocal to satisfy the requirements of scientific enquiry. ‘Coming of Age in Samoa’, ‘Growing up in New Guinea’, and ‘Sex and Temperament’ all attempted to communicate those intangible aspects of culture which had been vaguely referred to as its ethos. As no precise scientific vocabulary was available, the ordinary English words were used, with all their weight of culturally limited connotations, in an attempt to describe the way in which the emotional life of these various South Sea peoples was organized in culturally standardized forms. This method had many serious limitations: it transgressed the canons of precise and operational scientific exposition proper to science; it was far too dependent upon idiosyncratic factors of style and literary skill; it was difficult to duplicate; and it was difficult to evaluate. Most serious of all, we know this about the relationship between culture and verbal concepts – that the words which one culture has invested with meaning are by the very accuracy of their cultural fit, singularly inappropriate as vehicles for precise comment upon another culture. Many anthropologists have been so impressed with this verbal inadequacy that they have attempted to sharpen their comment upon other cultures by very extensive borrowing from the native language. This procedure, however, in addition to being clumsy and forbidding, does not solve the problem, because the only method of translation available to make the native terms finally intelligible is still the use of our own culturally limited language. Attempts to substitute terms of cross-cultural validity, while they have been reasonably successful in the field of social organization, have proved exceedingly unsatisfactory when finer shades of cultural meaning were attempted. Parallel with these attempts to rely upon ordinary English as a vehicle, the approach discussed in ‘Naven’ was being developed- an approach which sought to take the problem one step further by demonstrating how such categories as ethos, there defined as ‘a culturally standardized system of organization of the instincts and emotions of individuals’ were not classifications of items of behaviour but were abstractions which could be applied systematically to all items of behaviour. The first method has been criticized as journalistic –

as an arbitrary selection of highly colored case to illustrate types of behaviour so alien to reader that he continues to regard them as incredible. The second method was branded as too analytical – as neglecting the phenomena of a culture in order to intellectualize and schematize it. The first method was accused of being so synthetic that it became fiction, the second of being so analytic that it became disembodied methodological discussion. In this monograph we are attempting a new method of stating the intangible relationship among different types of culturally standardized behaviour by placing side by side mutually relevant photographs. Pieces of behavior, spatially and contextually separated – a trance dancer being carried in procession, a man looking up at an aeroplane, a servant greeting his master in a play, the painting of a dream – may all be relevant to a single discussion: the same emotional thread may run through them. To present them together in words, it is necessary either to resort to devices which are inevitably literary, or to dissect the living scenes so that only dissecated items remain. By the use of photographs, the wholeness of each piece of behaviour can be preserved, while the special cross-referencing desired can be obtained by placing the series of photographs on the same page. It is possible to avoid the artificial construction of a scene at which a man, watching a dance, also looks up at an aeroplane and has a dream; it is also possible to avoid diagramming the single element in these scenes which we which to stress – the importance of levels in Balinese inter-personal relationship – in such a way that the reality of the scenes themselves is destroyed. This is not a book about Balinese custom, but about the Balinese – about the way in which they, as living persons, moving, standing, eating, sleeping, dancing, and going into trance, embody that abstraction which (after we have abstracted it) we technically call culture” (Bateson-Mead 1942, pp. IX-X). 23 Mead - MacGregor Cooke 1951, dove le due autrici utilizzano, con alcune variazioni terminologiche, le categorie di Gesell, riproponendo il formato tipografico e l’ipotesi di analisi di Balinese Character, usando un set di foto tratte ancora una volta dalla selezione di 4000 foto su 25.000, alla base del volume precedente, e dove ritroviamo alcune foto già usate, in forma diversa, nel 1942. Vedi Sullivan 1999, p. 2, e Jacknis 1988. 24 Canevacci 2001. 25 Bateson-Mead 1942. 26 Mead 1972 (tr. it., p. 277). 27 Bateson-Mead 1942, p. 49. Questo il testo originale: “Taking the Photographs. Four factors may be mentioned which contributed to diminish camera consciousness in our subjects: A. The very large number of photographs taken. In two years we took about 25.000 Leica stills and about 22.000 feet of 16mm. Film, and it is almost impossible to maintain camera consciousness after the first dozen shots. B. The fact that we never asked to take pictures, but just took the mass as a matter of routine, wearing and carrying the two cameras day in and day out, so that the photographer himself ceased to be camera conscious. C. We habitually directed attention to our photographing of small babies, and the parents overlooked the fact that they also were included in the pictures (as even American parents will, in similar circumstances).

D. We occasionally used and angular view finder for shots when the subject might be expected to dislike being photographed at that particular moment […] In the great many instances, we created the context in which the notes and photographs were taken e.g. by paying for the dance, or asking a mother to delay the bathing of her child until the sun was high, but this is very different from posing the photographs. Payment for theatrical performance is the economic base upon which the Balinese Theater depends, and the extra emphasis given to the baby served to finish the mother’s awareness the she was to be photographed. A visit “to visit the baby being bathed” would last from fifteen minute to two hours, and the greater part of the time after the bathing would be spent watching the family in a large variety of types of play and other behaviour. In such setting, a roll of Leica film (about 40 exposures), lasted from five to fifteen minutes. […] One rather curious type of selection did occur. We were compelled to economize on motionpicture film. And disregarding the future difficulties of exposition, we assumed that the still photography and the motion-picture film together would constitute our record of behavior. We therefore reserved the motions-picture camera for the more active and interesting moments, and recorded the slower and less significant behaviors with the still camera.” 28 Sullivan 1999, p. 15. 29 Mead 1977 (tr. it., pp. 237-240). 30 Ricci 2006, p. 31. 31 Sullivan 1999, p. 33. 32 Mead 1975, p. 10 (tr. it., p. 9). 33 Jacknis 1988, p. 171. 34 Jacknis 1988, p. 167. 35 Mead 1972 (tr. it., p. 277). 36 Bateson-Mead 1942, p. 167. 37 Turner 1986, vedi pp. 72-98 e 139-155. 38 Ruby, 2000, pp. 55-66. 39 Balázs 1924, pp. 40 ss. (ai fini di un inquadramento storico teorico del testo all’interno delle teorie dell’espressionismo vedi l’introduzione di L. Quaresima all’edizione italiana del 2008). Cfr. anche la lettura in termini di storia dell’antropologia proposta da Oksiloff 2001, pp. 136-158. 40 Russell 1999, pp. 203-205. 41 Cfr. su questo punto il notevole saggo di Tobing Rony 2006, pp. 5-27. 42 Cfr. Goodrydge 2009, pp. 40-109. Sulla dimensione topologica della danza vedi Partitions du Vivant, intervista a René Thom di L. Louppe in Louppe 1994, pp. 29-36. Sul ritmo come dispositivo di regolazione vedi Ceriani 2003, pp. 71-100. Sulla notazione Laban, cfr. Hutchinson Guest 2005. 43 Marabello 2008, pp. 79-90. 44 Bateson 1975 (tr. it., pp. 141-158). Sulla trance vedi poi Belo 1960 e 1949. 45 Schechner 1985, pp. 74-75.

46

Pollmann 1990, pp. 1-35, per una lettura politica del contesto balinese sotto l’egida coloniale olandese. Vedi anche Boon 1977, pp. 55-60, sulle evidenze dei processi di induizzazione dell’area di field di Bateson e Mead; Boon 1990, soprattutto pp. 172-194; infine, il caustico e notevole “Between-the-Wars Bali: Rereading the Relics” (Boon 1986, ora con un nuovo titolo “About a Footnote: Between-the-Wars Bali: Its Relics Regained”, in Boon 1999, pp. 73-97). 47 Bateson 1972a (tr. it., pp. 491-492). 48 Ibidem (tr. it., pp. 144-165). 49 Mead 1977 (tr. it., pp. 191-192). 50 Mead-Bateson 2006. Cfr. El Guindi 2004, pp. 61-73. 51 El Guindi 2004.

52 Brand 1976, pp. 32-44, questi i testi estratti:

“B › I was wondering about looking through, for example, a camera. M › Remember Clara Lambert and when you were trying to teach her? That woman who was making photographic studies of play schools, but she was using the camera as a telescope instead of as a camera. You said, ‘She’ll never be a photographer. She keeps using the camera to look at things.’ But you didn’t. You always used a camera to take a picture, which is a different activity. B › Yes. By the way, I don’t like cameras on tripods, just grinding. In the latter part of the schizophrenic project, we had cameras on tripods just grinding. M › And you don’t like that? B › Disastrous. M › Why? B › Because I think the photographic record should be an art form. M › Oh why? Why shouldn’t you have some records that aren’t art forms? Because if it’s an art form, it has been altered. B › It’s undoubtedly been altered. I don’t think it exists unaltered. M › I think it’s very important, if you’re going to be scientific about behavior, to give other people access to the material, as comparable as possible to the access you had. You don’t, then, alter the material. There’s a bunch of film makers now that are saying, ‘It should be art,’ and wrecking everything that we’re trying to do. Why the hell should it be art? B › Well, it should be off the tripod. M › So you run around. B › Yes. M › And therefore you’ve introduced a variation into it that is unnecessary. B › I therefore got the information out that I thought was relevant at the time. M › That’s right. And therefore what do you see later? B › If you put the damn thing on a tripod, you don’t get any relevance. M › No, you get what happened. B › It isn’t what happened. M› I don’t want people leaping around thinking that a profile at this moment would be

beautiful. B › I wouldn’t want beautiful. M › Well, what’s the leaping around for? B › To get what’s happening. M › What you think is happening. B › If Stewart reached behind his back to scratch himself, I would like to be over there at that moment. M › If you were over there at that moment you wouldn’t see him kicking the cat under the table. So that just doesn’t hold as an argument. B › Of the things that happen the camera is only going to record one percent anyway. M › That’s right. B › I want one percent on the whole to tell. M › Look, I’ve worked with these things that were done by artistic film makers, and the result is you can’t do anything with them. B › They’re bad artists, then. M › No, they’re not. I mean an artistic film maker can make a beautiful notion of what he thinks is there, and you can’t do any subsequent analysis with it of any kind. That’s been the trouble with anthropology, because they had to trust us. If we were good enough instruments, and we said the people in this culture did something more than the ones in that, if they trusted us, they used it. But there was no way of probing further material. So we gradually developed the idea of film and tapes. B › There’s never going to be any way of probing further into the material. M › What are you talking about, Gregory? I don’t know what you’re talking about. Certainly, when we showed that Balinese stuff that first summer there were different things identified – the limpness that Marion Stranahan identified, the place on the chest and its point in child development that Erik Erikson identified. I can go back over it, and show you what they got out of those films. They didn’t get it out of your head, and they didn’t get it out of the way you were pointing the camera. They got it because it was a long enough run so they could see what was happening. SB › What about something like that Navajo film, ‘Intrepid Shadows?’ M › Well, that is a beautiful, an artistic production that tells you something about a Navajo artist. B › This is different, it’s a native work of art. M › Yes, and a beautiful native work of art. But the only thing you can do more with that is analyze the film maker, which I did. I figured out how he got the animation into the trees. B › Oh yes? What do you get out of that one? M › He picked windy days, he walked as he photographed, and he moved the camera independently of the movement of his own body. And that gives you that effect. Well, are you going to say, following what all those other people have been able to get out of those films of yours, that you should have just been artistic? SB › He’s saying he was artistic. M › No, he wasn’t. I mean, he’s a good film maker, and Balinese can pose very nicely, but his effort was to hold the camera steady long enough to get a sequence of behavior.

B › To find out what’s happening, yes. M › When you’re jumping around taking pictures… B › Nobody’s talking about that, Margaret, for God’s sake. M › Well. B › I’m talking about having control of a camera. You’re talking about putting a dead camera on top of a bloody tripod. It sees nothing. M › Well, I think it sees a great deal. I’ve worked with these pictures taken by artists, and really good ones… B › I’m sorry I said artists; all I meant was artists. I mean, artist is not a term of abuse in my vocabulary. M › It isn’t in mine either, but I… B › Well, in this conversation, it’s become one. M › Well, I’m sorry. It just produces something different. I’ve tried to use ‘Dead Birds,’ for instance… B › I don’t understand ‘Dead birds’ at all. I’ve looked at ‘Dead Birds,’ and it makes no sense. M › I think it makes plenty of sense. B › But how it was made I have no idea at all. M › Well, there is never a long-enough sequence of anything, and you said absolutely that what one needed was long, long sequences from one position in the direction of two people. You’ve said that in print. Are you going to take it back? B › Yes, well, a long sequence in my vocabulary is twenty seconds. M › Well, it wasn’t when you were writing about Balinese films. It was three minutes. It was the longest that you could wind the camera at that point. B › A very few sequences ran to the length of the winding of the camera. M › But if at that point you had a camera that would run twelve hundred feet, you’d have run it. B› I would have and I’d have been wrong. M › I don’t think so for one minute. B › The Balinese film wouldn’t be worth one quarter. M › All right. That’s a point where I totally disagree. It’s not science. B › I don’t know what science is, I don’t know what art is. M › That’s all right. If you don’t, that’s quite simple. I do. [To Stewart:] With the films that Gregory’s now repudiating that he took, we have had twenty-five years of re-examination of the material. B › It’s pretty rich material. M › It’s rich, because they’re long sequences, and that’s what you need. B › There are no long sequences. M › Oh, compared with anything anybody else does, Gregory. B › But they’re trained not to. M › There are sequences that are long enough to analyze… B › Taken from the right place! M › Taken from one place.

B › Taken from the place that averaged better than other places. M › Well, you put your camera there. B › You can’t do that without a tripod. You’re stuck. The thing grinds for twelve hundred feet. It’s a bore. M › Well, you prefer twenty seconds to twelve hundred feet. B › Indeed, I do. M › Which shows you get bored very easily. B › Yes, I do. M › Well, there are other people who don’t, do you know? Take the films that Betty Thompson studied. That Karbo sequence – it’s beautiful – she was willing to work on it for six months. You’ve never been willing to work on things that length of time, but you shouldn’t object to other people who can do it, and giving them the material to do it. There were times in the field when I worked with people without filming, and therefore have not been able to subject the material to changing theory, as we were able to do with the Balinese stuff. So when I went back to Bali I didn’t see new things. When I went back to Manus, I did, where I had only still photographs. If you have film, as your own perception develops, you can re-examine it in the light of the material to same extent. One of the things, Gregory, that we examined in the stills, was the extent to which people, if they leaned against other people, let their mouths fall slack. We got that out of examining lots and lots of stills. It’s the same principle. It’s quite different if you have a thesis and have the camera in your hand, the chances of influencing the material are greater. When you don’t have the camera in your hand, you can look at the things in the background. B › There are three ends to this discussion. There’s the sort of film I want to make, there’s the sort of film that they want to make in New Mexico (which is ‘Dead Birds,’ substantially), and there is the sort of film that is made by leaving the camera on a tripod and not paying attention to it. M › Who does that? B › Oh, psychiatrists do that. Albert Scheflen leaves a video camera in somebody’s house and goes home. It’s stuck in the wall. M › Well, I thoroughly disapprove of the people that want video so they won’t have to look. They hand it over to an unfortunate student who then does the rest of the work and adds up the figures, and they write a book. We both object to this. But I do think if you look at your long sequence of stills, leave out the film for a minute, that those long, very rapid sequences, Koewat Raoeh, those stills, they’re magnificent, and you can do a great deal with them. And if you hadn’t stayed in the same place, you wouldn’t have those sequences. SB › Has anybody else done that since? M› Nobody has been as good photographer as Gregory at this sort of thing. People are very unwilling to do it, very unwilling. SB › I haven’t seen any books that come even close to Balinese Character. M › That’s right, they never have. And now Gregory is saying it was wrong to do what he did in Bali. Gregory was the only person who was ever successful at taking stills and film at the same time, which you did by putting one on a tripod, and having both at the same focal length.

B › It was having one in my hand and the other round my neck. M › Some of the time, and some not. B › We used the tripod occasionally when we were using long telephoto lenses. M › We used it for the bathing babies. I think the difference between art and science is that each artistic event is unique, whereas in science sooner or later once you get some kind of theory going somebody or other will make the same discovery. The principal point is access, so that other people can look at your material, and come to understand it and share it. The only real information that ‘Dead Birds’ gives anybody are things like the thing that my imagination had never really encompassed, and that’s the effect of cutting off joints of fingers. You remember? The women cut off a joint for every death that they mourn for, and they start when they’re little girls, so that by the time they’re grown women, they have no fingers. All the fine work is dime by men in that society, the crocheting and what not, because the men have fingers to do it with, and the women have these stumps of hands. I knew about it, I had read about it, it had no meaning to me until I saw those pictures. There are lots of things that can be conveyed by this quasi-artistic film, but when we want to suggest to people that it’s a good idea to know what goes on between people, which is what you’ve always stressed, we still have to show your films, because there aren’t any others that are anything like as good. SB › Isn’t that a little shocking? It’s been, what, years? M › Very shocking. B › It’s because people are getting good at putting cameras in tripods. It isn’t what happens between people. M › Nobody’s put any cameras on tripods in those twenty-five years that looked at anything that mattered.” 53 Bateson 1958. 54 Bateson 1975 (tr. it., p. 158). 55 Bateson 1972 (tr. it., p. 316).

5 DIORAMI DI CLAUDE LÉVI-STRAUSS “Brasile, 1° gennaio 1502” …natura ricamata… l’arazzo del paesaggio Landscape into Art, Sir Kenneth Clark Appunto come i cristiani, cattivi, minuscoli, e luccicanti, in armature cigolanti, vennero e trovarono il tutto non estraneo; nessun sentiero per gli innamorati, né pergolati, né ciliegie da raccogliere, né la musica del liuto, ma qualcosa tuttavia che rispondeva a un vecchio sogno di lusso e di ricchezza già fuori moda quando lasciarono le loro case – ricchezza, più un piacere tutto nuovo. Subito dopo la Messa, canticchiando forse L’Homme armé, o un altro simile motivo, strappandolo entravano in quel tessuto sospeso, ciascuno a caccia del proprio indiano – quelle donne maledette e minuscole che continuavano a chiamare, a chiamarsi l’un l’altra (o forse gli uccelli erano di nuovo desti?) e indietreggiavano, indietreggiavano sempre, dietro l’arazzo.1 E. Bishop Tupy or not tupy, this is the question. O. de Andrade

5.1. Régard davvero eloigné: o della distanza come istanza Ponendo la natura simbolica del suo oggetto, l’antropologia sociale non intende, dunque, distaccarsi dai realia. Come lo potrebbe, dal momento che l’arte, in cui tutto è segno, si vale di tramiti materiali? Non è possibile studiare gli dei ignorando le loro immagini; i riti, senza analizzare gli oggetti e le sostanze che l’officiante fabbrica o manipola: le regole sociali, indipendentemente dalle cose che loro corrispondono.2 All’epoca della mia spedizione tra i Bororo avevo con me una piccola macchina da presa portatile, e mi è capitato di tanto in tanto di premere un pulsante e di riprendere qualche immagine, ma me ne sono presto disgustato. Perché quando si ha l’occhio dietro l’obiettivo di una macchina da presa non si vede quello che

succede e si capisce ancora meno, ne sono rimasti dei frammenti che fanno circa un’ora di materiali. Sono stati ritrovati in Brasile dove li avevo abbandonati e mostrati una volta al Centre Pompidou. Del resto le farò una confessione: i film etnologici mi annoiano.3 I due frammenti giustapposti, entrambi di Claude Lévi-Strauss, trama qui di una prima cronologia, risalgono rispettivamente al testo della lezione introduttiva al Collège de France, del 5 gennaio del 1960 e a un’intervista del 22 febbraio del 2005, apparsa su Le Monde, e sui principali giornali europei, nei giorni immediatamente successivi, corollario promozionale e comunicativo della mostra organizzata dal Centre Pompidou e dedicata al Brasile, mostra in cui vedevano pubblicamente la luce le collezioni etnografiche del decano dell’antropologia francese. Due frammenti la cui provenienza e il cui stile producono la cifra della rispettiva origine. Nel primo, Lévi-Strauss parla dal pulpito della nuova cattedra di Antropologia sociale istituita presso il Collège de France, istituzione peculiare, presso la quale l’attività intellettuale si produce esclusivamente in forma di lezioni pubbliche, senza altri obblighi per il maestro. Luogo della parola data. Della pubblica oralità del sapere. Teatro del pubblico incanto della conoscenza. Culmine della vita intellettuale di uno studioso francese. Il secondo testo, qui nella forma di un frammento, fa parte invece di un’intensa attività di comunicazione, che ha visto esiti diversi e importanti, un’attività di divulgazione e autocoscienza intellettuale, nella forma pubblica della conversazione, dell’intervista, su media diversi, dai giornali, alla radio, alla televisione, oggetto di una pubblicistica intensa, testimonianza sia di una tradizione francese della vita intellettuale del Novecento, sia della notorietà di Lévi-Strauss e della sua avventura scientifica. Tale notorietà ha prodotto un’immediata identificazione, negli anni sessanta, tra Lévi-Strauss e l’etnologia, e, ancora più puntualmente, tra Lévi-Strauss e lo strutturalismo nelle scienze umane. Il frammento della lezione al Collège de France, che anticipa il passaggio di una messa a punto dell’etnologia moderna come critica della tradizione, è il momento centrale del testo, critica retoricamente felice e pointu di Radcliffe Brown, dapprima presentato come maestro – da cui l’imitatio – quindi ritratto, quasi epigrammaticamente, come critico della “histoire conjecturale” – ecco la reductio –; poi scientificamente superato in nome della lettura strutturalista dell’antropologia simbolica – diminutio. E infine, proprio in nome della storia, oggetto ormai scientifico, grazie all’incrocio di etnologia e geologia, archeologia e storia sociale, fatto progetto di salvage: grazie alla procedura ipotetica, Radcliffe, visti gli sviluppi del pensiero antropologico, avrebbe forse fatto ammenda del mépris teorico verso la congettura. Grazie a quest’auspicio, la rivoluzione strutturalista ri-accoglieva la tradizione, nella linea più impervia e significativa della discontinuità. Nel frammento citato, all’interno di una ricostruzione storica del campo dell’antropologia, la questione delle immagini viene così in luce: se ci si occupa degli dei, bisogna occuparsi delle immagini di questi. Che cos’è, allora, un’immagine? E, soprattutto, accostandosi alla nozione di questa, nel pensiero di Lévi-Strauss, che ruolo assume? Assume forse un significato originale? Il frammento dall’intervista del 2005 introduce una presa di distanza teorica, affermando una distanza tra pensiero e immagine, più precisamente un’impossibilità di pensare con le immagini, attraverso una pratica per immagini, tramite strumenti di rappresentazione come la fotografia o il cinema; ma, insieme con questa presa di posizione sul piano della pratica

come teoria, emerge l’accenno storico a un’esperienza di pratica filmica prodotta negli anni di campo, nella limitata esperienza di campo dell’etnologo francese. Quest’accenno riporta alla luce degli oggetti rimossi, dei relitti dei field brasiliani, oggetti di uno sguardo la cui distanza temporale e teorica è palese, volutamente dichiarata e quasi ostentata, elegantemente risolta, la rimozione, nella dichiarazione d’indifferenza e disinteresse verso il film etnologico. Dichiarazione rilasciata nella chiusa di una risposta splendidamente e scientemente distaccata, delibata e concessa nella forma apparente dell’ammiccamento, alludendo alla pratica della confessione privata pur nell’evidenza pubblica, della pubblicità in quanto pubblicabilità della dichiarazione stessa: “Del resto le farò una confessione: i film etnologici mi hanno sempre annoiato…” Forma del congedo dalla memoria, nel codice della confidenza ma nella retorica dell’epifora, la figura classica della proposizione conclusiva della deprecazione. La scienza del concreto non si affida a fotografie, film, registrazioni; le immagini sembrano darsi soltanto come immagini oggettuali e disegni, immagini tassonomiche di fiche, immagini di descrizioni, immagini mentali, scritture nella tradizione dell’ekfrasis. Sembra qui costituirsi un fronte del rifiuto, della denegazione: le immagini come stato teorico, eluse come condizione materiale della produzione di senso da parte dell’etnologo, come produzione e riproduzione di eventi e di memorialità. L’immagine, la pratica dell’immagine fotografica, filmica, sembra attestarsi come elemento di distanza tra il pensiero e lo spazio, tra l’azione – osservazione sul campo – e il campo stesso. Come un diaframma interpretativo. O addirittura cognitivo. Traccia qui di un diniego, di una forclusione. Il teorico della scrittura come violenza4 è alla scrittura che affida la restituzione del pensare, l’agire in quanto pensare. Fotografo apparentemente di campo, dal cui lavoro verrà poi editato il libro-catalogo Saudades do Brasil del 1995, Lévi-Strauss affida la costruzione dell’interpretazione alla scrittura, all’uso di segni, poiché la sua etnologia è essa stessa una scienza dei segni; all’uso di disegni, dove il disegno graficizza il pensiero restituendolo in un ordine visivo geometrico; alle fiche, dove il disegno si manifesta come mnemotecnica classica, descrizione tipizzante; alle collezioni di oggetti di interesse etnologico, come memoria oggettuale, matrice di una genealogia interpretativa possibile; alle carte geografiche; a rare foto di accompagnamento. Rimozione della pratica di restituzione tecnica, ma anche rimozione tecnica della pratica stessa? O, diversamente, si legge qui come un’intuizione, la mossa di una fuga da una pratica che imporrebbe – o produrrebbe – una diversa restituzione, pratica di segni originale inevitabilmente in frizione con la scrittura come forma di organizzazione del pensiero e del mondo? Salvezza di esso e in esso? Coscienza classica del potere della tradizione scritta, e della narrazione storica come forma di organizzazione e dimostrazione della realtà dei realia, citati nel frammento dalla lezione al Collège? O ancora coscienza di un isomorfismo necessario tra una scienza dei segni e i segni stessi, come il discorso mitologico che, appunto, non può non farsi mitomorfico? Isomorfismo necessario, principio formale dell’omologia. Il vedere-sapere si configura nella forma del vedere-scrivere. È la scrittura che organizza le carte, la scrittura che dà forma, meglio che è forma: la distanza che riporta lo sguardo eloigné nella condizione di una rappresentazione. La scrittura è ciò che consente al farsi di datarsi e, quindi, di restituirsi.5 Tra i due frammenti di testo citati e commentati trascorrono quarantacinque anni. Tra São Paulo e la mostra al Centre Pompidou, “Bresil Indien”, del 2005, trascorrono settant’anni. Tra le due diverse istanze, e distanze, la presenza, settant’anni prima, di alcuni film, la presenza e la posizione di una figura ulteriore sulla scena del contatto etnografico, quella di Dina

Dreyfus Lévi-Strauss, così come, ineludibile, la genealogia storica di una tradizione dell’etnografia di scuola francese, soprattutto di un lavoro di campo, storicamente situato ben prima del turning point strutturalista di Lévi-Strauss, come il lavoro di archivio va esplicitando. Sulla scena delle spedizioni brasiliane, realizzate tra il 1935 e il 1939, nelle uniche esperienze etnografiche dell’etnologo francese. Scena di cui taccuini, archivi, foto, film, testi scientifici, interviste, restituiscono un quadro complesso, le tracce di moti interrogativi e, soprattutto, una traiettoria di produzione di senso dove Lévi-Strauss autorizza, di volta in volta, diverse letture, suggerendo alcune piste, occultandone, parzialmente, altre. Dove l’indagine dei film, delle immagini fotografiche, nelle diverse restituzioni, nei tagli di sviluppo come nei formati di stampa, evidenzia paradossi e scoperte. Dove la memoria del terreno vede luce tra mozioni intellettuali e suggestive rimozioni. Come già segnala il corpus dei testi fotografici e filmici, con le sue interne allocronie, e così come, più recentemente, si evince dalla pubblicazione, nel 2001, delle foto e del diario di campo della seconda spedizione brasiliana, nel volume di Luiz de Castro Faria,6 l’allora giovane naturalista portoghese, futuro decano dell’antropologia brasiliana. Come confermano le ricerche di archivio brasiliane pubblicate dal 2005 in avanti, e le successive ricostruzioni di ambito francese.7 Come già testimoniavano, per la prima missione, 1935-36, le note di Paul Rivet e Jacques Soustelles, pubblicate dal Journal de la Société des américanistes.

5.1.1. Images eloignées: rimozioni, modernità, alterità: la doppia vita di un film e di un progetto tra vita e conoscenza Che cosa vide Lévi-Strauss al suo arrivo in Brasile a metà degli anni trenta? Detestò davvero, come canta Caetano Veloso, la baia di Guarnabaca? Il mio primo choc arrivando in Brasile, è stata la natura, quale si poteva ancora contemplare sulle pendici della Serra do Mar; poi, quando mi sono potuto inoltrare nell’interno, mi sono trovato di nuovo in una natura totalmente diversa da quella che avevo conosciuta… Ma c’è anche una dimensione a cui non si presta sempre attenzione e che è stata per me fondamentale; quella del fenomeno urbano. Quando sono arrivato a São Paulo, dicevano che si costruiva una casa all’ora. E a quel tempo, c’era una società inglese che, da quattro o cinque anni soltanto, apriva i territori a ovest dello Stato di São Paulo. Costruiva una linea ferroviaria e pianificava una città ogni quindici chilometri. Nella prima, la più vecchia, c’erano tremila abitanti, nella seconda novanta, nella terza sessanta, e, nella più recente, uno solo, un francese. A quell’epoca, uno dei più grandi privilegi del Brasile era che permetteva di assistere, in modo quasi sperimentale, alla formazione di quel fantastico fenomeno umano che è una città. Certamente da noi la città è il risultato qualche volta di una decisione dello stato, ma più spesso di milioni di piccole iniziative individuali prese nel corso dei secoli. Nel Brasile degli anni trenta si poteva osservare questo processo, condensato, prodursi in pochi anni. Certamente, dal momento che praticavo l’etnografia, gli indiani sono stati per me essenziali, ma questa

esperienza urbana ha occupato un grande spazio e i due “Brasili” coabitavano, ma a una buona distanza.8 La memoria di Lévi-Strauss muove da un io etnografico intensamente rinnovato nel tempo, come nello spazio: nella sua cerimonia pubblica e accademica dell’attività scientifica, nella cerimonia pubblica della sua presenza di polemista, intellettuale, scrittore, nelle interviste radiofoniche e televisive. La declinazione della prima persona, la ricostituzione e ricostruzione del passato hanno assunto, di volta in volta, la forma dell’autobiografia intellettuale, della corrispondenza polemica, della lunga frequentazione di media e riviste. Se Lévi-Strauss è l’autore di Tristi tropici, uno dei testi cruciali della scrittura antropologica, del suo interrogarsi come pratica di vita e relazione e come restituzione di conoscenza attraverso l’esperienza di questa, nella sua reinvenzione storica dell’io scientifico rimuove dall’esperienza brasiliana la presenza della giovane moglie, Dina Dreyfus. Rimozione del nome, rimozione parziale della firma comune nella missione del 1935-36 nel Mato Grosso, rimozione della firma comune nei titoli di testa dei sei film sopravvissuti di sette girati.9 Rimozione di un nome proprio mai fatto oggetto di menzione in Tristi tropici, mai pronunciato in Saudades do Brasil, un film intervista sulla sua esperienza di ricerca in Brasile realizzato nel 2006, da Maria Maia10; nome accennato, quasi di sfuggita, nel film del 1991, A propos de Tristes Tropiques,11 dove alcune immagini dei film della prima spedizione compaiono come footage, illustrazione di due interviste-conversazioni di Lévi-Strauss, filmate in Brasile nel 1985 e a Parigi, sul finire degli anni ottanta, insieme con numerose fotografie. Immagini filmiche, che, come vedremo, pongono parecchi quesiti di ordine filologico e che differiscono dalla recente versione restaurata dalla Cinemateca brasilieira. Elisione. Sottrazione di un nome. Nella léçon d’écriture di Tristi tropici, oggetto di una estenuante analisi testuale da parte di Derrida nel suo Della grammatologia, Lévi-Strauss rimette in scena se stesso tra i Nambikwara, alla ricerca dei nomi propri indigeni. Nell’episodio una bambina india lo accosta, rivelandogli il nome di un’altra bimba che l’ha offesa: nell’intento di ferire l’altra, la bambina produce, come gioco, una scena di verità, una scena di violenza nella verità. I nomi propri, sin lì occultati, ritornano alla luce, all’ascolto. Suoni che rimandano a un comportamento cognitivamente e socialmente singolare. Evidentemente comunitario. Qui, ciò che prende luce, in Tristi tropici, nella lettura di Derrida, è la scena completa e violenta di un noi-loro, dove i poli della relazione si giocano tra condizione nativa e presenza dell’ospite, del visitatore, dei pionieri che li additano con nickname ridicoli, accettati dagli indiani come pratica di occultamento. Spazio fibrato di tensioni. L’antropologo Lévi-Strauss entra a questo punto in campo: produce le condizioni di un challenge tra i bambini della comunità in nome dei nomi: la turbolenza produce conoscenza, ma lo spazio delle relazioni tra bambini e adulti si modifica. Osservatore e osservato. Scena di esseri viventi: non siamo nell’orizzonte di un evento quantistico. Né su una scena del primitivo, come le foto di Castro Faria testimoniano, segnalando pali telegrafici, corrispondenze elettriche,12 tracce della modernità e memorie della spedizione antropologica di Rondon, sulle direttrici della telegrafia e della civiltà indiana. Siamo qui, sulla scena del nome segreto, di una scena del segreto come pratica comunitaria. La scena del nome rimosso della moglie Dina è il prodotto di un’altra violenza. Altra scena, altro orizzonte di eventi: tra i Tupi Kawahib, a Campos Novos, Lévi-Strauss è immerso in una solitudine

ossessiva. L’intorno è descritto come uno spazio del dolore: tra indios malati e sordi alle esigenze dell’etnografo, nello scoramento e nel dubbio, la scrittura e il pensiero della musica gli danno una paradossale solidità, o si costituiscono come un oggetto lacaniano, una strategia di transfer. Tra un accordo di Chopin e una riscrittura di Corneille – una nuova Cinna – Lévi-Strauss affronta la solitudine: i suoi due compagni di viaggio sono malati e febbricitanti a ottanta chilometri di distanza a causa di una grave infezione oculare: non nominata, infettata, malata, Dina Lévi-Strauss è appunto a ottanta chilometri di distanza, è lei uno dei compagnons. Siamo nel 1955, Lévi-Strauss si è risposato con un’altra donna, conosciuta grazie a un comune amico, Jacques Lacan. Discrezione, rimozione, scarto terribile e necessario? Reinvenzione della memoria come elaborazione o elisione del lutto? La vita di Lévi-Strauss si produce spesso nel segno del détour. Giunge in Brasile nel 1935, quasi per caso, come professore di Sociologia della neonata università di São Paulo. LéviStrauss non ha un training etnografico, è un professore di liceo in Francia, curioso di etnologia, sposato con la giovane moglie Dina Dreyfus, etnologa. Tra i docenti della neonata università spiccano tra gli altri Braudel, anche lui allora ignoto, Monbeig che gli sarà amico. Lévi-Strauss non ha pubblicazioni nel suo curriculum: il Brasile gli si offre come un’opportunità, grazie alla stima di George Dumas. Ma la sociologia del giovane docente francese si muove già negli spazi ampi di una complessa strategia antropologica, tra etnolinguistica e antropologia urbana, corsi sulla parentela. I corsi di Lévi-Strauss si orientano subito, infatti, verso le società tradizionali e le forme di organizzazione sociale e cultuale primitiva, come testimoniano le bibliografie suggerite agli studenti, che includono testi classici di Van Gennep, Lowie, Durkheim.13 Nell’ambiente della borghesia intellettuale di São Paulo, grazie alla frequentazione di Mário de Andrade, il poeta, musicologo, romanziere e folklorista brasiliano, si tracciano, contemporaneamente, i primi progetti di etnografia di campo, che assumono inizialmente la forma di détour nei fine settimana, di frequentazione di feste tradizionali, di primi accostamenti a realtà di villaggi a presenza indios non lontani dalla nascente metropoli.14 De Andrade ha già pubblicato Macunaima, il romanzo indio dal linguaggio meticciato e arcaizzante, ha scritto cronache di viaggio per i giornali brasiliani alla ricerca etnografica delle identità indie; è un fotografo raffinato capace di raccontare, per immagini, il Brasile anni trenta, tra primitivismi e modernismo, manifesti per un’antropofagia letteraria, e varianti di avanguardie futuriste.15 È Dina Dreyfus, i cui interessi si muovono verso la cultura materiale, come attesta la sua formazione con Jacques Rivet, a definire intanto la metodologia di campo, la tecnica di preparazione e stesura delle fiche, l’opportunità e la forma di utilizzo di materiale fotografico e filmico, le tecniche di registrazione, come testimonierà la stesura e pubblicazione, in portoghese, di un manuale di etnografia nel 193616. Ed è sempre grazie al suo impulso, insieme a de Andrade, che si producono le condizioni per la nascita nel 1936 della Società etnografica del folklore, diretta da entrambi, che avrà vita sino al 1938, e che la vedrà impegnata in un’attività didattica per la formazione etnografica, il cui esito è il manuale del 1936.17 Lévi-Strauss, intanto, accumula materiale fotografico – foto per lo più di soggetti urbani – grazie all’uso di macchine professionali come la Leica 35mm, e più tardi una Voigt​‐ länder 6×6, macchine dalle ottiche di qualità, e dalle notevoli prestazioni, questa ultima utilizzata nella seconda spedizione, più ricca, fotograficamente, di ritratti. Presto si manifesterà la possibilità di una vera e propria missione etnografica, di una fuoriuscita da un’antropologia del fine settimana, vissuta tra leisure and pleasure, pur se

orientata da una sincera curiosità scientifica. Una missione che avrà luogo tra novembre 1935 e marzo del 1936, nel periodo di ferie dall’università paulista, come risulta dalla relazione annuale dell’Institut d’ethnologie firmata da Lévy-Bruhl, dove si fa cenno ai film girati presso i Bororo,18 le riprese di cerimonie funerarie, e si descrive il complesso delle attività di campo e il percorso della spedizione stessa, le popolazioni oggetto di studio e i suoi esiti nel segno della raccolta dei materiali e dei fatti sociali osservati e descritti.19 Esito materiale della missione duecentotrentotto oggetti etnici, circa trecento disegni di provenienza indigena – materiali caduveo. Non si fa cenno, nella relazione, a materiale fotografico, né al numero complessivo dei film realizzati, film che come vedremo sono firmati da entrambi, come appare dai cartelli dei titoli. Esito pubblico della missione la mostra parigina del 1937 (21 gennaio – 3 febbraio) presso la Galérie de la Gazette des Beaux Arts,20 a firma della coppia. A firma di lui, invece, si editeranno diversi materiali, differiti nel tempo,21 come la sezione dedicata alle decorazioni e al disegno facciale degli indiani Caduveo e le immagini di accompagnamento (nel saggio Le rédoublement de la répresentation dans les arts de l’Asie et de l’Amerique, apparso su Renaissance, la révue libre de l’Ecole des Hautes Etudes nel 1944-45 a New York, negli anni di guerra), la tesi di dottorato e il volume conseguente sui Nambikwara, Tristi tropici del 1955, il saggio sull’organizzazione sociale dei Bororo, del 1956, Les organisation sociales existent-elles?, pubblicato in olandese in un volume di studi in omaggio a Josselin de Jong, e quindi in Anthropologie Structurale, materiali che confluiranno nel volume fotografico Saudades do Brasil del 1994. A questi testi vanno aggiunti una serie di contributi, in portoghese, pubblicati dalla Revista do Arquivo Municipal e dal Boletim de la Sociedade di Etnografia e Folclore di São Paulo, entrambe dirette da Mário de Andrade. Esito di lungo periodo, longue durée di una breve esperienza di campo, ma anche esito differito di materiali e temi, prodotto in contesti diversi e con strumenti diversi, verso occhi diversi. I film, come le fotografie, più di esse, sostanzialmente scompaiono per anni. Anche se le foto, gli scatti della seconda missione, utilizzate nella tesi di dottorato, saranno cruciali per la vita e le scelte di Lévi-Strauss, provocandone ancora un détour. Ulteriore. Non si ha traccia di una proiezione pubblica dei film a conclusione della prima spedizione, ma sorge il dubbio che possa esservi stata, vista l’edizione dei materiali con i titoli di testa in portoghese e l’indicazione della municipalità di São Paulo come produttore dell’evento. Intanto i film, come relitti, piccoli oggetti da cargo culto, riemergono negli anni ottanta, brevemente a Parigi, dove Lévi-Strauss si dichiara poco convinto della loro qualità. Riappaiono, parzialmente, e in forma di footage, come già anticipato, nel film del 1991 A propos des Tristes Tropiques; li si rintraccia poi in Sardegna nel 1994, dove tre titoli sono presentati nel Festival del cinema etnografico di Nuoro. Nel 2000, finalmente, sono oggetto di un’edizione e di una visione, integrale, in Brasile. Riappaiono quindi in Italia, in un piccolo e peculiare festival di cinema, nel 2005, a Ponza, dove riverberano un certo rumore mediatico, giusto lo spazio di un mattino, nella matrice cartacea delle piccole e distratte profezie quotidiane dei risvegli della postmodernità.

5.1.2. Table des matières, materia delle immagini Senza mai compiere il suo progetto, il bricoleur vi mette sempre qualcosa di sé.22

Sono quindi sei i film realizzati nel corso della spedizione 1935-36 dalla coppia Dreyfus Lévi-Strauss, in 16mm, allo stato attuale dei materiali, originariamente realizzati in 8mm, di durate diverse, dai tre ai dieci minuti. I cinque sopravvissuti sono editati, presentano titoli e cartelli, indicazioni dei luoghi di ripresa, attività, etnia. Taccuini visivi di campo, si potrebbe dire immediatamente. Sono tutti in bianco e nero, muti, depositati negli archivi della Cinemateca brasileira. I film sono schedati, e di alcuni, nel 2006, sono state ristampate nuove copie. Ai sei film se ne aggiunge un settimo, girato mesi dopo la conclusione della spedizione a São Paulo. Indicativo, nella data e nell’oggetto, di una pratica non così casuale da parte della coppia, come la posizione di Lévi-Strauss vuol fare intendere. Pratica contingente ma non così casuale. Come già la pratica stessa del réperage fotografico intrapresa a São Paulo, e i cui esiti cifrano comunque il lavoro etnologico dell’autore francese. Tre film sono girati tra i Bororo a Rio Vermelho nel dicembre del 1935. Due hanno per oggetto le cerimonie funerarie (ne sopravvive soltanto uno), l’altro la vita del villaggio. Nell’accostamento della missione ai Caduveo nell’avvicinamento a essi, viene girato un breve film in un’azienda agricola. Quindi, due ulteriori film realizzati tra i Caduveo, in un villaggio nella Serra Boduquena, tra la fine di dicembre, o più probabilmente all’inizio di gennaio del 1936. I cinque film hanno titoli semplicemente descrittivi, durate simili, tranne il film di ambientazione moderna, realizzato nella fazenda, di soli tre minuti complessivi. I due film, di ambientazione bororo, sono intitolati rispettivamente Cerimônias funeraes entre os índios Bororos e A vida de um aldeia Bororo, della durata rispettivamente di sette e otto minuti. I due film girati tra i Caduveo si intitolano semplicemente Aldeia de Nalike I e Aldeia de Nalike II, il primo di dieci minuti, il secondo di sei. Il quinto film girato nel corso della missione 1935-36, di tre minuti, ha per titolo O trabalho do gado no curral de uma fazenda do sul de Mato Grosso. Questa almeno la cronologia prodotta dalla Cinemateca brasileira, a partire dai materiali della Municipalità di São Paulo e della Società di etnografia e folklore diretta da Dina e Mário de Andrade. Ma il piano di viaggio della coppia nella spedizione etnografica si muove in senso inverso, dai Caduveo verso i Bororo, né risulta un ritorno presso i Caduveo al fine di reperire ulteriori materiali. Le distanze e la durata del viaggio fluviale smentiscono la cadenza suggerita e proposta dai documenti: il tempo minimo di viaggio, dal confine col Paraguay – Nalike – e l’area bororo – sul Rio Vermelho – era al tempo di non meno di dieci giorni, per risalire dall’acquitrino del Pantanal agli altipiani del Mato Grosso sino a Cuiaba, la capitale dello stato, e da lì per via fluviale, al villaggio. È quindi probabile che i film abbiano una cronologia inversa.

Esaminiamo quindi i film della spedizione del 1936, cercando intanto di descriverli. Cerimônias funeraes entre os índios Bororos ha inizio con un’inquadratura in campo lungo, quindi con un movimento di avvicinamento della macchina da presa di Lévi-Strauss al set field, il luogo del villaggio dove i nativi sono intenti alla costruzione del marid’do, un oggetto rituale di forma discoidale, ottenuto dall’intreccio di rami secchi e foglie di palma, la cui sezione sul bordo ha la forma e il disegno di una scala di corde (i dischi sono di grandezza diversa a seconda del genere del marid’do stesso: il marid’do maschile ha un diametro superiore al marid’do femminile e un’appellazione diversa). Uno sguardo in macchina restituisce parzialmente la percezione di un nativo della presenza estranea. Il field set viene, quindi, preparato per la cerimonia. La camera illustra lo spazio, lo perimetra attraverso due panoramiche, una da sinistra a destra, l’altra di senso opposto. La terra, dinanzi alla casa centrale maschile, battuta dagli uomini del villaggio, è resa praticabile alla danza cerimoniale. A questo punto un taglio di montaggio – o piuttosto un cambio di bobina – introduce, a stacco, alcune brevi scene di vita quotidiana accanto a un’abitazione del villaggio. A seguire il film ci restituisce la scena del trasporto del marid’do, che, issato sulle teste degli abitanti, è trasportato al centro della scena rituale. Alcune inquadrature, più strette, restituiscono la fase del trasporto. Subito dopo, in campo lungo, l’invocazione della divinità da parte dello sciamano, vestito in abiti rituali, l’offerta di doni propiziatori, l’uscita dalla casa comune maschile del bakororo – figura centrale del rituale, re sacerdote di uno dei tre regni in cui si divide il mondo dell’aldilà – e il corteo a seguire. A questo punto, con Lévi-Strauss, e grazie alle sue immagini, siamo nel cuore visivo dell’esperienza rituale, rito qui riassunto per accenni: i presenti inscenano il gioco del marid’do. Le riprese in campo lungo si alternano, nel montaggio, con dettagli della presa del marid’do stesso, con inquadrature più strette dei nativi nella scena rituale. C’è una completa assenza di primi piani; non ci sono inquadrature dei volti; ciò è dovuto probabilmente alla tensione sinottica del punto di vista dell’autore, alla volontà di un totale riassuntivo e oggettivamente descrittivo, come pure alle liminalità rituali consuete. Il secondo film, dedicato alle cerimonie funerarie, non è più in condizioni di essere ristampato. Quello che oggi vediamo, comunque, è una rappresentazione parziale della cerimonia cui la coppia assistette, come sempre accade nella convenzione cinematografica. Come accade nella forma del tempo testuale nella restituzione etnografica, tendenzialmente

sintetica. La durata della cerimonia è, infatti, superiore a un mese – da cui la natura eminentemente testuale dei reperti viene ulteriormente in evidenza e si offre a numerosi interrogativi. Quali sono le strategie di messa in scena, quale pensiero narrativo e di montaggio intravediamo in questi sette minuti di girato? Proviamo a descriverle: un piano visivo di localizzazione, la definizione di uno spazio, l’elezione di questo a luogo da parte dei nativi, il riconoscimento di esso, da parte di chi filma. La scelta di non produrre una grammatica dell’interdetto, ovvero la presenza, nel montaggio, dello sguardo in macchina come cifra di verità, di presenza restituita dinanzi alla camera – retorica elementare della presenza testimoniata dai primi film di oggetto etnografico. Ancora, più significativamente, la scelta di un montaggio, che per stacchi ed ellissi, produca il tempo della cerimonia, l’idea di durata (il rituale accade nel tempo, il movimento non risolve la durata, la pratica filmica produce l’intelligenza del movimento nel tempo). Il montaggio, infatti, non può non darsi, il montaggio produce, se orientato un valore di verità. La narratività elementare di questa scelta si fa, così, cornice. A meno di non intravedere, in questi film, un montaggio in macchina, o ipotizzare una perfetta coincidenza di azioni e situazioni con la durata delle bobine, frutto di una competenza profilmica. Le inquadrature in campo lungo sono poi una scelta di distanza e misura: costruzione attraverso la distanza sia della possibilità di un quadro più ampio, in senso geometrico, dell’azione, di un’intelligenza nello spazio dell’evento, sia di un rispetto teorico – letteralmente – dell’oggetto filmato, soprattutto di uno spazio rituale, sacro: la liminalità congiuntiva esaminata poi da Turner,23 qui declinata ulteriormente dalla distanza necessaria, ottica, intanto, etnica poi, la presenza dell’etnologo come alterità. Verità parziale in molti casi, significativa obbligazione visivo-religiosa – come poi in alcuni film di Rouch (vedi il ciclo del Sigui tra i Dogon a cavallo tra gli anni sessanta e settanta). Verità parziale, perché il montaggio restituisce alcuni tagli di riprese più ravvicinate, alcuni avvicinamenti che producono l’effetto di una fascia di rispetto nel filming, ma anche una probabile negoziazione tesa a realizzare la possibilità stessa della ripresa, e, in questa, un possibile accorciamento degli spazi. I film dell’antropologo visivo dilettante, dell’antropologo ai suoi esordi, in fieri comunque, rivelano l’anticipazione, involontaria forse, di una strategia di montaggio e di restituzione già più complessa dell’antropologia coeva, se pensiamo ai documentari cinematografici della spedizione di Fejos in Madagascar, degli stessi anni, o all’uso delle immagini e alle strategie di analisi e messa in scena della coppia Bateson-Mead a Bali. La coppia Dreyfus - Lévi-Strauss accosta, infatti, la soglia della rappresentazione moderna dell’oggetto etnologico, affronta, più coscientemente di quanto sembri, la criticità della pratica filmica come pratica complessa del vedere, e si attesta su una soglia di sperimentazione, mentre Fejos cerca puntelli nella sua pratica di cineasta classico convertito all’antropologia e Bateson sfida il doppio vincolo, del materiale e del montaggio, di ciò che vedi prima, nell’obiettivo, dopo nella stampa, e quindi nel montaggio come pratica di assicurazione di senso capace di orientare persino il non ancora visto, nelle riprese fotografiche come nelle riprese filmiche. Vale infatti, per Bateson- Mead, la nozione di montaggio, sia nella pratica di fotografia che in quella filmica, come ben dimostrano la stesura e la struttura di Balinese Character. La coppia Lévi-Strauss, invece, attraversa l’esperienza visiva dall’interno di una teoria che il montaggio afferma quasi inconsapevolmente, nell’arco di una scelta di non esaurire la scena come movimento, ma di oggettualizzarla come sistema di relazioni: atti nel tempo e nello spazio, narrazioni evidentemente asimmetriche – tra il derrière e il devant la

caméra – immagini di contatto dove restituire, nel racconto, la condizione di senso dell’azione, la condizione stessa della vista di quella azione. Se, infatti, il movimento temporale del film, la sua costruzione, ricorda il film del 1917 di Thomas Reisz sulle cerimonie funebri bororo, realizzato all’interno della missione Rondon,24 con un tempo dedicato alla preparazione del rito guidato dalla macchina da presa, con elementi profilmici a segnalarne la presenza, e il tempo della messa in scena del rituale, ovvero il tempo agito e guidato dalla macchina da presa, l’idea di conoscenza che qui si rileva è, diametralmente, opposta. Se Reisz costruisce la messa in scena del selvaggio, isolandolo spettacolarmente dal mondo, dalla relazione complessa con le missioni salesiane dell’etnia, ai cui bollettini si devono le prime puntuali descrizioni moderne della cultura dei Bororo, così come dal contatto con l’impresa di costruzione della linea telegrafica, che utilizzerà la manodopera indigena delle varie comunità indie nella penetrazione verso l’interno del Brasile, Lévi-Strauss e la moglie filmano, vedono, studiano nella prospettiva del salvage etnografico – la dimensione boasiana di Lévi-Strauss da lui esplicitata nello speech in occasione del bicentenario della nascita di Smithson (1965), fondatore dell’istituto che a lui deve ragioni e scopi. Essi filmano, infatti, nella semplicità della camera a mano, filmano nelle condizioni di una produzione di presenza sul terreno che nulla ha dell’ingombro e dello scopo di una missione militare come la missione Rondon, il cui esito filmico, storicamente interessante, ha lo scopo di una produzione di senso dell’altro come costruzione della differenza, come elemento di autenticità selvaggia. Il progresso si offre qui come il calcolo differenziale dell’altro, la modernità come integrale delle quantità, costruzione positiva e semplice della storia come evoluzione eventuale e necessaria. Il continuo, in senso geometrico, imporrebbe un’altra traduzione, un’altra mathesis come direbbe Serres, in termini epistemologici, e come, altrove, ha proposto Roy Wagner, e oggi Viveiros de Castro, nella riflessione poststrutturalista sulla epistemologia possibile del pensiero indigeno, e sulla sua rappresentabilità nelle forme del pensiero occidentale. Come, su altre posizioni, ha dimostrato Carlo Severi, interrogandosi sulla natura di un’arpa Zande, sulla sua classificazione in termini occidentali, sulla sua definizione oggettuale come sistema di relazioni nel suo ambito culturale. 25 Il film dei Lévi-Strauss, certo, non restituisce la complessità del rituale, la geografia del passaggio spaziale tra vita e morte, tra spazio del mondo dei vivi e spazio dei morti, così come non può restituire la durata e la natura dell’azione temporale dell’ingresso del defunto nel nuovo mondo. Il cerimoniale prevede, infatti, una prima sepoltura del cadavere, la riesumazione dello stesso a putrefazione avvenuta, la pulizia delle ossa, attività esclusivamente maschile, la raccolta di queste in una borsa di foglie intrecciate con trame simili a quelle dei dischi votivi – i marid’do – fattura questa femminile, a implicare quindi una struttura del gender nella relazione col mondo dell’aldilà. Questa impossibilità descrittiva è del tutto evidente. La durata stessa dei rituali rende impossibile un film che non sia un montaggio, un testo che non sia un montaggio: la realtà non è la presa diretta, o la registrazione.26 Resta invece, evidente, il relitto di un’ipotesi di pratica dei segni, che, insieme con gli altri film, si rivela una sorta di relitto dal futuro di un’antropologia visiva ancora da pensare, una pratica tracciata e smarrita, una pratica di crisi, risolta dalla scrittura. Al tempo stesso, un punto di crisi con la tradizione della spedizione etnografica francese, definito nel protocollo dell’Institut d’ethnologie, nel modello della spedizione collettiva e pluridisciplinare di Griaule, dove le tecniche di campo e le diverse competenze consentono idealmente di ricostruire la totalità dei fatti sociali. Modello dove il

cinema e la fotografia si vedono assegnati la funzione scientifica del record, e la dimensione divulgativa del racconto per immagini da destinare a giornali e riviste, accompagnato da testi descrittivi, fase intermedia della produzione visiva di dati nella logica del display, nella funzione pubblica del museo etnografico come laboratorio di idee e ricerca e pratica spettacolare di attrazione e seduzione scientifico emotiva di un pubblico colto o da educare al primitivo e al diverso. Grazie alle collezioni di oggetti etnici.27 Alla loro spettacolarizzazione. A vida de uma aldeia bororo, di otto minuti circa, racconta la vita del villaggio, o meglio: la racconta sinteticamente e per rappresentazioni esemplari. Montage, ancora una volta. Sintesi del visivo, sintesi visiva, la cui materialità è il prodotto di una tecnica. Tecnica come la scrittura. Su un supporto diverso. Che cosa ci presenta, infatti, il film? Ecco il totale del villaggio, la scena dell’accensione di un fuoco per sfregamento, come in Haddon, a Torres Straits, all’inizio del film; ma subito, a stacco, dettaglio delle dita, attenzione al movimento di queste, riconoscimento, nel movimento, della evidenza del gesto: misura di una rappresentazione che nel dettaglio trova la sua prima densità, nel totale la storia visiva – la visual history – dove produrre il senso esemplare del gesto. Quindi dettagli di fabbricazioni di cesti, corde intrecciate, attività di tessitura al telaio, attività femminili, una classica teoria di elementi della cultura materiale, nella forma di una sequenza. Ecco la scienza di oggetti concreti, immagini di oggetti e di attività che li realizzano: la vita materiale delle dita e delle mani al lavoro. Un totale del villaggio introduce quindi le attività maschili: il totale normativo come biforcazione del gender e della sua rappresentazione attraverso le attività. Ecco allora le scene di caccia con l’arco, le scene di pesca lungo il fiume in canoa. Totali di queste scene dell’attività maschile, scene che impegnano e configurano una spazialità altra. Infine, il villaggio: il ritorno degli uomini in canoa, la piccola inevitabile metafisica del nostos, mentre sul villaggio scende la sera. Panoramica da destra a sinistra, visione ampia del villaggio a segnalare la radialità, la pianta peculiare, oggetto poi delle complesse inferenze sulle strutture della parentela e sulla rappresentazione spaziale di questa nell’organizzazione sociale dei Bororo. Panoramica quindi, e infine conclusione, patemica e pittoresca: gli animali domestici salutano la luna, un tuffo naïf nel cuore della notte del villaggio, di una notte archeologica dal punto di vista di chi è esterno al villaggio e all’etnia. Mentre le attività femminili disegnano uno spazio sostanzialmente prossemico, spazio comunque la cui misura si dà in un intervallo di prossimità, di governo fisico semplice dello spazio, tuttavia complesso dal punto di vista corporeo e senso-motorio (l’atto cinestesico e visivo della tessitura ad esempio, la sua cadenza temporale), l’attività maschile, disegnando lo spazio della distanza, come dell’azione a distanza – la caccia con l’arco – si produce, è prodotta, come totalità cinematografica, come sarà poi coll’uso del grandangolo nelle restituzioni fotografiche. Sembra costituirsi, nel cinema etnologico, in vista della flagranza dell’oggetto, della sua arcaicità e proprietà temporale, una sorta di surdeteminazione involontaria, in nome della fedeltà mimetica, di uno sguardo e di un’ottica, in senso fisico, gender oriented: totali per gli spazi maschili, campi lunghi per i rituali e le attività dei maschi, piani stretti e dettagli per le attività femminili. In nome del vero, il corpo femminile diventa divisibile, si muove nella retorica della sineddoche, mentre il corpo-azione maschile si fa totalità plastica. Paradosso e necessità del cinema antropologico come pratica di attenzione al dettaglio e al movimento, da Régnault a Boas, a Leroi Gourhan, paradosso gender oriented, almeno in parte: perché non

compare allora il dettaglio di un arco nell’atto del tiro? Perché l’assenza di dettagli nelle riprese di corpi maschili, di insegne rituali maschili, nello sguardo etnografico delle origini? O piuttosto perché destinare il particolare al fotografico, come vedremo in alcune foto inedite di Lévi-Strauss? Certo, l’attenzione al dettaglio, l’eleganza formale degli atti di tessitura, come vedremo nei due film tra i Caduveo, della coppia Lévi-Strauss, resi grazie al montaggio in macchina sorprendono per la modernità, si producono in uno scarto linguistico e riscattano visivamente la corporeal image, l’omaggio alla tradizione di Régnault, alle tecniche del corpo di Mauss. Tuttavia la questione rimane viva e merita ancora attenzione e analisi. Nella scena di caccia, infatti, un taglio di inquadratura si ferma sull’arco come oggetto, lo restituisce nella sua oggettualità, lo musealizza, mentre il gesto del tiro viene a mancare. L’altro maschile e femminile impongono o propongono grammatiche diverse della confidenza e dell’accostamento. Tra totale e dettaglio, la retorica della rappresentazione si mette in scena e in scacco, sopratutto la retorica della rappresentazione antropologica. La natura per lo più metonimica, la struttura di catena metonimica di queste pratiche visive che chiamiamo filmiche, produce in parte questo scacco. Il film, evidentemente, non può rappresentare il mondo, ma la sua marca semiotico-narrativa, la mimesis, come l’evidenza del montaggio stesso, mettono in gioco la possibilità della rappresentazione esaustiva, linearizzante e ipostatizzante propria della etnografia classica, la potenza di una certezza tipografica e grafica proprie delle monografie classiche. Di quei tool come cartine, testo, che come indici di localizzazione definiscono il terreno. Da cui prende le mosse l’antropologia fisica, e quindi culturale, a evidenziare la capacità apparente della scrittura di far fronte all’emergenza, dalle misure del mondo smisurato, ma contenibile, delle culture, fino al trascorrere dal mondo metrico dell’antropologia fisico-positivista all’universo linguistico o rituale dell’antropologia sociale nei suoi diversi indirizzi e scuole. Mentre le monografie tradizionali producono, infatti, un ordine grafico e tipografico del mondo, i film restituiscono un presente situato e al tempo stesso reinventato, mettono in scena, letteralmente, la negoziazione col reale tipica del lavoro antropologico, la sua evidente e necessaria approssimazione, facendo del presente etnografico il passato istantaneo della ripresa, convocando il mondo etnografico nel presente continuo del montaggio. Per riproporre, nel film, nel suo linguaggio, un tema classico della fotografia antropologica, il ritocco come assicurazione del presente etnografico. In un ordine diverso di segni. E situazioni. Configurando così, nella forma-film, una diversa negoziazione con l’evento e una diversa restituzione del dato, una diversa e più visibile allocronia. I due film girati tra i Caduveo risalgono, secondo i documenti reperiti, al gennaio del 1936, ma, come proposto, la datazione va probabilmente anticipata al 1935. Entrambi recano lo stesso titolo, titolo semplicemente indicativo, denotativo: Il villaggio di Nalike I e Il villaggio di Nalike II. L’incipit del primo dei due produce subito la nostra attenzione e rinnova l’interrogativo sulla dichiarata casualità da parte dell’autore di questi materiali, di questo esperimento filmico, leggibile, forse, come esperienza. Siamo dinanzi a un totale della vegetazione, totale ripetuto due volte, in un montaggio per rafforzamento, invece che per durata, nell’espediente retorico-visivo di un raddoppiamento dell’immagine. I Lévi-Strauss sperimentano il cinema, accostano una pratica di narrazione per immagini. Claude LéviStrauss sperimenta questa pratica nella ripresa. Ecco una soggettiva a cavallo: vediamo, nell’inquadratura che sussulta, il movimento al passo di un animale da cui Lévi-Strauss filma frontalmente l’obiettivo verso il villaggio. A seguire una panoramica che va oltre i 180 gradi, che trascende la grammatica intuitiva della rappresentazione frontale, l’abitudine storica a

questa. Nell’inquadratura ecco una figura: è un bianco. Mondo già ibridato, come vedremo, ulteriormente, dopo pochi istanti. Animali domestici dinanzi a una casa collettiva. Una festa per la pubertà. Un totale dello spazio. Una donna danza, dapprima in campo lungo. La danza è già nei movimenti una danza spuria, segnata da elementi di cultura bianca. Dettagli della danza. Primo piano dei piedi. Primo piano di una donna. Quindi un primissimo piano: gli occhi. Altre donne danzano. La camera a mano di Lévi-Strauss è troppo prossima, fuori fuoco, in una frizione di immagine e definizione: i corpi sono a contatto visivo, troppo a contatto per l’obiettivo. Differenza di prossimità tra ciclopia ottica e stereoscopia umana, tra messa a fuoco in movimento e messa a fuoco del movimento. La danza impatta e guida, trascinandoci fuori dalla rappresentazione, perché la visione ottica accede fin troppo all’interno della scena. Il corpo di Lévi-Strauss si avvicina per vedere; ma la protesi chiede una messa a distanza. Il fuoco. E, allora, ecco la temporanea salvezza, la fuga nel senso nucleare dell’inquadratura, non nel senso del montaggio, o della narrazione, ma nel cadrage: l’inquadratura di un telaio. Una pratica di tessitura. Un’azione come condizione di senso nel movimento. Il movimento rimesso a fuoco. Ritratto in un doppio movimento di macchina. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Come all’inizio, quando la panoramica era il villaggio e la sua vegetazione. Ripresa del motivo iniziale, come nella scelta musicale di un leitmotiv. Dopo la complessità impressionistica, l’armonia impressionistica della tessitura. Il montaggio a stacco produce uno stato discreto; la continuità del movimento di danza soffoca in impressione visiva: risoluzione dell’ottica – il fuori fuoco – nell’estetica: montaggio per convenienza e simpatia, nel senso delle archeologie di Foucault in Le parole e le cose, ma anche di una prassi intuitiva e tradizionale della rappresentazione del corpo coreutico: movimento dei piedi, movimento della mdp, movimento delle dita, ancora un movimento di camera. Il fuoco – il focus – produce così la rappresentazione perspicua, mentre il gioco delle similitudini suggerisce la metafora e orienta, in forma narrativa, la metonimia. Così i gesti e il racconto dei gesti, come per Boas e Bateson, pensati nel segno delle forme, si presentano qui nella forma-cinema, apertura intravista nel racconto. Ancora una volta siamo sorpresi: perché l’evidenza della sperimentazione, perché la scelta di chiudere il film nella via del fuori fuoco, appena risolta dalla galleggiante inquadratura della tessitura, immagine a se stante, sensata ma irrelata? Perché l’evidenza del montaggio, la scrittura filmica, la scena rintracciata, frammentata e montata da uno sguardo quasi cubista, come nell’enfasi di dettagli di occhi? Lévi-Strauss non è Man Ray, evidentemente. E, tuttavia, siamo qui sulla soglia di una crisi della rappresentazione. Come mostra la presenza del primo piano, la potenza dei volti che fanno la loro comparsa in scena, l’inquadratura del primo piano dell’altro, sino allo scarto connotativo prodotto dal dispositivo iperdenotativo: il primissimo piano degli occhi. Come poi, su un piano di oggetti e contenuti, la presenza bianca, nel film, mette in scacco l’ipotesi di salvage: l’ibridazione è dinanzi agli occhi, impressa sulla pellicola. Come, infine, mostra il materiale usato come footage nel film A propos de Tristes Tropiques dove, a differenza dei film ristampati dalla Cineteca brasiliana, un’inquadratura rivela, sotto la stessa tenda, Lévi-Strauss e, poco dietro, la moglie Dina Dreyfus, mentre negozia un disegno con una donna caduveo, quella stessa donna il cui volto dipinto ritroveremo in Tristi tropici e in Saudades do Brasil. Il materiale, segnalato da una scritta sovraimpressa come proveniente dall’archivio di Lévi-Strauss, mette in scena l’antropologo e l’antropologa al lavoro. Scena riflessiva del terreno, messa in forma e registrazione del lavoro etnografico. Ancora: un’altra breve inquadratura presenta, in questo

lacerto, Lévi-Strauss nel villaggio, deambulante. Si tratta di un’altra edizione, oppure della prima versione dello stesso film? Chi della spedizione, in quell’istante, era dietro la macchina da presa? Quale intenzionalità segnalano queste immagini? A quale progetto di senso e di restituzione del lavoro di terreno alludono? Segnano un profilmico che trasforma Lévi-Strauss in un regista? O sono immagini rubate e casuali? Filmate certo da uno dei membri della spedizione, ma senza riferimento a una volontà dell’etnologo francese, a una decisione maturata nel segno di una messa in posa? Evidentemente queste immagini appartengono o originano da altro materiale, altri relics, che di volta in volta riappaiono, come una matrice mutante che genera domande diverse. Il mondo caduveo era la testimonianza chiara, agli occhi di Lévi-Strauss, di un primitivo ormai ibridato e povero, sempre più inattingibile, attraverso le forme e gli strumenti dell’antropologia sociale. Al tempo stesso quel primitivo, attraverso i tatuaggi dipinti già studiati da Guido Boggiani,28 manifestava una profonda concezione del mondo, declinata dai volti femminili, memoria culturale incarnata nel disegno, surplus di bellezza tale da suscitare la necessità di una riflessione estetica sull’arcaico e il primitivo, da ispirare alcune delle pagine più importanti sulle arti primitive scritte dall’etnologo francese. Nel viaggio etnografico la cui forma originaria era quella di una spedizione plurale, com’è bene ricordare, e di cui Tristi tropici restituisce la tonalità emotiva e culturale nella forma di una saudade monologica, la modernità brasiliana si insinuava costantemente. La breve spedizione del 1935 è tracciata e segnata da queste coordinate, anche se l’etnologo francese, pur essendone consapevole, cercherà di eluderne la presenza nella restituzione per immagini del terreno, nelle fotografie innanzitutto. Lévi-Strauss, nel suo lavoro di campo del 1935, avanzava all’interno del Brasile lasciandosi momentaneamente alle spalle la modernità paulista; dinanzi a lui si presentavano altre forme del tempo, altri tempi dello spazio come delle culture, pratiche della materialità e del simbolico coesistenti a poche centinaia di chilometri, nello spazio, e distanti molte centinaia di anni, nel tempo. Situate a pochi giorni di cavallo o di automobile, nel tempo dell’antropologo viaggiatore. Tra allocronie e anacronismi, time capsule e cronotopi speciali di mondi ibridi. La macchina visiva metterà così in scena il tempo: non un tempo condiviso, partecipato, tra etnografi e popolazioni native, ma il tempo che accade e assume la forma di vite di indigeni e pionieri, missionari e militari, emigranti e antropologi, un multiverso temporale, dove la storia non historifiable comincia a emergere, come già nelle ricerche di Boas e Kroeber, Lowie e Cushing, Goddard, tra nord e sud degli Stati Uniti, tra Kwakiutl e Zuni, Hopi e Inuit. Lévi-Strauss, in Brasile, lavora in una zona di contatto speciale, una faglia temporale tra il moderno e il primitivo, dove piattaforme di tempi e mondi sono in ripetuta frizione da più di quattrocento anni, dove i popoli dell’interno sono una mobile enclave del tempo plurale dei primitivi. Il secondo film sui Caduveo, di circa dieci minuti, è il materiale filmico più lungo realizzato dalla coppia Lévi-Strauss. Il villaggio di Nalike II riparte da una pratica cinestetica complessa, un agire abile, dove tatto e vista si sfidano nella pratica della ripetizione, la preparazione delle fibre di caraguatà per fabbricare corde, corde usate, poi, per confezionare una rete. Le inquadrature mettono a fuoco la strutture dei nodi. Le dita si muovono sapienti come su uno strumento musicale. Il film suggerisce il prima degli oggetti, descrive un agire orientato, mette in scena l’idea del vivo come azione, come pratica della comunità, nella messa in atto di un sapere che nell’oggetto ritrova l’astrazione e il concreto. Ma ecco il montaggio. Dalle

corde, dalla formalità dei nodi, dalla tessitura del cotone, si passa al disegno femminile di motivi geometrici, alla matrice di disegni facciali complessi, cui segue il trucco sui volti femminili fatto di disegni, ornamenti. Un’inquadratura stretta di un’adolescente anticipa un primo piano, per poi accostarsi ancora allo stesso volto: lei adesso è distesa. Cesti intrecciati e tessiture presso i Bororo; pratica e idea della tessitura; fabbricazione di corde e poi reti; ornamenti geometrici del volto, sulla matrice di disegni realizzati su foglie: sembra disegnarsi, in questa successione, una pratica femminile della geometria o un agire visivo in forme geometrizzanti, che si produce in tre dimensioni, tessitura, intrecci di corde, e in due dimensioni viaggia verso l’astratto: il trucco dove letteralmente viene in luce il concetto di persona dei Caduveo. Estetica qui come geometria: pensiero selvaggio del lusso, del surplus, del bello, e del dono: tempo del disegno donato e trasmesso da donna a donna, da donne a bambini di entrambi i sessi. Un’ellissi ci porta così sulla scena della conoscenza e della similitudine, della formalità, dell’estetica delle forme: scelta di un crescendo che dal dettaglio delle mani che intrecciano fibra per far corde giunge al disegno geometrico del trucco sul volto, per toccare, nel primo piano, il dettaglio, recuperando poi il volto al corpo; il sensibile si fa tangibile, la prossimità è la via della sensualità. Immagine affezione direbbe Deleuze, o semplice potenza del volto, mitologia del volto umano nel senso di Barthes, quando scriveva, in Miti d’oggi, della Garbo come idea essenziale della bellezza, prima che declinazione esistenziale della bellezza stessa attraverso il cinema. Scena del volto quindi, scrittura sempre più prossima al cinema, in viaggio verso la passione, come metafora di questa, e quindi, con Rousseau, all’alba del linguaggio. Volto tatuato come memoria profonda di una concezione del mondo, volto che genererà la necessità di una riflessione etno-estetica profonda,29 e che impone al film una forma di estetica diversa, una aistesis per immagini nella modalità del primo piano, dove disegno e volto, sapere e intensità inevitabilmente si embricano, producendo, attraverso le inquadrature il pathos come elemento singolare: sguardo e disegno geometrico si presentano come un unicum. Il mondo incarnato caduveo sopravvive nel primo piano e nello sguardo in macchina di una donna caduveo che, come sappiamo da diversi passaggi di Lévi-Strauss, chiedeva una ricompensa sia per i disegni sia per le foto. Negoziava l’accesso al suo sapere, così come al suo volto. Nella sperimentazione della pratica filmica la coppia Dreyfus - Lévi-Strauss attraversa, di fatto, la scienza per accostarsi al senso, per accoglierne la prospettiva attraverso la forma narrativa. La soglia delle immagini introduce ad altre immagini, al rischio delle passioni come cornici di senso e di verità; nella sperimentazione delle immagini dei due film caduveo, Lévi-Strauss si avvicina al cinema, alla sua idea del cinema, per distaccarsene, intimorito. La bellezza complessa dei tatuaggi, la necessità dei volti e dei primi piani, espone il film etnologico al rischio intenso del patemico, disponendo lo sguardo occidentale verso il make up; irretisce il record in una trappola complessa di significanti, nella rete dell’impressione estetica, così come costringe l’etnologo in una relazione visiva necessaria di liminalità personale piuttosto che pubblica o rituale. Lo sguardo etnografico si trova a scegliere tra la composizione dell’inquadratura e la fedeltà visiva ipotetica alla neutralità dell’osservazione. Quando il tempo delle antropometrie volge alle spalle, così come quello della fotogrammatica delle misure, come si può pensare ancora di oggettivare un volto? Lévi-Strauss, nell’approntare la spedizione era stato informato della tradizionale diffidenza e resistenza degli indios amerindi alla presa di misure. Nel segno della tradizione, da etnologo ancora in formazione e ossequioso al canone francese, aveva tentato,

senza esiti, la via antropometrica. Prima delle strutture, le misure sembravano ancora possibili sulla via della scienza del concreto. I film e le foto, repertorio ufficiale e programmatico di tool di indagine, già dall’edizione di Notes and queries del 1912, così come dalle pratiche di Griaule, suscitavano piuttosto un orizzonte diverso di esiti e memorie; il loro uso suggeriva una tensione euristica nuova, l’emergenza di una dimensione narrativa da cui il discorso antropologico, in generale, e Lévi-Strauss soprattutto, scartavano. O piuttosto, in senso disciplinare, tra record e terreno, tra cogenza delle riprese e processo di organizzazione dei dati visivi, l’etnografia sembrava fare un passo indietro, timorosa di dover agire da una collocazione mobile nello spazio tra spettacolo e registrazione di fatti. Nel flou tra grammatiche e tecniche, forme di vita e forme di intenzionalità, nell’insidia dei metodi di pubblicizzazione degli oggetti di ricerca: riti, culture, società, esseri umani viventi. I due film restanti, O trabalho do gado no curral de uma fazenda do sul de Mato Grosso e Festa do divino Espirito Santo, sono due oggetti diversamente interessanti, in questa produzione brasiliana della coppia Dreyfus - Lévi-Strauss. Il primo appartiene temporalmente alla sequenza dei film della spedizione etnografica 1935-36, realizzato nel viaggio di spostamento dal villaggio bororo sul Rio Vermelho al villaggio caduveo di Nalike; è brevissimo, tre minuti, il materiale più breve tra i film realizzati. Poche inquadrature, prevalentemente totali. Una fazenda bianca, l’immagine delle bestie scortate nel recinto, dettagli. Nella sua forma semplice, linguisticamente quasi rozza, il film dovrebbe tacere, oggetto quasi muto. Ma è il progetto che pone qualche interrogativo: perché filmare un oggetto non etnografico, un’azienda di allevamento? Perché sprecare occhio e pensieri, a detta di Lévi-Strauss, per un quasi nulla? Forse la questione è mal posta. Forse il sociologo francese, professore a São Paulo, vede intorno a sé, appunto, la traccia di una diversa articolazione del tempo, di differenti costruzioni e rappresentazioni sociali del tempo. La città, nella sua forma metropolitana convive con le antiche etnie amerindie lontane, o relativamente tali, ospita emigranti di provenienze diverse, come i giapponesi di Tristi tropici, o gli italiani arricchiti. Lévi-Strauss osserva questi pionieri nel mondo intermedio, nello spazio e nel tempo, tra l’interno del Brasile, sempre meno primitivo, e la costa della realtà urbana, legge São Paulo come vero incubatore di eventi, macchina sincronica complessa in cui l’avvenire sembra assumere la forma del nuovo, dove l’orizzonte temporale si radica nella verticalità dei grattacieli e nella velocità orizzontale di automobili e mezzi di trasporto. Il senso del Brasile, appunto negli anni trenta, la città metropoli come variante sperimentale moderna della storia dell’abitare umano e la sopravvivenza di culture ed etnie complesse e lontane nel tempo, i contatti tra questi mondi, la geologia simbolica e materiale di queste piattaforme in frizione l’una sull’altra, destinate a scivolare e terremotare i più deboli, a ibridarsi certo, come a produrre nuove differenze. Festa do divino Espirito Santo, sette minuti, girato a São Paulo in maggio al ritorno dalla missione in Mato Grosso è un esempio di film folklorico, probabilmente più vicino agli interessi di de Andrade. Eppure, anche qui, vi sono elementi che inducono a ritornare sulla rimozione, da parte del decano dell’antropologia francese, di questo passato da etnologo e dilettante filmmaker. Il film è datato maggio 1936, quindi successivo all’esperienza di campo della coppia. Anche l’oggetto del film, il folklore, sembra lontano dagli interessi di entrambi, anche se un’analisi più attenta del materiale rivela ancora una volta come l’oggetto sia non

soltanto la condizione di un esercizio ma forse ancora la possibilità per entrambi di interrogarsi sul paese che li accoglie. Girato nel sobborgo di Mogi das Creuzes, il film racconta la festa religiosa cattolica concentrandosi sulle danze della stessa, il mocambique, la cavahlada, la congada. I danzatori sono filmati in uno spazio che si rivela essere un campo di calcio, e nulla è fatto qui per neutralizzare il set paradossale. L’attenzione è rivolta ai danzatori nella danza, da cui inquadrature dei momenti coreografici, delle figure, dettagli, e iscrizione classica del movimento come indice di senso del rituale – la cinetica come restituzione, nel film, della verità della scena rituale. Ma anche, e questo è oggetto d’interesse, attenzione come filming ai presenti, al pubblico come osservatore partecipante del rito, come pratica e parte del rito attraverso la presenza, la subjunctive liminality in seguito analizzata da Turner e Schechner,30 filmicamente diagnosticata e analizzata da Bateson-Mead, a Bali, lì risolta nella forma del contatto con artisti e autorità religiose e di villaggio… Ecco quindi, nel film, danzatori in abiti rituali che inscenano danze con spade e bastoni, verifica di nuovi tagli di ripresa, come nella scena della processione, nella parte più evidentemente religiosa della festa: ripresa laterale della stessa e poi panoramica a 45 gradi verso i volti che avanzano incrociando la camera. Sia il montaggio che il girato, le inquadrature, non sembrano dichiarare casuale questa pratica e non sembrano manifestarsi come gli esiti ultimi e conclusivi di un progetto. Questo, tuttavia, è l’ultimo film firmato dalla coppia Dreyfus Lévi-Strauss, nel progetto di una firma comune, così come nel segno della forma delle immagini-movimento.

5.1.3. Table des matières: di alcune parole di Dina Dreyfus LéviStrauss al tempo delle immagini-movimento La pellicola standard è naturalmente preferibile a qualunque altra, ma a causa del suo costo, se possibile, è da usare soltanto da professionisti. L’etnografo, utilizzando la pellicola 16mm, può realizzare scene e inquadrature di qualità tecnica e documentaria più che soddisfacenti. Quando possibile utilizzerà un apparecchio con un apertura sino a 1,5. Un’apertura sino a 3,5, sufficiente per la fotografia, non consente di filmare gli interni, perché il tempo di esposizione è fisso nella maggior parte degli apparecchi amatoriali. Per questo motivo, essendo necessario l’uso di velocità rapide per consentire l’analisi dei movimenti, è quindi necessario procurarsi, ove possibile, una cinepresa capace di lavorare a velocità diverse. Infine è auspicabile poter filmare da vicino – sessanta, ottanta centimetri, per ottenere documenti affidabili da usare nello studio delle tecniche – filmare le mani di una tessitrice, di un ceramista. È più facile filmare che fotografare, perché di regola si lavora con un’esposizione fissa. Bisogna soltanto assumere alcune precauzioni: una scena non può durare meno di dieci secondi, evitare che la macchina tremi nelle panoramiche, non eseguire movimenti troppo veloci dinanzi ai soggetti.31 Questo testo firmato Dina Lévi-Strauss è tratto da un manuale di etnografia da lei

pubblicato nel 1936, il cui frontespizio ci informa del titolo (Instruções praticas para pesquisas de Antropologia fisica e cultural), dell’autrice, qui con il nome da sposata, della sua posizione accademica (agregée de l’Université de Paris), dell’editore (la collana Coleçaõ do Departamento municipal de cultura – São Paulo, alla cui direzione troviamo in quegli anni lo scrittore Mário de Andrade). Una prima osservazione: questo è il primo manuale di etnografia pubblicato dall’area francofona; il manuale di Mauss verrà pubblicato nel 1947, come esito delle lezioni e delle istruzioni per il lavoro di campo che dal 1925 al 1940 erano state oggetto delle sue lezioni presso l’Institut d’ethnologie; il manuale di Griaule vede la stampa nel 1957. Entrambi sono pubblicati dopo la morte degli autori. Dina Lévi-Strauss ha seguito le lezioni di Mauss ed è stata assistente di Rivet; il suo manuale rispecchia gli orientamenti della ricerca francese del tempo e gli indirizzi di approccio nella ricerca di terrain. Il manuale è frutto sia del corso di Dina presso il Dipartimento municipale di cultura, sia del lavoro di progetto e sviluppo della Società di etnografia e folklore che co-dirige insieme a de Andrade. L’antropologo di campo, nel 1935, è, appunto, la moglie del futuro fondatore dell’antropologia strutturale. È Dina a costruire la scheda standard per la missione di campo, è soprattutto lei a organizzare il lavoro delle fiche, redatte insieme col marito, per la classificazione e identificazione degli oggetti etnici che saranno il cuore della mostra parigina del 1937, a cura di entrambi, e che consentirà il finanziamento del ritorno sul campo alla fine dello stesso anno. Il manuale è qualcosa di più che un classico manuale degli anni trenta. Al di là della forte attenzione all’antropologia fisica, il testo esplicita una complessa problematizzazione dell’alterità nella relazione di campo con i nativi, e una definizione, in chiave linguistica, della relazione con l’altro come superamento delle posizioni sia di Bergson che della psicologia positivista, articolando una critica delle posizioni di Lévy-Bruhl sulla mentalità primitiva, e di Piaget sul problema della credenza. Ma ciò che qui interessa è lo spazio dedicato alla fotografia come al film di carattere etnografico, di cui la nota rende esplicita la posizione. Le scelte tecniche sono chiare: il 16mm, per la sua semplicità di uso, costo e qualità potenziale; la possibilità di lavorare con macchine a più velocità variabili, da cui la centralità del movimento, il cuore cinetico del reale e del film come analogon di esso, progetto scientifico nella tradizione di francese di Marey e Régnault, qui riallocata nell’esperienza di campo invece che nel laboratorio; la scelta di semplificare le ottiche e lavorare con obiettivi fissi – da cui l’apparente boutade che “é mas facil cinematografar que fotografar, pois em regra o trabalho se faz com exposiçao fixa”, quando entrambe le pratiche presentano evidentemente altre difficoltà; meglio al di qua delle tecniche, la ridefinizione dell’abitudine a pensare visivamente la realtà, nell’idea parziale e contingente di riprodurla, o addirittura di produrla come prova. Più interessanti risultano poi le istruzioni sull’uso formale della camera, sul progetto di rappresentazione sotteso alle pratiche di restituzione filmiche: la durata dell’inquadratura soprattutto mai inferiore a dieci secondi, la necessità di panoramiche ampie e sicure della scena. Totale e durata. Nel totale, infatti, si ricostituisce la rappresentazione convenzionale del noi filmico; nel totale si costituisce, storicamente e grammaticalmente, il frame dell’oggettivazione e della distanza, che nella panoramica trova l’adesione al movimento – ciò che accade e modifica lo spazio in cui agiamo filmando e vedendo – oppure la possibilità di riconfigurare lo spazio in cui l’evento accade, per costruire nell’intorno topologico la condizione di senso, la rappresentazione perspicua: teoria della cornice. L’io non scompare evidentemente, ma si assicura una polizza di credibilità: la soggettività si risolve nel punto di

vista di chi guarda ed è risolta dalla cornice. La durata è una questione forse più complessa, la durata attiene alla percezione, ma soprattutto al montaggio. Lì è esitata, lì conviene come rappresentazione, allusione, trucco: la durata minima è una sorta d’iscrizione dell’immagine nel campo della verità, attraverso la durata. L’etica della verità è così avvicinata dal montaggio: i dieci secondi come morfema cinematografico, unità minima di senso. Ma se leggiamo queste raccomandazioni alla luce dei film firmati da entrambi, il piano della teoria – o delle istruzioni per l’uso della pratica e della teoria stessa, teoria come pratica del vedere dove la scelta tecnica coincide con un progetto di completezza del lavoro di terrain – se, come dicevamo, ritorniamo ai film, ecco che osserviamo che la durata è spesso contraddetta nel montaggio, che le panoramiche, raddoppiate e riproposte come intensificazione retorica, disegnano una strategia di narrazione dove la pratica dei segni propria del filmare, emerge come evidence, prova del soggetto che guarda, della tensione alla risoluzione sintattica e narrativa del senso. Al di là delle competenze grammaticali o sintattiche, i film si mostrano, infatti, come soglie di una produzione di senso dove la rappresentazione si presenta come sfida, e dove la pratica visiva suggerisce e provoca cortocircuiti narrativi, associazioni visive, ricostruzioni visuali del senso. Film come bisogno di teoria. Di una teoria che, nella pratica visiva, si trova sfidata dalla natura ri-mediata dalla tecnica, il cui esito produce, pochi anni dopo, la confessione di Bateson, sull’inconscio fotografico come conseguenza del lavoro intensivo e seriale a Bali – inconscio da ripensare sulle stampe –, o la dichiarazione di Lévi-Strauss, intervistato da Libération, in occasione del ritrovamento dei film negli anni ottanta: “Filmare assorbiva tutta la mia energia, e quando filmavo smettevo di guardare. Ho fatto solo spezzoni di film che ho lasciato in Brasile”. Dichiarazione più interessante, e più ricca di verità, forse, almeno nella prima parte della proposizione. Ambigua nello sviluppo, lontana dalla verità parziale e contingente: i film non sono spezzoni, ma documenti editati, anche se magari non risolti pienamente come forma, come montaggio. Dichiarazione, comunque, non priva di verità persino in questa sua evidente contraddizione. Di una verità che, come vedremo, attiene all’idea della forma come norma in Lévi-Strauss, della forma filmica come economia testuale spettacolare. Nell’incertezza che l’edizione comunque suggerisce, edizione da ascrivere probabilmente a Dina, almeno parzialmente, e da contestualizzare ulteriormente non solo alla luce di ricerche d’archivio ulteriori, ma anche alla luce del materiale dell’archivio dell’etnologo usato nel film intervista su Tristi tropici, girato nel 1991 da Beaurenaut, Bodanzky e Menget. Tuttavia, ritornando alla prima parte della dichiarazione, ecco che riemerge la questione di una pratica del vedere che riconosce la peculiarità e la novità impellente e cogente del vedere con la macchina da presa, di un vedere che obbliga lo sguardo a un esercizio diverso, tra ciclopia tecnica, limiti e proprietà del mezzo, lavoro di pre-visione e capacità di analisi dell’evento reale e della possibilità di produrlo e riprodurlo nella logica ottica per ritrovarlo nel montaggio. Il montaggio in macchina di alcune scene di tessitura nei due film tra i Caduveo, mostra questa possibilità, mostra che Lévi-Strauss era più consapevole della pratica visiva di quanto dichiarato nel tempo. Questa pratica, tuttavia, gli imponeva di ripensare se stesso e l’idea di controllo situato dei dati, come di restituzione differita. Imponeva sia una rischiosa scelta gnoseologica sia un’avventurosa dislocazione estetica dell’antropologo francese, estetica nel senso classico come nell’accezione moderna. Il testo di Dina Dreyfus, pubblicato al ritorno dall’esperienza di campo, produceva sì le ragioni di una premessa – della possibilità di

utilizzare il film come strumento di campo – ma anche le ragioni di uno scarto e di un ripensamento a partire dall’esperienza, dalla sfida che la prassi aveva portato alla teoria, dall’aver pensato per immagini in forma ancora grezza ma già incredibilmente moderna l’oggetto antropologico, la sua costruzione, l’avventura visuale di costruzione dello stesso. Le copie abbandonate in Brasile come relitti, partecipavano ignote e ignorate di un futuro della forma etnologica, frammenti di un’etnografia visiva moderna, di un’etnografia visiva nella polvere della modernità. Del montaggio come messa in scena della incertezza del punto di vista, ma, soprattutto, del montaggio in macchina come presupposto teorico ed estetico del cinéma direct i due e antropologi, cineasti dilettanti, seppur di talento, avevano toccato alcuni dei bordi della visibilità etnografica. Il campo di Griaule, come ottica plurale degli osservatori, come scena geometrica e trigonometrica della realtà, terrain comunque non restituito dai suoi film, di impianto assolutamente tradizionale, era qui sfidato dalla soggettività delle rappresentazioni. Differenze e sincronie. Storie di messa a fuoco.

5.1.4. Table des matières: l’oggetto-sguardo, Paris 1937 L’oggetto è, in molti casi, la prova del fatto sociale: una classificazione di incantesimi è uno dei modi migliori per sviluppare la classificazione dei riti.32 Dal 21 gennaio del 1937 al 3 febbraio del 1937, alla galleria de La Gazette des Beaux Arts, ottantaquattro oggetti di natura etnografica danno forma alla mostra “Mission du Matto Grosso”. Ottantaquattro oggetti, la cui memoria si fissa nella descrizione tipologica delle fiche a firma di entrambi, e conservate nei materiali manoscritti del Musée du quai Branly, si forma come senso e narrazione nella breve guida di accompagnamento, pubblicata in occasione della mostra. Non ci sono fotografie. Ad eccezione di una foto di un indio bororo, in primo piano, sul frontespizio del catalogo. Di quest’uomo, di questo ritratto, non sappiamo ancora nulla. Ma questa stessa foto ricomparirà nel 1994, cinquantasette anni dopo, riprodotta due volte, in Saudades do Brasil, in due tagli di stampa diversi: lì l’immagine troverà, nel commento, il profilo della sua identità, la memoria di quella identità. Qui, intanto, l’indio bororo è già un’identità in quanto immagine dell’altro sul frontespizio di un catalogo. Fotopromozione di una ricezione possibile. Il capo è adornato di piume, il volto è dipinto, il naso attraversato da un bastoncino ornamentale, un osso piumato. Una simile decorazione, un’insegna, trapassa il labbro inferiore, mentre un bastoncino pende verso il basso. L’indio guarda fisso e spavaldo in macchina. L’espressione produce l’apparire di un’attenzione, l’attenzione di uno sguardo da lontano, la forma di una domanda, la dignità di un’alterità, ma anche, nei parametri, l’evidenza di una estraneità. È il frontespizio di una guida. L’immagine ci chiama, reclama attenzione a sua volta. L’indio è una réclame.33 Il testo di introduzione accompagna il visitatore, lo introduce al mondo dei nativi del Mato Grosso, istituisce una storia di essi e di quei luoghi; cita Boggiani, il pittore fotografo italiano della fine dell’Ottocento, il cui ritratto di donna caduveo dal viso istoriato di disegni ornamentali e le cui tavole di disegni troveremo nella prima edizione di Tristi tropici e in Antropologia Strutturale. Il testo, poi, richiama e illustra la missione Rondon, come pratica e tentativo di una politica di coesistenza pacifica tra modernità e tempo primitivo; cita le malattie come forma subdola del contatto e della scomparsa di molte tribù. Illustra il

paradosso del concetto di riserva, la frizione mortale di uno spazio finito e di società primitive di cacciatori raccoglitori. Infine, riconosce la scomparsa progressiva di queste culture e la loro dimensione preziosa per la conoscenza etnografica: le collezioni di oggetti sono una forma comune e consueta, ma necessaria ed eticamente corretta, di salvage. La scienza del concreto materializza i suoi oggetti di studio, materializza le comunità attraverso le attività di queste, attraverso la matrice materiale dell’agire e del vivere. Memoria e materia della pratica etnografica, gli oggetti formano un mondo rappresentabile e presentabile. Essi associano lo spazio e il tempo, configurano, nella forma visivamente palpabile, l’idea di field e di viaggi etnografici. Epifania concreta degli hard social data – lingua, culture, strutture sociali – sono, di fatto, domande inespresse per risposte eluse e differite, risolte nel teatro anatomico della conoscenza per distinzione e separazione, pienamente disembedded dai luoghi. Elevati a prodotti di una ragione tassonomica. Risoluzione chirurgica di una pratica semeiotica di breve periodo del corpo culturale. Escissione. Nella mostra sono due le etnie presentate, due le geografie, gli indiani del Pantanal, i Caduveo, gli indiani del plateau, i Bororo. Nalike, il villaggio bororo, non è adesso il villaggio della scena del trucco, del montaggio interno nelle sequenze di tessitura; crudamente, Nalike è un villaggio meticcio, di confine, dove nessun nato è ormai di etnia pura, dove soltanto alcune anziane sono il corpo vivente della tradizione. In mostra, gli oggetti raccontano, in forma esemplare, la vita del villaggio: le pratiche di decorazione, strumenti musicali, la tessitura, la ceramica, la vita spirituale. Oggetti come i flauti evocano la musica e la danza – correlativo oggettivo – mentre altri elementi sono usati a designare una strategia dell’inferenza: oggetti propri, i fusi, indicatori dell’attività di filatura, oggetti della vita spirituale, come immagini lignee degradate e grottesche di dei, o ancora statuine fabbricate per i bambini. La sezione dedicata ai Bororo ha una diversa intensità; i Bororo sono più lontani dalla civiltà del rischio, dal rischio della civiltà: la loro cultura materiale sembra più ricca e autentica, un’archeologia vivente. Anche qui i temi sono la vita del villaggio, le tecniche, la caccia e la pesca, l’abbigliamento, la vita spirituale. Lo spazio è il disegno della storia, dal semplice al complesso, dal motorio al simbolico, dal quotidiano a Dio. Movimento nello spazio, il visitatore ritrova così, per exempla, la storia di un mondo; il corpo di chi visita coniuga negli occhi il percorso: lo muove, muovendosi. Panoramica e carrelli, nelle grammatiche cinematografiche: pensiamo ai diorami di Boas, agli spettacoli etnografici nelle modernità, allo spettacolo della modernità come etnografia della storia, al noi-loro, al noi come loro, ma in un altro tempo; infine al noi allo specchio, grazie a loro. E loro? Il racconto del testo-guida della mostra disegna le trame, connette gli oggetti in una rete di significati. Resta al soggetto farne l’uso che può e vuole, eventualmente come significanti. Reinventare la scena del primitivo, restituire l’autentico nell’autentico, restituirsi questa possibilità attraverso la vista di un grande arco da caccia, di un ornamento rituale, di uno strumento musicale, il cui suono possibile, ma inaudito, accosta il mondo del sacro, evoca la danza rituale. Oggetti come immagini, intoccabili, impercepibili materialmente; per questo immagini, seppure tridimensionali: ricostituzione, nel displaying, di un’immaginazione del vedere, che, nel vedere, produce se stessa; per risalire al senso attraverso le parole-guida di una didascalia o di un testo, a ridefinire, ancora una volta, il sapere come vedere. Il salvage produce visioni. La collezione non si tocca. Toccare con gli occhi, inventare una optosensibilità, la visione tattile della vita dell’altro, l’immaginazione oggettuale, il cuore aptico di un mondo lontano.

Il testo dei Lévi-Strauss è un testo empaticamente scientifico, didascalico, nella sua evidenza di destinazione a un pubblico più vasto della comunità etnologica, così mimeticamente evocativo di atti e fatti sociali, del simbolico delle vite altre. Alla langue delle fiche rigorose, oggi al Musée du quai Branly, qui si sostituisce, sulla scena del mondo, la parole di entrambi. È un morto che qui si onora. Chi guida la danza rituale ha ricevuto gli emblemi funerari, flauti piumati, trombette di zucca (78). Ma è la morte stessa che si accompagna alla festa. Guidata dal battito sottile di sonagli rituali (79) i cori si innalzano, il loro ritmo rallenta, si impenna, precipita. I piedi di tutti battono la terra. Un respiro potente, dei sussulti rauchi. Le trombette funebri suonano (80). Allora, mentre le donne si nascondono il volto per non morire, i bullroarers – i rombi (81) che roteano come un vortice nella Casa degli Uomini, fischiano, terribilmente, il loro ronzio.34 Dinanzi agli occhi di un visitatore nelle vetrine quasi cinematografiche, nei riflessi di luce, e nel percorso si mostravano intanto trombette di zucca, sonagli, rombi, flauti, altre trombe. La legenda, negli indicatori numerici, individuava gli oggetti. Il racconto restituiva immaginazione alla vita stessa dei numeri e degli oggetti. Effetto potente della figura dell’ekfrasis.

5.1.5. Images eloignées: il campo più largo, 1935-36 Dinanzi all’intervistatore di Le Monde Lévi-Strauss racconta di sé e delle foto, e sembra abbandonare ogni difesa e prendere congedo da esse. Siamo ancora nel 2005, anno della mostra al Centre Pompidou dedicata al Brasile: Non ho mai attribuito molta importanza alla fotografia. Ho fotografato perché si doveva, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo. Tuttavia ho molto amato e abbastanza praticato la fotografia nella mia adolescenza. Quel che ho fatto io è un lavoro di grado zero.35 Grado zero, lingua parlata, la fotografia come vissuto, o come taccuino della vista? Indice di mondi o trama profonda dell’indessicalità, radice della questione e della possibilità stessa della foto di terreno, e, al tempo stesso, nodo irrisolto nella valutazione stessa del materiale fotografico? Che cosa scaturisce dal corpus di queste foto, e in che misura esse attestano i luoghi e l’indessicalità, l’autore e l’effettuale, ovvero il processo di selezione, stampa, sviluppo di dettagli, il processo di canonizzazione della vista dell’altro interno all’uso pubblico, al montaggio e sviluppo delle serie di foto nei diversi contesti temporali e accademici? Lingua parlata, immagine parlante?36 Come dar credito alle parole? Verificarle? Tracciare un percorso intorno alle fotografie pubblicate poi in Saudades do Brasil, per provare a validarle come testo a fronte dei film, depurandole momentaneamente dalla logica di narrazione e di progetto editoriale che il libro manifesta? O andare alla ricerca delle foto stesse come fossero appunti, di viaggio o di ricerca, come lingua falada? Forse è utile provare ad allargare, per

così dire, il campo delle immagini: sono queste fotografie un degré zéro, la faglia di un’altra avventura, tra immagine come testo e immagine come nota al testo, traccia di un’attitudine etnografica alla raccolta del materiale grezzo? O invece è più corretto considerarle come una zona di contatto tra langue e parole, piuttosto, tra training tecnico e presenza della grammatica, volontà di un racconto che non si dà, almeno non si forma, nella peculiarità dell’oggetto fotografico, per prodursi, fisicamente, come montaggio del discreto, di stati discreti? Foto del 1935-1936, gli anni del contatto tra Lévi-Strauss e il Brasile, quando il fotografo dilettante affrontava la realtà urbana di São Paulo. Saudades do Brasil, il libro pubblicato nel 1994, quasi mezzo secolo dopo, raccoglie fotografie di ambiente urbano, frutto di percorsi e tracce di détournement cittadini, foto di gite occasionali, foto di campo della prima spedizione etnologica. Gli scatti del 1935-1936 possono essere accostati, letteralmente, ai film etnografici, letti come un percorso parallelo di esercizio dello sguardo, e dell’attenzione, o come restituzione dell’inatteso e dell’imprevisto. Testi a fronte di altri testi. O, come vorrebbe Lévi-Strauss, pre-testi, in accezione positiva, scarti, nella versione negativa, ramo secco di un’evoluzione – ma qui, e le fotografie lo dimostrano, la vicenda si complica. Soprattutto alla luce delle foto di campo di Castro Faria, ma anche alla luce dei materiali fotografici che filmati illustrano le interviste di Lévi-Strauss nel film del 1991. Spiccano le foto di città, esempio visivo, restituzione fisica di una posizione intellettuale che ritorna spesso sul tema della formazione urbana, della città come esperimento sociale. Lévi-Strauss ritorna spesso sull’argomento: il Brasile da lui vissuto come insegnante e ricercatore è il Brasile della modernità incalzante e metropolitana, delle sopravvivenze di sociètà diverse, tribù, etnie, terra di emigrazione, meticciati. Di sovrapposizione di esperienze di gruppi: culture e tempi diversi coesistono, confliggono, collidono: la geologia si fa metafora dell’esperienza storica. Insieme con le foto urbane, che segnano visivamente il movimento intellettuale degli anni di formazione alla ricerca di LéviStrauss, le foto di campo della prima spedizione sono elementi interiori di questa evidente attenzione visiva al presente storico dell’agire, al quadro in cui l’agire etnografico si andava formando. Le dieci foto di campo dedicate ai Caduveo, hanno come oggetto prevalente – nella misura di otto – i disegni facciali, le geometrie dei segni dipinti sui volti delle donne e dei bambini. Nelle foto ritroviamo gli stessi volti dei film, l’adolescente di cui vediamo la festa della pubertà; sono foto, ritratti essenziali ma incapaci di sottrarsi alla fascinazione sensuale e intellettuale dei motivi geometrici, fascinazione che in Tristi tropici sarà evidente. Il complesso delle foto bororo muove a partire dalla fase di avvicinamento, attraverso le foto di viaggio, sul fiume, testimonianza del tempo e dello spazio come fattori della ricerca etnografica. La memoria del terreno si produce, infatti, intanto nell’accostamento, nel tempo di arrivo, per definirsi nel terrain vero e proprio, nell’arco di durata di questo, il tempo dell’invenzione della relazione. Per culminare, poi, nell’elaborazione di un ritorno, se il ritorno è davvero tale e non si produce – o viene pensato e vissuto – come semplice esito testuale, invece che come il giro davvero lungo, dal punto di vista del lessico come dell’intento.37 Lévi-Strauss produce, nelle foto pubblicate, gli accostamenti utili alla lettura del viaggio etnografico, lo traccia come montaggio di immagini esemplari. E cornici di senso. Ecco allora il suo essere in viaggio verso i Bororo, nella sua fatica e durata, lungo il fiume, il viaggio che come sappiamo da Tristi tropici, si muove nel senso di una scoperta. Se dell’acquitrino del Pantanal resta visibile una sola foto, in campo lungo, una foto di un membro della spedizione

a cavallo, di questa fase del viaggio colpiscono sia le foto fluviali, sia le foto della città di Cuiabà, la capitale del Mato Grosso, la formalità delle inquadrature e degli scatti di nobili architetture coloniali. E le foto di paesaggio, con l’uso di grandangoli. Soprattutto la foto in campo lungo, dove a un’osservazione più attenta sembra di cogliere due corpi a cavallo, uno dei quali con un caschetto bianco, di solito indossato nella spedizione da Dina Dreyfus. Foto posata? L’unica foto della moglie pubblicata in questi anni è stata forse scattata da un altro membro della spedizione? Il cartografo René Silz? Dalla corporatura del cavaliere e dal colore del casco sembra proprio Lévi-Strauss a condurre l’animale… Dal testo guida della mostra parigina, firmato con la moglie, risulta evidente la lettura dei due gruppi oggetto di indagine della prima spedizione del 1935-36: marcata è la distanza tra i Bororo e i Caduveo; i primi società complessa ma arcaica, i secondi frutto ormai chiaro della contaminazione – anche se la presenza missionaria nell’area bororo non è sottaciuta, come, nella flagranza della scrittura, non si nega la natura di laboratorio temporale e culturale dell’area di studio, di cui la sopravvivenza indios è indice, elemento e fine del progetto di un salvage sia etico che scientifico: il dasein culturale dell’antropologia di inizio secolo. Le foto, diciotto scatti, riportano il totale del villaggio, come nel film, dallo stesso punto di vista, riproducendone, con inquadrature identiche al film sopravvissuto, la cerimonia funebre, e da un punto di visto diverso, il gioco del marid’do. Ritorna, tra esse, il volto dell’indio bororo, della foto di frontespizio nella mostra parigina del 1937. Proseguiamo quindi in questo esercizio di lettura come montaggio di materiali, giustapposizione di foto e documenti, di memoria. Non importa qui che le foto siano state pubblicate nel 1994, importa invece che siano state scattate nel 1935-36. Coevalness del materiale, coevalness delle pratiche visive nella ricerca etnografica di terreno negli anni trenta brasiliani, da valutare qui, interrogando documenti selezionati e prodotti consapevolmente negli anni novanta, ma consapevolmente pensati e prodotti negli anni trenta. Con altri occhi. In un’altra condizione di presenza. Dentro una storia di persone. Dentro un’altra Storia. Scelte di campo. Comunque. Nel film del 1991, già richiamato, la foto di Lévi-Strauss indicata dalla legenda come autoritratto è qui presentata nel suo formato originale: di tre quarti, rispetto a Lévi-Strauss, l’epifania concreta di un corpo indio fa da bordo all’inquadratura, sul lato sinistro dell’immagine. La foto è lo scatto di un terzo, forse della moglie, o di un altro dei partecipanti alla spedizione. Le foto sono sì la contingenza dello scatto, l’indice e l’indessicale, ma sono, spesso, l’esito di uno sviluppo, la scelta di un taglio di stampa.

5.2. Vent’anni dopo: Tristi tropici o dell’autobiografia come bio-grafia di alcune immagini e di alcune foto-grafie Il documento fotografico è un pezzo autentico, un testimone indipendente il cui valore è la conseguenza delle proprietà fisiche e chimiche utilizzate per la sua creazione. L’emulsione assorbe tutta l’energia luminosa della scena e fornisce un’immagine totale che nessuna memoria saprebbe riconsegnare. La fotografia è la fiche; essa picchetta l’inchiesta con serie di immagini. Ciascun cliché è una fiche i cui dettagli vanno esplicati immediatamente, nel luogo di produzione.38

Ci sono testi che nascono da uno stato di necessità, ci sono testi che, prodotti da una necessità, sono il frutto di un sollecito. Ci sono testi la cui nascita avviene nel segno di un progetto, e altri come esito di una curiosità o di un misunderstanding. Ci sono comunque dei testi, ed essi possono essere letti e usati, nel tempo.

Nel 1948 Lévi-Strauss si addottora in etnologia con una tesi sugli indiani Nambikwara. L’anno seguente pubblica Le strutture elementari della parentela. Sin dai primi anni cinquanta cerca, subendo due volte lo scacco del rifiuto, di ottenere una cattedra di antropologia al Collège de France. Nel 1955 è ormai convinto di essere sconfitto, e dubita della sua futura possibilità di una carriera accademica nel segno della tradizione del cursus honoris del suo paese. Jean Malaurie, che è sul punto di progettare una nuova collana La Terre Humaine per Plon, contatta Lévi-Strauss a partire da una suggestione editoriale curiosa: la memoria di una tesi di dottorato noiosa corredata di foto di rara sensibilità, foto di campo dense di una dimensione dello sguardo, di una volontà di racconto. Le ventidue foto, infatti, pubblicate nel Journal des Américanistes, presentate a conclusione dell’etnografia, sono montate in sequenza, definendo per noi la possibilità di una forma di vita. Si comincia con il luogo, il villaggio, alcune tracce di attività. Per lo più evocate in campo lungo nella seconda e terza planche, e messe a fuoco nella quarta planche dove sei foto illustrano azioni individuali e sociali. Poi foto di tipi maschili e femminili, di profilo e frontali, tuttavia realizzate e stampate lasciandosi alle spalle la tensione antropometrica tradizionale, e infine molte delle foto di vita familiare che vedremo pubblicate in Tristi tropici. Nella quinta planche vediamo le forme degli affetti, i corpi intrecciati, soprattutto le due foto in basso, che ritraggono la stessa coppia, ripresa in una continuità cinematografica, negli stati del corpo a contatto, dove il lay out sottolinea il gesto affettuoso come esito di un racconto, scena madre esemplare, nel crescendo tipografico, foto di taglio basso che oltrepassa la griglia, accenna al fuoricampo.39 Le foto del fotografo dilettante suscitano in un editore la richiesta di un volume di racconto dell’impresa etnografica, di un’etnografia che sia racconto, come recita il sottotitolo della collana: “Civilisations et societés – Collection d’études et des témoignages”. La richiesta è sottoposta all’autore delle Strutture elementari della parentela, testo certamente non romanzesco, e, per quanto appassionante nel suo rigore, certo lontano dalla sfera delle passioni, dalla scelta del pathos. L’intellettuale, cui questa richiesta è avanzata, ha di sé

l’immagine dello sconfitto. In tre mesi di stesura nasce così, tra rabbia e necessità, Tristi tropici. Sessantatre foto accompagnano il testo. È il volume più ricco di immagini mai pubblicato da Lévi-Strauss prima di Saudades do Brasil. Sessantatre fotografie hors texte, e un importante apparato di disegni – cinquanta disegni – corredano il libro nella sua prima edizione francese. Si segnalano ancora altri apparati: una réclame pubblicitaria di una compagnia di navigazione fluviale, una carta geografica, una tabella del budget delle spese di una famiglia di un seringueiro nell’anno 1938. Le foto sono raggruppate in ventitre tavole, indicizzate etnicamente: Caduveo, Bororo, Nambikwara, Tupi Kawahib. La sequenza riproduce, formalmente, la cadenza delle due spedizioni etnografiche di Lévi-Strauss; la spaziatura e l’appellazione ricostruiscono il percorso, talvolta evocato da fotografie di viaggio. La prima tavola, come l’ultima, presentano e offrono la cornice narrativa: nella prima, due foto a cavallo mostrano fisicamente l’idea del viaggio; nell’ultima, un gruppo di bianchi trasporta in spalla una canoa. Tristi tropici è evidentemente, come vedremo, una sorta di libro palinsesto, dove etnografia, memoria, libro di viaggio, teoria del metodo, si presentano come strati e sedimenti di un percorso intellettuale ed esistenziale, dove le forme grafiche, i disegni, formano nel testo tracce visive e suggestioni di lettura, indici e indicatori, dove le fotografie si presentano e si offrono come fuori testo, contesto possibile di una narrazione, contesto di una visibilità già prodotta dalla scrittura. Tuttavia la descrizione e la fotografia attengono con evidenza – nell’evidenza – a due diverse grammatiche, alla diversa apertura di campi semantici di riferimento diversi, restituendo due diverse rappresentazioni. Non c’è etnografia che, retoricamente, non sia descrittiva, indicativa di spazi, luoghi, riti, usanze, oggetti. Resta evidente tuttavia, che l’uso nel testo, o fuori testo, delle fotografie, è ben diverso dall’uso di disegni. Come altrettanto diverso è l’uso della fotografia in diverse esperienze di campo e nella tradizione dell’etnografia, dalle foto nel testo di Malinowski, in Argonauti del Pacifico, all’uso di queste, fuori testo, figura della conclusione e della rappresentazione, come in Bateson per Naven, nell’edizione originale (Marcus, 1985), all’uso qui proposto da LéviStrauss nel 1955. È necessario evidenziare, poi, la differenza strategica nell’uso della didascalia, rispetto a Naven, ad esempio, dove le tavole finali si organizzano come una sorta di nuova sinossi della cultura e dei rituali iatmul, e dove la stessa scena dell’esperienza etnografica trova la sua sintesi ultima e paradossale. Con un movimento anacronico abbiamo prodotto un allargamento di campo utilizzando i materiali pubblicati nel 1994, il libro fotografico, e scegliendo i materiali coevi, materiali di una co-produzione in termini di spazio e tempo, nella definizione di co-temporalità: la ratio di questo montaggio, anacronico, o meglio di un flash forward, nasce dall’esigenza di pensare la pratica filmica di Claude e Dina Lévi-Strauss nel contesto della loro esperienza storica di campo, la prima spedizione 1935-36, risalendo ad essa e riconoscendola come relitto visivo: da rivedere e interrogare a partire dalle foto, oltre che dai testi, soprattutto da un testo dove quel pre-testo viene evocato e tralasciato, subito nella prefazione, come vedremo, oggetto di una rievocazione e di un voluto occultamento, i film. Le sessantatre foto che illustrano Tristi tropici sono foto fuori testo: evidentemente negoziate e risolte come tali; all’origine dell’intuizione editoriale di Malaurie, le tavole e le foto compongono piuttosto che un racconto, o una restituzione visiva del testo, una sorta di didascalia illustrativa, la cui scelta e scansione muove probabilmente dalla qualità del materiale; dalla diversa qualità dell’occhio ottico di Lévi-Strauss tra le due spedizioni, superiore nella seconda; dalle ragioni editoriali di dare immagini e volti alla

scrittura memoriale ed etnografica del testo. Sedici foto tra quelle pubblicate nel 1955 sono associabili alla prima spedizione, e tra queste nove saranno poi riproposte in Saudades do Brasil. Tipograficamente producono una diversa evidenza nel testo del 1994, dove sono oggetto di stampa a tutta pagina, di nuovi tagli, di diverse produzioni di senso. Le foto dei disegni delle donne caduveo, esito della missione del 1936, diventeranno lì eleganti interpunzioni grafiche su fondo nero, scansioni della sequenza fotografica insieme, con schizzi e disegni di taccuino dell’etnologo francese. Tra le nove foto di Tristi tropici che ritroveremo cinquant’anni dopo in Saudades do Brasil, troviamo intanto le foto frontali delle donne truccate, i totali della cerimonia funeraria, il gioco del marid’do. Le foto frontali delle donne caduveo si inscrivono, a differenza delle immagini filmate, in una sorta di spazio iconografico intermedio tra la cifra di Boggiani, il pittore etnografo diplomato a Brera e di gusto fin de siécle, le cui immagini attengono sia alla tradizione dei nudi accademici dal vero che all’eclettismo tardo naturalista, e il segno – la segnatura – della foto etnografica frontale codificata dalla manualistica e dalla canonica di ricerca scientifica dell’immagine veridica, dell’iscrizione veridica del soggetto nella sua etnia. Mentre le immagini filmate si inverano e si dissipano nella prossimità dell’inquadratura, nella vicinanza, i ritratti assumono la volontà di verità. Così accade ugualmente per le dieci foto tra i Bororo, dove ritroviamo, in parte, da inquadrature leggermente diverse, immagini viste nei film, qui congelate e inscritte faticosamente nella veridicità, qui radicate nella volontà di rappresentazione totalizzante – le scene collettive, i rituali – dove il grandangolare schiacciando le prospettive ricorda all’occhio la necessità dell’interpretazione. La foto smaschera l’analogia tra immagine e fatto, denuncia e rivela, nella ipotetica trasparenza dell’immagine, che nel mondo la vista non è una finestra verticale, la finestra la cui dimensione e forma è il prodotto di una tradizione antropometrica dell’immaginazione architettonica; la foto ci ricorda che la vista stessa non soltanto produce finestre di altre forme e dimensioni, ma addirittura, nelle protesi ottiche, produce altro da ciò che vede. Accompagnando il testo con didascalie a fondo del libro, le foto qui lavorano per illustrare semplicemente, a bassa definizione, quanto il testo, nella sua sezione etnografica, ha già inscritto nella memoria del lettore come indice di verità testimoniale: le foto sono un rafforzamento estetico del già visto perché letto. Le foto sono poi un rafforzamento estetico del lettore nella sua ricezione, anche se questo vale assai di più per le foto dei Nambikwara; le foto infine riaccorciano le distanze nella cifra dell’esotico, o dell’ecstatic nel senso di Fabian, sono lo spettacolo: nel segno di questo, l’immagine si dà come possibile: la scrittura rimane sovrana e ci sorveglia. Le foto, infatti, accompagnano il testo in fondo al volume, riposo della vista. Esse non rileggono il testo, come in Naven, riaprendo il circuito di senso e di interpretazione, non sono un epilogo che, come scrive Marcus riapre acutamente la questione dell’oggetto, e lo stesso progetto della cultura iatmul, producendo di fatto una epilogia oltre l’epilogo, forzando la lingua. Qui, piuttosto, nel testo più personale e autobiografico di LéviStrauss le foto acconsentono e condividono, nell’impressione, l’idea dell’illustrazione. Il dolore dell’immagine fotografica come contrappunto della scrittura.40 Risuonerà nel 1974, sotto le volte dell’Académie française, nella compiaciuta voce di Caillois, nel discorso di ammissione alla confraternita degli immortali di Francia, il seguente giudizio: Lei non ha mai condannato l’arte moderna, ma si coglie bene che le lesina il suo entusiasmo. Quando sfoglio le sue opere colgo non senza emozione e con un certo

senso di complicità le illustrazioni che Lei trae dai vecchi libri di scienze naturali.41 Il pregiudizio sulle immagini e sul loro uso non spettacolare attraversa, non casualmente, la storia stessa tra Occidente e Oriente, le culture complesse come le culture primitive, intrecciando ed embricando scrittura e lettura, immagine e testo: nell’ambivalenza della rappresentazione, si intravede l’ambivalenza della ri-presentazione, lo scacco della verità, o meglio il suo rivelarsi come conflitto.42 La pubblicazione del diario e delle fotografie di terreno di Luiz Castro Faria rimanda puntualmente allo spettro delle riflessioni di Goody. Castro Faria, giovane naturalista associato alla seconda spedizione di Lévi-Strauss del 193839 su richiesta del governo brasiliano, dà alle stampe nel 2001 i taccuini di viaggio e gli scatti di quel terreno. Il diario include i report telegrafici sull’andamento della missione, la geografia e la cronologia effettiva del viaggio. Alle pagine evocative e memoriali dell’etnologo francese si sovrappongono, ormai da qualche anno le scarne osservazioni del futuro antropologo brasiliano. Alle fotografie di Tristi tropici si giustappongono quelle di Em outro oulhar. Le foto del diario restituiscono chiaramente la natura e la logistica della spedizione, l’uso di camion, lo scopo della ricerca tradizionale di artefatti e oggetti per collezioni museali. Soprattutto, le foto rinvengono le tracce della presenza missionaria così come restituiscono l’evidenza non fortuita degli incontri con gli indiani, la cornice dei paesaggi e dei luoghi. La missione si svolge, di fatto, lungo le stazioni di posta e le missioni: un’etnografia lungo la linea telegrafica, come osserva de L’Estoile43 e come riconosce, nel numero di Ethnies dedicato ai Nambikwara, Marcelo Fiorini44. Le foto dei Nambikwara, presentate dapprima in La vie familiale et sociale des Indiens Nambikwara, nella pubblicazione del 1948, poi contenute in Tristi tropici e proposte quindi in Saudades do Brasil, ci presentano la nuda forma dell’uomo, nelle sue attività elementari di relazione coi simili e con l’ambiente. I Nambikwara sono primitivizzati, tipizzati come umanità dell’arcaico, nella forma di una restituzione fotografica tesa a segnare di pathos e di misura questa emergenza, come in una sequenza di immagini affezione. Isolati fotograficamente dal contesto, sembrano, nel testo, provenire dalla profondità della selva amazzonica. E invece, dalle foto di Castro Faria, vediamo come le foto dell’etnologo francese siano state scattate nei pressi di una missione, situata accanto alla linea telegrafica, uno degli ultimi avamposti della spedizione Rondon del 1915. Non è in discussione, qui, l’antropologia fotografica sensibile di Lévi-Strauss, né il suo vivo e sincero interesse etnografico. Ancora una volta si osserva come la tradizione del suo corpus fotografico nella forma di edizione ben temperata, si potrebbe dire, mostra una strategia narrativa e culturale evidente. Le foto nel formato di stampa, nel taglio, nella successione proposta, offerte e cadenzate nella ragione grafica di volumi e libri, si producono piuttosto che come documenti come suggestioni, artefatti consapevoli il cui scopo è rafforzare un’ipotesi, avvalorare una lettura, escluderne altre. Lévi-Strauss, come già Boas e Griaule, attesta la fotografia sulla soglia della comunicazione pubblica, oltre che scientifica, definendone, attraverso l’uso, una strategia di esposizione e seduzione, un displaying spettacolare del sapere, sapere la cui forma di trasmissione e produzione scientifica rimane la scrittura. Più che la fotografia è il disegno a sussumere la possibilità della rappresentazione, il disegno capace di linearizzare, appunto, un oggetto, un corpo, un tatuaggio. Di costituirsi, così, come forma di restituzione e comprensione, paradossalmente strutturale, del reale. Nella

geometria o nei tipi.

5.3. Autografia, bio-grafie, altre iscrizioni: il benvenuto di Leiris e l’iscrizione al mondo come testo di Clifford Geertz Allorché Lévi-Strauss dichiara di aver trovato nell’etnografia – il cui oggetto è la conoscenza delle culture umane di tutti i luoghi, se non di tutti i tempi – una “storia che congiunge alle sue due estremità la storia del mondo e la mia”, egli indica in poche parole l’intera trama del libro. […] Ricercare come un geologo la linea di contatto tra due strati di terreno di ere diverse: rivivere l’avventura degli uomini che nel XVI scolo scoprirono il Nuovo Mondo nell’avvicinare una tribù amerindia (salvo poi constatare che il viaggiatore moderno è soltanto “un archeologo dello spazio che cerca invano di ricostituire l’esotismo con l’aiuto di frammenti e di relitti”.45 I due frammenti di testo di Michel Leiris sono tratti dalla recensione di Tristi tropici, del 1956, pubblicata in lingua italiana nel 2005. Leiris è l’autore di L’Afrique phantôme, pubblicato da Gallimard nel 1934: testo sconveniente e disarmante della storia della letteratura etnografica, il carnet di viaggio della missione Dakar-Gibuti del 1931 di Griaule galleggia da allora come un relitto idiosincratico nella tradizione dell’antropologia di lingua francese, una singolarità storicamente riscattata dalla qualità letteraria dell’autore e accademicamente risolta, nel tempo, dalla monumentale tesi di dottorato sulla lingua segreta dei Dogon. Ma la posizione dell’autore di quel carnet, così doloroso e urgente, era sensibilmente diversa all’atto della pubblicazione promossa da Malraux, lettore di Gallimard in quegli anni, cui si deve il titolo suggestivo e seducente. Il surrealista Leiris, scrittore noto negli ambiti dell’avanguardia parigina, studente di etnologia, e associato come tale alla missione di Griaule, segretario redattore della spedizione, si produceva rischiosamente nel gesto di una scrittura sovversiva nell’atto stesso di inaugurare l’ingresso nello spazio di una tradizione etnologica, nel rito di passaggio, non soltanto accademico, ma esistenziale, in senso materiale come morale, dalla scrittura creativa alla scrittura scientifica. Dinanzi alla scrittura come scrittura dell’altro, la bio-grafia stessa di Leiris cedeva, e la neutralità del diario di campo, qui nella versione di carnet di una spedizione collettiva, deflagrava nell’urto di vita e scrittura: la scorciatoia testuale del presente etnografico come presa diretta sul reale, della riduzione diaristica del mondo, riproduceva la natura frammentaria di questo. Ma soprattutto, quanto accadeva intorno produceva un senso di ulteriore smarrimento, di spaesamento: detourné a Parigi, detourné nei villaggi del viaggio missione, Leiris marcava nella scrittura l’emergenza autobiografica dell’esser lì, la deriva del senso come del sentimento dell’autentico e il rifiorire piuttosto di quel senso e sentimento del futile che la modernità, nella forma della vita occidentale e parigina, gli avevano offerto, inducendolo alla scelta dell’etnologia come pratica di produzione personale di senso. Ma L’Afrique phantôme, forma storica peculiare della restituzione pubblica dell’io etnografico, libro di viaggio di una missione il cui scopo era la

creazione di collezioni per il futuro Musée de l’Homme, in un curioso incrocio di scienza, feticismo degli oggetti, conoscenza antropologica nel quadro di una cultura dell’esotico come riscrittura estetica-ecstatic nel lessico di Fabian – delle questioni coloniali, L’Afrique phantôme produceva nella sua pubblicità una ferita profonda nella possibilità stessa di una scrittura etnografica, nella licenza dell’etnografia come scienza.46 La coscienza di Leiris aveva superato il margine, il punto di distanza, la teoria del contatto e il contatto come teoria, lo sguardo che istituisce regimi di senso, il modello tassonomico, il riduzionismo in forma di fiche, scheda tipo; tutto questo, la possibilità di questo, era radicalmente compromesso dall’azione, di fatto surrealista, dello scrittore. La scrittura dell’io, dell’io biologico e storico, nel dolore fisico fatto testo, come dell’essere un funzionario coloniale, pre-testo della sua posizione rispetto al mondo e al testo stesso, tutto ciò aveva investito e travolto l’idea stessa di esperienza e la sua possibile restituzione scientifica.47 A Leiris non restava dunque che emendare il delitto all’atto della sua thèse, tesi che riscriverà come rito di passaggio e viatico di accoglienza nella confraternita etnologica. Tuttavia i testi restano, relitti o reliquie. E vivono la loro tradizione. E il testo di Leiris, la sua struttura, ancora oggi sorprende e disarma: montaggio di immagini, fotomontaggio di flashes di scrittura, collage surrealista nel registro di una scrittura volutamente piana e realista. Nel 1950, con una nuova prefazione dell’autore, Gallimard riedita il testo del 1934, testo censurato e proibito negli anni di Vichy, gli stessi anni da cui prende inizio il racconto di esilio di Tristi tropici. Di lì a cinque anni, nel 1955, Plon pubblica il testo più venduto della storia dell’antropologia. La ratio letteraria dell’ammissione dell’autore tra gli immortali dell’Académie, testo scandaloso e cruciale, alla sua uscita, come sappiamo. Ecco allora Leiris soccorrere Lévi-Strauss, invitarlo e accoglierlo nel club del terrain vague, riconoscere ospitalità alla scrittura di tradizione così diversa, e riconoscere ospitalità al disorientamento, allo spaesamento, al progetto impossibile del terrain, dell’esser davvero lì. Isotopia, ma tra due tradizioni del tutto diverse, che si riconoscono nell’incrocio di esperienze e in una genealogia che, per entrambi, fa di Rousseau l’asse cardinale della scrittura possibile dell’altro e di sé; questo vale per Leiris, nella prefazione alla riedizione del 1950 di L’Afrique phantôme, come per Lévi-Strauss in Tristi tropici e nel testo su Rousseau ora in Antropologia strutturale. Ma due percorsi diversi derivano dalla stessa ispirazione: nello scrittore etnologo surrealista emerge una sorta di idea del fotomontaggio della vita di campo, di un testo dell’io etnografico redatto nella tensione semplice della cronologia, e solo apparentemente salvato da questa. Nello strutturalista riemerge il modello della vetrina etnografica,48 aggiornato in displaying di testi multipli, multifocali. Etnografia, diario, metaetnografia, abbozzi di testi letterari, schizzi storiografici, trattatelli morali, apologhi, divagazioni territoriali e memoria personale, come una tragedia, la riscrittura da Corneille della Cinna, un corpus fotografico come exemplum visivo, didascalia al testo e fuoriuscita parziale, in un altro dominio linguistico, dal testo stesso, o almeno sviamento di sé come del lettore. Cronologie diverse, nel montaggio dei tempi e della vita ripensata come testo, nei détour dell’autore come scarti e trame di un percorso, contingenza di atti e decisioni, contingenza di atti mancati che procurano e inventano un campo diverso di decisioni: il visto mancato e l’impossibilità di ritorno in Brasile durante la seconda guerra mondiale, il détour verso New York, nel viaggio esilio dalla Francia occupata, la memoria di campo della spedizione 1935-36 insieme con la prima moglie, il ritorno sul campo due anni dopo, il Brasile delle escursioni e dell’insegnamento, l’India. Libro di viaggi paradossale il cui incipit recita appunto “io detesto

viaggiare”, rievocato dall’incipit di una canzone di Caetano Veloso, “O antropologo Lévi-Strauss detesto a bahia de guarnabaca”. Libro che Clifford Geertz stigmatizzerà, genialmente, sul piano retorico prima che critico, in un testo del 1992, The Transformation of Intimacy, Sexuality, Love and Eroticism, esito di una serie di lecture del 1984 a Harvard, pubblicato in Italia come Opere e vite, titolo più determinante ed economico del divertente, in senso etimologicamente spaziale, titolo originale. Tristi tropici diventa, qui, il testo-chiave della decostruzione ermeneutica del pensiero strutturalista, di un corpo a corpo retorico con il mondo prodotto o ridotto a testo, nella lettura di Geertz. In questa cornice, l’evidenza metaetnografica del testo, è salutata nella sua emergenza, salvata nella qualità testuale, stigmatizzata nella risoluzione del reale che il testo stesso dispone. Lévi-Strauss, afferma Geertz, a differenza di Radcliffe Brown o di Fortes, i testi dei quali sono (o si presentano come) trasparenti, mette in mostra non solo la cornice della sua finestra, quanto il testo stesso come la finestra o cornice. Metaforica a parte, Geertz intravede nel decano dell’antropologia sociale francese, sulla scorta di James Boon,49 un simbolista in viaggio nel mondo dei miti e dei segni, delle culture e degli oggetti, alla ricerca dei suoi simili, capace di costruire un universo simbolista del mondo nella mitologia bororo o di ritrovare lo stato di natura tra i Nambikwara, per cogliere in vivo la profezia o il pensiero di Rousseau, contro Freud e Hume, letteralmente. La mossa di Geertz ha radici più profonde e importanti; è, infatti, la risposta umanistica allo strutturalismo, la possibilità di costituire, come metodo e come oggetto di riflessione, la natura dialogica dell’agire antropologico, la fondabilità dell’altro nella tradizione ermeneutica e fenomenologica ripensata all’interno della antropologia e, innanzi tutto, dell’etnografia letta qui come pre-testo, come strategia di costruzione dialogica di una relazione a sostegno futuro di un testo, invece che come strategia di costruzione del testo. Naturalmente Geertz prescinde puntualmente dal quadro storico della pubblicazione del libro, come dalle condizioni materiali della presenza sul terreno, esito di una spedizione la cui struttura è simile alla tradizione di Griaule – una spedizione, la seconda soprattutto, che vede sei attori diversi sulla scena del terreno: Dina Dreyfus, qualificata nei documenti ufficiali come antropologa, LéviStrauss, etnografo, Vellard, medico e biologo, un noto linguista tedesco Curt Nimeuendaju, René Silz cartografo e responsabile della logistica, Castro Faria, naturalista e antropologo fisico, responsabile brasiliano della missione stessa, dodici uomini di supporto, due camion, venti muli, trenta buoi, due tonnellate di materiali vari, tre di viveri. Geertz, da antropologo interpretativo, muove dal testo, appunto, iscrivendolo piuttosto nella tradizione della letteratura di viaggio,50 suggerendo una lettura di esso nella nobile scrittura francese di occasione, apparentandolo a Voyage au Congo di André Gide.51 Geertz, abilmente, ne stressa la tensione metonimica per ricostruirlo classicamente nel segno del viaggio: il fuori, il mondo, l’altro, la scoperta, l’illusione e la disillusione, il ritorno, il racconto come condizione e forma del ritorno stesso, il racconto di mondi lontani a chi in quei mondi non è stato. Il paradosso di questa lettura testuale è la sottrazione del testo al testo, il misconoscimento della natura assolutamente evidente di auto-biografia letteraria: il prisma testuale, o il diorama delle molte vite – in una vita – di tutti gli esseri umani, di verità parziali e finzioni condivise, di pratiche testuali e retoriche del dire e del mostrare. La condizione di rimozione del terreno, la sua aporia paradossale: la produzione di una proiezione nel segno della trasformazione testuale e del campo in un esperienza di field inglese, nella restituzione di solitudine proprie della tradizione di lavoro anglosassone, malinoskwiano. Il tempo ritrovato di Lévi-Strauss è la

scena di un teatro di eventi, la messa in scena operistica della vita e della scrittura, il piacere del testo. La scrittura lavora qui come matrice di un testo in quanto multiplo di testi e di genealogie letterararie: il realismo di Balzac e Zola, l’ansia proustiana della memoria, la struttura e i paradossi della narrativa di Queneau. Per altro verso Tristi tropici viaggia, inconsapevolmente, verso alcuni mondi di Butor e Perec, verso il dolore della restituzione del mondo nella polvere della modernità. Magari nella cifra del dolore neoclassico di un letterato, come in un certo senso, è il suo autore. Resta ancora la questione Rousseau, le dolorose proiezioni o i miraggi di cui l’antropologia può nutrirsi, antropologia del rimorso e del disagio della civiltà: le pagine sui Nambikwara che Leiris ama sottolineare e citare, che Geertz attraversa con la ferocia chirurgica dell’ironia più spietata, splendono nella forma della sentenza, nella retorica dell’epigramma: “J’avais cherché une sociète réduite à sa plus simple expression. Celle des Nambikwara l’était au point que j’y trouvai, seulement, des hommes”.52 Resta da osservare che l’evidenza apodittica merita forse, come ha cercato di fare Derrida in De la grammatologie, una lettura più dolorosamente intensa e filosoficamente conseguente. Come resta appunto da ricordare che Lévi-Strauss, riferendosi già nei suoi lavori seminali e di dottorato ai Nambikwara come società regressiva, rimetteva in scena la storia nel campo dell’antropologia, la storia coloniale come fonte di distruzione e devastazione sociale. Riscrivendo la storia o richiamandoci alla riscrittura storica dei popoli indios, alla civiltà amazzonica, l’antropologia riportava l’altro dialogicamente irriducibile alla sua dimensione storica. Il corpo a corpo con Rousseau ha, in Lévi-Strauss, il segno di una lunga fedeltà: la conferenza di Ginevra, i vari passaggi in Tristi tropici, le pagine di Totemismo oggi, la terribile lezione di scrittura tra i Nambikwara. Rousseau è l’orizzonte della pietà e del linguaggio nella sua essenza metaforica, del linguaggio come spazio delle passioni, della pietà come forma essenziale dell’umano. È, per Lévi-Strauss, il filosofo in cui la scrittura si disvela e denuncia come pratica della violenza, il filosofo grazie al quale scopriamo l’altro come una storia del noi, il primitivo come histoire non historifiable della nostra civiltà. Tuttavia se la scrittura è certamente pratica di potere,53 e quindi di violenza, la parola, come avverte Derrida, non è detto che sia innocente.

5.4. Che cosa è il cinema – o che cosa dovrebbe essere il cinema? Antropologia dello spettacolo come spettacolo della forma Nel 1964 Lévi-Strauss concede un’intervista ai Cahiers du Cinéma,54 la rivista militante della nouvelle vague francese, impresa teorica e critica il cui ruolo è essenziale nella riflessione sulle pratiche visive cinematografiche del cinema moderno. L’intervista vede Lévi-Strauss dialogare con Jacques Rivette e Michel Delahaye, ed è il testo più lungo e articolato dedicato al cinema in grado di restituire un’immagine complessiva del pensiero dell’antropologo francese sull’argomento. L’intervista è registrata, riletta e corretta dallo stesso Lévi-Strauss e quindi pubblicata nel numero 156 di giugno del 1964. Consta di trentuno domande e altrettante risposte. La lunghezza delle risposte e la loro compiutezza segnalano un editing rigoroso sul testo stampato. Il tono dell’intervista è rispettoso e franco, il dissenso marcato su alcuni punti,

l’andamento, soprattutto all’inizio, ha un carattere informativo, essenzialmente didascalico, e quasi biografico. L’intervista ha un’ampiezza di quasi otto cartelle. La prima domanda recita semplicemente: “Va al cinema?” Lévi-Strauss all’inizio della conversazione si maschera, assume, a fronte di domande generiche, una volontà di confidenza e di interlocuzione di tipo evocativo. Recupera dalla memoria l’idea di una pratica elementare del cinema come intrattenimento, avvalora l’idea di una giovinezza trascorsa nelle sale cinematografiche, descrive l’esperienza americana come centrale nella formazione del suo gusto cinematografico, della sua pratica di visione. Ricostruisce un cinema pre-moderno, prebellico, che descrive come una totalità suggestiva, oggetto di visioni generiche e interessanti, un cinema dal linguaggio semplice ma spettacolare, un cinema popolare, senza fronzoli, cinema senza autori. Il cinema macchina spettacolare. Una totalità maussiana si potrebbe scrivere, senza ironia. A questa età quasi rousseuaiana del cinema, Lévi-Strauss contrappone il presente degli anni sessanta, la forma di un cinema che medita su se stesso, quel cinema d’autore che chiede di schierarsi, che implica l’obbligo di un esercizio dello sguardo, della scelta. Infine, la politicizzazione della forma cinematografica e la sottrazione alla sua natura di spettacolo e di intrattenimento. Un attacco alla modernità in nome di un’invenzione di uno stato di natura di tipo cinematografico, di un tempo adamitico e prebabelico, un tempo in cui il cinema universalizzava le immagini. Il tempo degli universali per immagini, si potrebbe dire, ma soprattutto il tempo della forma, e la forma cinematografica come peculiare forma del tempo: tempo dell’opera, durata, tempo della visione. […] Mi spiego: quando ricevo un libro o quando lo compro, sono libero di concedere a questo libro la quantità di tempo che corrisponde all’interesse che provo. Posso guardare la prima pagina e l’ultima e poi accantonarlo, posso dargli un’occhiata e quest’occhiata può durare a mio piacimento, dieci minuti, mezz’ora, un’ora… O posso passare su questo libro intere giornate, settimane o mesi. Al cinema questa libertà mi viene negata. Sono preso in trappola. Entro in sala, ed eccomi prigioniero, per l’ora e mezzo o le due ore della proiezione. Questo stato di cose dovrebbe escludere il privilegio, che certi cineasti contemporanei si accordano, di fare, al cinema, quello che, sul piano letterario o sul piano pittorico, corrisponderebbe a una prova o a uno schizzo. La natura dello spettacolo cinematografico (come, del resto, quello musicale) implica, esige, prove compiute e – non dobbiamo avere paura delle parole – accurate. Accurate, dal momento che, chiedendo attenzione allo spettatore per l’interezza della propria durata, implicano uno sforzo non meno totale e integrale da parte del creatore. Il cinema di oggi spesso mi irrita, perché mi dà la sensazione di essere stato mobilitato senza una giustificazione sufficiente: per una brutta copia insomma. Il cinema insomma non può giocare a dadi col linguaggio, il cinema è visto qui come l’erede dell’opera ottocentesca: l’istanza di un canone, ma anche, è bene ricordarlo, la memoria di una pratica di massa, pretelevisiva, della visione di massa. Il cinema di cui qui si parla è situato negli anni trenta e quaranta, e ancora negli anni cinquanta, grazie all’invenzione, alla reinvenzione industriale, dello scope e alla diffusione dei film a colori per

contrastare la nascente industria televisiva. Spiccano poi alcune espressioni, indici di una sensibilità classicista, per un verso poco sensibile al cinema come détournement, basti pensare al Barthes che gli è sostanzialmente coevo, al senso opposto dell’esperienza della sala come luogo uterino e letterario di piacere scopico di questi, come poi alla metafora della trappola qui avanzata. Ma è l’introduzione del topic della brutta copia che dà l’abbrivio a uno scarto dell’intervista, al seguire di un’affermazione che vede l’antropologo francese distinguere tra compiutezza e brutta copia, tra materiale grezzo e oggetto estetico: › Le brutte copie possono essere necessarie. ›La brutta copia è legittima, a condizione che non la si sfrutti nel circui​to commerciale facendola passare per un’opera compiuta. Che i cineasti girino una serie di brutte copie, che le guardino tra loro, che le discutano tra loro… Che ne mostrino anche alcuni frammenti agli spettatori, questo lo ammetterei volentieri. Quello che non ammetto è il parallelismo che si pretende di instaurare tra la creazione letteraria e la creazione cinematografica, come se le condizioni oggettive non fossero completamente diverse nei due casi. › Insomma, il cinema non dovrebbe dimenticare le condizioni dello spettacolo… ›Le condizioni proprie dello spettacolo, con una durata fissa che, in cambio, impone al cinema una perfezione artigianale molto elevata. › Queste qualità “spettacolari” non si trovano a coincidere – nel cinema americano contemporaneo, diciamo – con determinate ambizioni che distinguono il cinema moderno? ›Avrei qualche riserva. Non che abbia criteri molto severi – ogni film a colori sul grande schermo mi suscita un godimento fisico che dipende dall’ampiezza del campo, dalla trasparenza e sontuosità dei colori… È raro che io reagisca in modo del tutto negativo a un western, anche mediocre, se gli esterni sono belli. Le tre risposte costituiscono una genealogia dei giudizi: intanto la svalutazione, in nome della tradizione e dell’arte – nell’accezione del popolare cinematografico del cinema a lui contemporaneo; quindi la definizione di opera come testo compiuto in virtù non della sua specificità estetica, ma delle condizioni di produzione dell’opera stessa, e delle condizioni di fruizione – il canone dei novanta minuti di intrattenimento e divertimento a fronte di un biglietto pagato; quindi, alla domanda sul cinema americano, prima uno scarto, dettato da un rifiuto sul piano politico estetico dei contenuti, poi una messa a fuoco del cinema come luogo del colore, del paesaggio, di un genere come il western, genere glorioso degli anni cinquanta, ma già in crisi alla fine del decennio. Decisiva qui è una percezione dello spazio cinematografico; evidentemente si allude al Cinemascope e la percezione del tempo personale, come il frammento seguente dimostra. Il cinema è un’arte che ha molte più dimensioni della pittura o della letteratura, da questo punto di vista può essere paragonato soltanto alla musica; bisogna aggiungere che nel film è presente anche la musica, quindi esso ha ancora più dimensioni della musica. Il che aumenta gli obblighi dell’opera cinematografica, che deve tenere conto di numerose esigenze.

Un pittore ha il diritto di abbozzare un quadro in tre minuti, perché io che lo guardo ho il correlativo diritto di non dedicargli più di tre secondi. Non è la stessa cosa per il cineasta né per il suo spettatore. Il film si svolge nella durata. Io posso abbracciare un quadro in una sola occhiata, ma il film mi monopolizza fino al termine della proiezione. Ritorna, qui, il timore del tempo rubato, del cinema come trappola, della durata come focus del testo cinematografico: il canone della durata come un quasi universale naturale e non storicamente dato. La prospettiva di una complessità multicodice del testo cinematografico, che lavora nello spazio e nel tempo, nel suono, e che, come tale, prevede il compiersi di una forma che si faccia canone. È la potenza stessa della pratica che impone, al cinema, la costruzione, la costituzione di un canone, per Lévi-Strauss. › Calcando un po’ la mano sulla modernità i cineasti non hanno forse consentito al pubblico nuove abitudini, di cui può beneficiare tutto il cinema moderno? ›Una rottura era indispensabile per annullare gli accademismi in cui il cinema era impantanato. Forse è un’operazione di distruzione simile al dadaismo, dal valore non meno salutare. A condizione che non duri a lungo. E che si ricostruisca sulle rovine. › Una volta il cinema si riferiva a un pubblico unico, ora ci si rivolge a pubblici diversi… ›È una cosa che non rimpiango sia oggettivamente sia dal punto di vista dell’evoluzione storica del cinema. È normale che le cose vadano così e probabilmente è fecondo. Lo rimpiango solo se mi rapporto con un momento eccezionale della nostra civiltà, in cui il cinema aveva il fascino rozzo di una natura eccezionale: un cinema con virtù di cui non era consapevole chi le manifestava. Eravamo allora in presenza di un’arte grezza. Ancora il senso di un tempo della totalità qui storicamente distinto; la prospettiva di LéviStrauss si chiarisce: se le nouvelle vague, di cui evidentemente sospetta – l’unico autore citato nell’intervista è Resnais – sono ripensabili nel segno del dada come fatto storico, come processo, la potenza del cinema, la sua emergenza storica come arte nuova nel Novecento ha reso possibile la nascita, allo stato grezzo, di un mondo estetico. Si legge qui la prospettiva di una lettura boasiana: il cinema delle origini come primitive art di massa, l’anonimato e l’inconsapevolezza come marca antropologica. Il cinema è assunto così come l’esperimento acronico di uno statu nascenti estetico, come alba di una civiltà. Stupisce, invece, la disattenzione verso la dimensione visiva di questa pratica, la disattenzione verso la dimensione collettiva dell’immaginario nello specifico di questo – la distanza dalla lettura di Morin, dalle letture dei francofortesi – come la sottovalutazione della dimensione mimetica del linguaggio cinematografico e della complessità magica dell’esperienza filmica, paradossale esperienza totemica e tecnica nel campo antropologico della modernità. Ma la prospettiva storica del cinema come esito dell’opera musicale, e la lettura boasiana della sua storia nascente come primitive art, prospettiva interessante che scarta però l’implicito tecnico linguistico – la riproducibilità delle immagini, e la diffusione di questa come velocità di

produzione dell’immaginario – non consente, evidentemente, di produrre un pensiero dell’immagine del cinema come statuto spettacolare del segno, e della relazione tra segni e spettatori. Esclude, di fatto, la mitologia stessa del cinema: la sua antropologia dell’immaginario e il regime estetico originale di un dispositivo di conoscenza spettacolare. Così a seguire, nelle domande successive, il fuoco dell’attenzione critica di Lévi-Strauss si attesta nel fronteggiare e denunciare come risibile la modernità in quanto attacco alla forma; lambisce e determina il campo stesso della questione immagine, la nozione di verità, e quindi il cinema di ambiente e registro etnografico. › Un certo cinema rivela fortemente la volontà di elaborare riflessioni con il materiale grezzo: è quello che è stato definito cinema-verità. ›Lo conosco da un po’ perché si è sviluppato in ambienti contigui all’etnologia. Ma bisogna distinguere due aspetti: il documentario etnografico merita il nome di cinema-verità, e può essere ammirevole, se è fatto da un personaggio come Rouch. Nel cosiddetto “cinema-verità”, invece, come rivelatore della nostra società, ci vedo soltanto un inganno – consapevole o no – dal momento che questi film procedono, in generale, nel modo seguente: si comincia con una serie di testimoni, si continua con una serie di complici e si finisce con un certo numero di compagni. Ma per tutto il tempo si è cercato di far credere di essere rimasti fermi alla situazione iniziale. ›Rouch è forse colui che, all’interno stesso di questo sistema, ha conservato una maggiore autenticità: anche in Chronique d’un été, il suo film più discutibile, probabilmente… ›Nonostante l’amicizia e l’ammirazione che nutro per Rouch, devo riconoscere che, in Chronique d’un été, al momento della spiegazione tra i due amanti, che difficilmente potevano non essere consapevoli della presenza di una macchina da presa davanti al loro naso e di un magnetofono ai loro piedi, si è allontanato dalla verità. Ammetto il cinema-verità, ma allo stesso titolo dei taccuini di appunti dell’etnologo e del sociologo che lavorano sul campo. Con la differenza che noi non pubblichiamo i nostri taccuini di appunti: sono a uso interno. › Ma, in Moi, un noir e La piramide humaine, Rouch non giustifica la relazione del “cinema-verità” con il film etnografico? ›I due film rientrano nel campo dello pseudo cinema-verità e, assai poco, in quello del film etnografico: intendo il film etnografico nel senso stretto del termine: il documentario. Tanto Moi, un noir che La piramide humaine derivano da un adattamento della verità, ancora meno tollerabile visto che si presenta come verità tout-court. Passi, se si fosse trattato di un film di finzione nel quale si metteva poco o tanta verità. Ma il fatto che si metta anche solo un atomo di finzione in un film che aspira alla verità, discredita l’opera ai miei occhi. › Ma Rouch confessa onestamente le regole del gioco, e organizza, per l’appunto, un gioco; una situazione reale di partenza catalizzata dall’introduzione della finzione. Questo non capovolge la situazione? ›Se si tratta di finzione, probabilmente sarebbe venuta meglio con attori professionisti, una sceneggiatura e una regia: e se si tratta di un gioco, allora si bara sulla verità di questo gioco in quanto gioco, per far credere a una verità

esterna al gioco. La formula mi sembra inaccettabile, e il risultato privo di interesse. › E se non si può cascare sulla verità giocando con la finzione e con il passaggio da un piano all’altro? ›Rispetto troppo la verità per accettare che si prostituisca alla finzione, anche solo a tratti. Qui siamo nel cuore della relazione tra Lévi-Strauss e l’idea di rappresentazione, al suo rifiuto del cinema come pratica originale di questa, del film come pratica di conoscenza visiva nelle forme e nel tempo della modernità. Il Rouch accolto come sperimentatore stimabile, è, evidentemente, il Rouch dei documentari a soggetto dei primi anni cinquanta, il Rouch non citato esplicitamente, attraverso titoli, di film come Les magiciens du Wanzerbé, dei primi documentari di area songhay. Il cinema etnologico è documentario. La parola è come fatta cadere, accadere. La nozione di documento, invece, non è affrontata. Oltrepassata dalla questione della verità. La natura riflessiva e documentaria di Chronique d’une été è così elusa: relegato alla scena della finzione, né è sottaciuta o rinnegata l’evidenza dialogica come scelta e strategia. Di come la questione di ottiche del vero e del verosimile sia frutto del tempo della relazione come pratica di negoziazione. Chronique d’une été paradossalmente, nel regime di finzione necessaria, accetta il dialogo, la multivocalità: Rouch, con Morin, è fiducioso nella pratica della parola tra pubblico e privato, nell’immaginazione come pratica collettiva di ricezione e discussione, nel cinema come pratica soggettiva di un’esperienza che, nelle immagini, trova un campo di tensioni come relazioni. La verità come campo, spazio fibrato di eventi e interpretazioni, è per Lévi-Strauss inaccettabile: non è il regime delle immagini, il nocciolo della sua lettura del cinema, quanto gli stati di verità di un testo filmico. Così come non è il regime di relazione e la natura dello scambio etnografico l’obiettivo dell’etnologia, piuttosto la verità di strutture, miti, riti e linguaggi. › Dal momento in cui si comincia a fare un montaggio, una scelta, qualsiasi cosa, non si tradisce immediatamente la verità? Lo stesso etnologo è obbligato a fare questo montaggio nel suo film-blocco d’appunti… ›Esiste un montaggio in tutte le opere di scienza e, se vi si dà ragione, allora non ci sarebbe più scienza possibile… La questione è sapere se il montaggio viene fatto nell’interesse della verità o a beneficio della finzione. Ora, in tutto il cinema-verità che ho visto, c’è sicuramente una distorsione costante nella seconda direzione. Perché? Perché bisogna pur trasformare la verità in spettacolo. Perché? Perché la verità, presa così com’è sarebbe troppo noiosa e nessuno sarebbe disposto a guardarla! Ma torniamo al punto di partenza: il cinema deve essere innanzi tutto un’opera d’arte. Che un cineasta prepari la propria documentazione come vuole, è affar suo. Ma è inaccettabile che ci consegni questa documentazione nuda e cruda. Ed è ancora più inaccettabile che la adatti. […] Il grande cineasta, se fosse vissuto ai nostri tempi, avrebbe potuto essere Gustave Moreau. Io vado al cinema in cerca di un Gustave Moreau moltiplicato per tutte le dimensioni che il cinema consente di rendere; non lo trovo mai, o molto raramente, ed esco deluso.

Ed ecco, infatti, le conseguenze di questa lettura, il ritorno inconsapevolmente boasiano al tema del picturesque che Boas introduceva nella sua lettura di Flaherty: la necessità della forma, la natura spettacolare del cinema come erede dell’opera. Emerge, soprattutto, la visione classicista, e tradizionale, della narrazione. E, infine, incede sulla scena della conversazione la citazione di un artista come Moreau, l’evocazione del suo segno e del suo immaginario come progetto e destino dell’opera cinematografica. Sembra di ascoltare Walt Disney o rileggere un’intervista a Cecil B. DeMille; il disegno dello statuto spettacolare abita la forma dell’immaginario teatrale e pittorico dell’Ottocento: il classicismo si costituisce nel discorso della verità, le avanguardie realizzano il crollo degli accademismi, ma il rappel à l’ordre della forma si fa la bussola nel tempo e del tempo dell’arte. Troppo simile, a pensarci bene, sembra il cineasta al bricoleur descritto da Lévi-Strauss, colui che coi mezzi a disposizione, modificando talvolta la forma di uso di questi produce un diverso sapere, troppo simile ma iscritto nel mondo in quanto spettacolo di questo, e quindi sottoposto alla forma: Come il bricolage sul piano tecnico, la riflessione mitica attende sul piano intellettuale dei risultati brillanti e imprevisti. D’altronde si è spesso osservato il carattere mitopoietico del bricolage, sia sul piano dell’arte, bruta o naïf come nell’architettura fantastica, come nelle scene di Méliès.55 Mito che però abita già nell’opera, di cui il cinema è erede: › L’opera implica obbligatoriamente il mito? ›Sì, ciò che intendo per opera, ciò che per me è l’opera lo implica. Vale a dire Wagner, tanto quanto Boris Godunov, Pélleas et Mélisande, Wozzeck. Non pensate che potrebbe esserci in tutte le città del mondo una sala specializzata, interamente dedicata al repertorio filmato dell’opera – ossia, all’incirca una cinquantina di film – e che un tale esercizio non sarebbe redditizio su scala internazionale? Si tratterebbe, in qualche modo, del museo dei miti dell’uomo moderno: ai quali, certo, non escludo che se ne aggiungano di nuovi ogni anno. Riecheggia qui il mitologo, il melomane: l’opera come deposito di miti di cui il film produce la rimessa in scena, macchina spettacolare della cerimonia, macchina del rituale operistico: le sale diventano luoghi di culto della memoria, il cinema si fa salvage e riedizione del mito; la sala, la struttura senza sacerdoti, dove il mito, mitomorficamente, si riproduce. Sembra di poter rileggere in questa risposta sul cinema e l’opera il tema che Derrida svilupperà a partire da Il crudo e il cotto: “In opposizione al discorso epistemico, il discorso strutturale sui miti, il discorso mito-logico, deve essere esso stesso, mito-morfo. Deve avere la forma di ciò di cui parla”.56 E, se come scrive appunto Lévi-Strauss, il mito non può che darsi come anaclastico, e l’analisi del mito sembra disporsi nelle forma temporale dell’analisi freudiana, analisi interminabile, rizomatica nel lessico di Deleuze: Non esiste un termine vero e proprio dell’analisi mitica, né un’unità segreta che si possa cogliere alla fine del lavoro di scomposizione. I temi si sdoppiano

all’infinito. Quando si crede di averli dipanati e di tenerli separati, si deve poi constatare che essi tornano a saldarsi, in risposta alle sollecitazioni di affinità impreviste. Pertanto l’unità del mito è solo tendenziale e proiettiva, non riflette mai uno stato o un momento del mito. Fenomeno immaginario implicato dallo sforzo di interpretazione, la sua funzione consiste nel dare una forma sintetica al mito e nell’impedire che esso si dissolva nella confusione dei contrari. Si potrebbe quindi dire che la scienza dei miti è una anaclastica, assumendo questo vecchio termine nel senso lato autorizzato dall’etimologia, intendendo cioè sia lo studio dei raggi riflessi sia quello dei raggi rifratti. Ma, a differenza della riflessione filosofica che pretende di risalire fino alla sua origine, le riflessioni di cui parliamo qui interessano raggi privi di qualsiasi fuoco che non sia virtuale. E, volendo imitare il movimento spontaneo del pensiero mitico, la nostra indagine, anch’essa troppo breve e troppo lunga, ha dovuto piegarsi alle sue esigenze e rispettare il suo ritmo. Così questo libro sui miti è, a modo suo, un mito.57 Sfugge a Lévi-Strauss la natura mitomorfica dell’immagine movimento, la natura mitografica dell’esperienza cinematografica, la natura magico-mimetica della visione filmica. Se il cinema è, per Lévi-Strauss, un’esperienza cruciale del Novecento, la storia di una forma d’arte nascente e inconsapevole, una sorta di cellula staminale dell’immaginario collettivo e delle pratiche visive di tutti, una vera e propria tavola di Mendelejev dello sguardo, il cinema, nella sua storia produce uno stato dello sguardo irriducibile ai film: il campo di queste tensioni, tra immagini, fruizioni, storia di massa del mondo fatto e riprodotto immagine, produce uno scarto dal mimetico al mitico che l’antropologo dei miti preferisce non raccogliere. L’immagine in movimento produce, infatti, un nuovo stato potenzialmente mitomorfico, dove gli elementi formali della storia umana, probabilmente mutano: una nuova macchina mitologica produce macchine mitiche. L’analisi di questa possibilità imporrebbe una restituzione diversa dell’idea di metodo, una ridefinizione dell’idea stessa di verità, nella specie della relazione peculiare tra credenza, spettralità cinematografica, conoscenza per immagini: alle nostre ombre, che ancora ci accompagnano, numerosi avatar si aggiungono. Ma, a questo punto, vale forse l’obiezione che Derrida avanzava nel 1967, obiezione di metodo e sul metodo: Lévi-Strauss pensa così di potere separare il metodo dalla verità, gli strumenti dal metodo e dalle significazioni obiettive che il metodo prendeva in considerazione. Si potrebbe quasi dire che questa è la prima affermazione di Lévi-Strauss. Sono, in ogni caso, le prime parole di Le strutture elementari della parentela: “Si comincia a comprendere che la distinzione tra stato di natura e stato di società (oggi diremmo piuttosto: stato di natura e stato di cultura), in mancanza di un significato storico accettabile, ha un valore che giustifica pienamente il suo uso, nella sociologia moderna, come strumento metodologico”.58 L’immagine movimento, nella sua analogia apparente col vivente e la vita, nella sua biforcazione storica tra scienza e spettacolo, produce una scissura nelle condizioni dello sguardo: emerge così come uno stato di natura a venire, la disposizione nuova, nel campo

dell’umano, di produrre immagini a mezzo d’immagini. A immaginare, per immagini, la storia, ridiscutere la conoscenza e la ragione grafica, nello statuto di un discorso analogico del tutto nuovo. Ridotto al suo statuto spettacolare, il visivo, nella forma del cinema, può al massimo costituirsi come macchina mitologica nel senso barthesiano. Ripensato invece come pratica di conoscenza e di trasmissione di questa, il visivo produce nella modernità degli anni sessanta la faglia di una nuova restituzione del mondo, della pluralità dei mondi in esso. E dei modi di rappresentarlo. Vero arrischiamento, insidia da disciplinare. Lo spettacolo, e il Novecento lo mostra, è più accettabile e auspicabile come forma del rito piuttosto che del mito, o meglio come mito attenuato, dispositivo e forma di disciplina sociale di un pensiero visivo. Di cui sia la risoluzione estetica più vasta. Logos popolare diffuso. Vaccino.

5.5. Il ritorno delle immagini eloignées: didascalie, iscrizioni, descrizioni, nuove cronologie: le Saudades do Brasil Non ho mai attribuito molta importanza alla fotografia. Ho fotografato perché si doveva, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo. Tuttavia ho molto amato e abbastanza praticato la fotografia nella mia adolescenza. Quel che ho fatto io è un lavoro di grado zero. Ho pubblicato un libro di fotografie perché intorno a me c’era una grande insistenza, l’editore ha scelto duecento scatti tra molti altri.59 Durante i miei viaggi ho avuto, successivamente, due Leica, la seconda di un modello migliorato. Le foto 24×36 provengono o dall’una o dall’altra. Quelle del formato 6×6 sono state prese con una reflex Voitgländer ancora a due obiettivi di cui mi ero munito nella seconda spedizione. Durante la prima avevo oltre alla Leica una piccola cinepresa del formato 8mm di cui ho dimenticato la marca. Non me ne sono mai servito, sentendomi colpevole di tener l’occhio incollato al mirino, anziché di cercare di capire che cosa accadeva intorno a me. La mia pazienza si limitò ad alcune sequenze sconnesse, alcune fatte di immagini sobbalzanti, perché fatte mentre ero a cavallo. Ritrovati in Brasile parecchi anni dopo, quei pezzi di pellicola sono stati trasferiti su pellicola 16mm. Li ho rivisti senza convinzione qualche tempo fa al Pompidou, dove sono stati ripresentati con altre reliquie. Tra i quasi tremila negativi è stato obbligatorio scegliere. Al di là del fatto che alcuni mi ridestano soltanto vaghi ricordi, risultano molto diseguali per qualità e interesse. Sono riconoscente a mia moglie per avere stampato tutti i negativi in formato 13×18. Ciò ha consentito una prima scelta cui ne sono seguite molto altre. Alcuni negativi, mediocri, non sono stati scartati per colmare delle lacune. Matthieu LéviStrauss, le cui scelte sono state determinanti, e che ha fatto tutte le stampe nel formato 18×24, è per questo, doppiamente, autore di questo libro. Le centottanta fotografie qui raccolte si riferiscono, tutte, all’America del Sud. Senza dubbio paesi come l’India, il Pakistan e quello che è divenuto il Bangladesh hanno anch’essi un posto in Tristi tropici. Ho dovuto eliminarli, per non

appesantire la raccolta e per evitare il contrasto. La si consideri dunque per ciò che è, una testimonianza non priva di interesse per lo storico sul Brasile e sui suoi abitanti di oltre mezzo secolo fa, ai quali, come alla mia lontana gioventù, invio un saluto amichevole e nostalgico.60 Le immagini ritornano, riappaiono, autor-izzate nel senso di Geertz. Autenticate. Nel 1994 Lévi-Strauss pubblica Saudades do Brasil, ancora presso l’editore Plon. Le due citazioni, viste le fonti di provenienza, muovono da due diversi campi di verità: esse autorizzano la lettura, indicando due tonalità diverse di accostamento, esse autor-izzano il testo – le foto più le didascalie – in due diversi gradi di responsabilità, assumendolo in due diverse intensità. La prima dichiarazione è un’intervista del 2005, rilasciata in occasione della mostra dedicata alla cultura brasiliana dal Centre Pompidou, in cui sono presentate, per la prima volta al pubblico, le collezioni di carattere etnologico di Lévi-Strauss. Il secondo frammento è invece la parte conclusiva della prefazione di Saudades do Brasil, a firma dello stesso Lévi-Strauss. Evidentemente, il secondo testo si presenta come autorevole in grado e intensità maggiori che il primo. Oralità e scrittura, fonti orali trascritte e fonti scritte. Intervista autor-izzata, autorizzazione di un proprio testo. Nell’intervista, Saudades do Brasil è una sorta di testo occasionale, un fortuito quanto sollecitato détour, un oggetto frutto di saggezza e distacco, abbandono possibile alla memoria, tempo distrattamente ritrovato. La fotografia una pratica occasionale, occasionata dall’adolescenza, oggetto ironico di una lunga adolescenza – senza alcuna ironia ovviamente: siamo negli anni trenta, nella seconda metà degli anni trenta, e, come da calendario tradizionale ebraico Lévi-Strauss si avvia alla maggiore età… Le fotografie che formano il libro, nell’intervista datata 2005, undici anni dopo, sono la scelta di un editore, il frutto della sua scelta. Nel frammento, estratto dalla prefazione di Saudades, le parole e le cose si impegnano diversamente nei confronti di chi legge, e istituiscono la scena di una verità più complessa. Il testo fotografico è frutto di scelte successive, di un lavoro di scavo in un materiale ben conservato, la cui ampiezza denuncia e dichiara la pratica fotografica come non casuale: tremila scatti. Introduce nella dinamica delle scelte la famiglia, la moglie Monique Lévi-Strauss, la studiosa di tessuti e storia materiale, il figlio. Indica la scelta come atto quanto meno duale, di padre e figlio, produce un set dove il lavoro materiale di stampa è assunto direttamente dagli autori, scrive infine di un processo dove la stampa e la visione successiva producono il campo delle scelte, quindi le scelte. Vedere per sapere. Sapere per scegliere. Il criterio della selezione. Una lunga consuetudine con le foto, evidentemente, un deep hanging out con le immagini, l’attitudine alla verifica dello statuto di queste, o almeno della verità parziale di un’immagine, come testo, in un contesto. Da cui ecco le indicazioni, gli orientamenti di lettura proposti: fatta la storia materiale delle immagini, le immagini vanno pensate come testo, va definito il terrain di una visione. La cifra della selezione allora si precisa e decifra: alcune foto sono scelte, si direbbe, come raccordi, link narrativi, a prescindere dalla qualità dei negativi o dalla qualità estetica – l’estetico non è esplicitato ma neanche escluso; altre immagini si escludono invece, perché il testo le esclude, perché la formazione testuale le abbandona, le tralascia. Tuttavia la legenda è chiara; un’indicazione di lettura si definisce e si dà: Tristi tropici come chiave di lettura del testo, come matrice di esso, o testo a fronte. Ecco l’anacronismo, la procedura allocronica, o diacronica, paradossalmente autorizzata da Lévi-Strauss: le foto,

flagranza di vita e terrain, memoria che insieme a note e taccuini generano Tristi tropici, che si erano fatte inserto nell’edizione francese, ritornano, come immagini davvero lontane, prodotte da un’altra scelta e in un’altra scelta, come il testo di un racconto, a didascalia visiva di un’opera, le note di taccuino di uno dei testi chiave dell’antropologia moderna. Ma perché questo accada una selezione ulteriore deve prodursi; dal testo fotografico vanno espunte le immagini dell’India, del Bangladesh, le immagini americane. La memoria si costituisce attraverso un testo e, da questo, orientata, produce come scena primaria, in un certo senso, il Brasile stesso, atto di nascita e di fondazione di un’impresa, memoria del campo come esperienza critica di un autodidatta eterodosso: due spedizioni in quattordici mesi come fondazione di un mondo. Tra le foto poi, appare, ulteriore, la memoria dei film, quasi una traccia misteriosa, riassunta nella dichiarazione di un girato in 8mm poi trasferito – da chi? – in 16mm: restituzione di un’esperienza sotto il segno del caso, dichiarazione della sua impraticabilità teorica: “Non me ne sono mai servito, sentendomi colpevole di tener l’occhio incollato al mirino, anziché di cercare di capire che cosa accadeva intorno a me”. Teoria, quindi, come pratica a occhio nudo del vedere che consenta, prima della tecnica, una presa diretta col reale, la fiducia nella propria vista. Almeno così è scritto. Come se l’occhio fosse davvero capace di registrare più intensamente della camera, come se la camera obbligasse a una visione mediata della realtà, come se non ci fosse, per così dire, qualcuno dietro l’occhio, così come c’è infatti qualcuno, in una pratica diversa, dietro una camera. LéviStrauss dichiara quindi di avere usato una macchina da presa a 8mm, un formato usato raramente nella ricerca di campo, un formato amatoriale, a sottolineare una presa di distanza ulteriore da ogni progetto di uso del film come strumento di indagine di campo. E per validare questa dichiarazione produce una confessione ulteriore: “La mia pazienza si limitò ad alcune sequenze sconnesse, alcune fatte di immagini sobbalzanti, perché fatte mentre ero a cavallo”. Di scene sobbalzanti, meglio di inquadrature, ve ne è soltanto una, appunto a cavallo. Vi sono ancora alcune inquadrature, due panoramiche, che visto l’angolo di ripresa, potrebbero essere state realizzate a cavallo, ma da fermo. Vi è poi una lettera di richiesta di autorizzazioni, a firma Mário de Andrade e indirizzata alle autorità amministrative della municipalità di São Paulo, dove si esplicita la volontà e la disponibilità del professor LéviStrauss a realizzare un film, senza alcun compenso se non di un rimborso spese per i materiali e le lavorazioni successive, lettera del 1935 in preparazione della spedizione etnografica di Claude e Dina Lévi-Strauss, missione i cui obiettivi sono appunto la raccolta di collezioni per la nascente Società di etnografia di São Paulo e per il Musée de l’Homme di Parigi, presso cui Dina ha lavorato in qualità di assistente di Rivet. Vi sono i documenti della relazione del 1935 dell’Institut d’ethnologie, già citata, un film del 1991, Tristi tropici, dove il materiale filmato è presentato in forma di estratto, di provenienza, dichiarata, dall’archivio dell’etnologo francese, di cui è difficile immaginare un uso non concordato e autorizzato. Film non tanto casuali quindi, pratiche certamente sperimentali, ma oggetto di un disegno che i documenti restituiscono e che la memoria pubblica di Lévi-Strauss sminuisce o occulta. L’edizione poi, con i cartigli in portoghese, le indicazioni di localizzazione, la nominazione di oggetti o pratiche – il marid’do nel film bororo ad esempio – non possono essere il frutto di un casuale intervento, ma indicano il lavoro di almeno uno dei due coniugi all’edizione. Il montaggio, soprattutto, non appare casuale, ma procede secondo una logica narrativa precisa, come nelle scene iniziali e finali, quasi sempre totali o panoramiche, nelle intensificazioni

diegetiche – le doppie panoramiche –, nelle ripetizioni. Gli assi metonimici di restituzione degli elementi, la definizione narrativa, non soltanto descrittiva, dei luoghi visitati e filmati, inducono a pensare a una lavorazione dei materiali nel progetto di una fruizione pubblica: i film sono davvero tali, sperimentalmente tali. Lévi-Strauss è evidentemente omissivo, assegna ai materiali la dimensione di reliquia, vive la loro esistenza in misura problematica, materiali come relitti, di cui viene inventato un abbandono: dà finanziamento, i materiali sarebbero rimasti comunque di proprietà brasiliana. Materiali certo trascurati, a fronte della cura evidente nella conservazione dei negativi fotografici, esito di una pratica amata soltanto nell’adolescenza, ma evidentemente proseguita nell’arco lungo di una lunga vita, se dal testo di Saudades vengono espunte le immagini indiane o come quelle americane, o del Bangladesh, così come da Tristi tropici del resto, già nel 1955. Testo di Saudades do Brasil, appunto: testo. Due movimenti di pensiero, due ragioni impalcano questo volume, due pratiche linguistiche, la scrittura e la fotografia. La prima si declina in due diversi registri: il primo, saggistico, il secondo nostalgico. L’introduzione è un testo destinato a un lettore non specialista, intensamente attraversato dal pathos della storia, dalla necessità dell’antropologia di inscriversi nella storia stessa, riscrivendola. Testo orgoglioso e patetico, scientifico e passionale, rivendica una nuova cronologia della storia del continente americano, lavora sull’intuizione di una controstoria che il campo tra i Nambikwara gli aveva suggerito già nel 1938, di una storia regressiva di popoli distrutti, storicamente, dalla colonizzazione spagnola e occidentale; di una storia amazzonica all’origine delle grandi civiltà andine; di una storia che l’archeologia ritrova, che dà credito ai racconti dei viaggiatori cinquecenteschi, la storia dei grandi fiumi sulle cui sponde città fortificate e ricche di vita e commerci animavano il paesaggio di traffici e culture, quella storia che l’organizzazione sociale dei Bororo, la loro ricchissima mitologia, la cultura formale artistica dei Caduveo, ancora testimoniano. Il secondo registro, descrittivo e nostalgico, appare nel primo paragrafo della prefazione, nella madeleine proustiana che cifra l’ouverture musicale del testo, la forma di un tema, l’evocazione della memoria come olfatto, della memoria degli odori come traccia di vita, la vita dei taccuini nell’odore del creosoto, la loro vita, negli odori della savana. Il creosoto è presentato come viatico, come rimando di una memoria che la fotografia, nella sua superiore e apparente potenza, non è in grado di restituire, risultando al più indizio, prodotto fisico, oggetto anaffettivo, flagranza del visivo come racconto dell’assenza, come potenza che produce assenza: l’immagine congela l’immaginazione. Il creosoto di cui, prima di partire per una spedizione, impregnavo i bauli per proteggerli dalle tèrmiti e dalla muffa: ne colgo ancora l’odore quando dischiudo i miei taccuini. Quasi impercettibile dopo più di mezzo secolo, questa traccia mi rende tuttavia immediatamente presenti le savane e le foreste del Brasile centrale, componente indissociabile da altri odori, umani, animali e vegetali, e anche da suoni e da colori. Per quanto possa essersi ormai affievolito, quell’odore, per me profumo, è la cosa in sé, una parte sempre reale di quello che ho vissuto. Forse perché sono passati troppi anni – pure. Il loro numero è lo stesso – la fotografia non mi dà più nulla di simile. I miei negativi non sono una parte, protetta fisicamente e come per miracolo, di esperienze in cui tutti i sensi, i

muscoli, il cervello, erano impegnati: ne sono soltanto indizi. Indizi di essere, di paesaggi e di eventi che so ancora di aver visto e conosciuto; ma dopo tanto tempo, non sempre ricordo dove e quando. I documenti fotografici me ne provano l’esistenza, senza testimoniare per loro, senza rendermeli sensibili. Rivedendole, quelle fotografie suscitano in me l’impressione di un vuoto, di un’assenza di ciò che l’obiettivo è sostanzialmente incapace di cogliere. Sento il paradosso costituito dalla mia scelta di pubblicarle in un numero maggiore, meglio riprodotte e spesso diversamente inquadrate rispetto a come consentisse il formato di Tristi tropici; come se, all’opposto di ciò che accade per me, potessero offrire sostanza a un pubblico, dal momento che non è stato laggiù e deve accontentarsi di questa iconografia muta e soprattutto perché tutto ciò, rivisto sul posto, apparirebbe irriconoscibile e, per molti aspetti, semplicemente non esiste più.61 Ma se la prefazione si disegna, nel suo incipit, come un’ouverture musicale, un andante della memoria, per poi farsi un poema sinfonico didattico, nella scelta di una dimensione patetica, un andante espressivo, quasi un largo, e infine compiersi e concludersi con una sorta di metatesto che spiega, strutturalmente, se stesso – come in una composizione di Luciano Berio –, le didascalie alle foto sono una sorta di clavicembalo ben temperato della nostalgia. Piccolo microcosmos per lettori non specialisti, le didascalie si presentano come esercizi di conoscenza musicale nella chiave della melodia: più correttamente, accolta la metafora musicale, chidren’s corner debussiani, o il tombeau brasilien di Lévi-Strauss sulle tracce di Ravel-Couperin, anche se il titolo del libro, com’è noto, riprende una famosa composizione di Darius Milhaud, datata 1921, gli anni brasiliani del compositore francese. Che cosa rivede e descrive allora Lévi-Strauss, e come si rilegge? Come rilegge le foto della prima spedizione del 1935-36, dopo oltre cinquant’anni, quelle foto di campo che ritroviamo nelle inquadrature dei film, quegli stessi tagli, posizioni di ripresa, che accomunano il girato e il fotografico? Che cosa vuole che si legga e come ci guida nella lettura? È possibile incrociare le foto e le didascalie con le immagini in movimento, e rivedere insieme i materiali coevi, alla luce di indicazioni dell’autore che li ha prodotti, indicazioni che vedono la luce sessant’anni dopo? Considerare la natura delle didascalie stesse, l’obiettivo retorico di queste? Le foto dei Caduveo – dieci in tutto – sono le foto di donne dai dipinti facciali affascinanti e interrogativi. Sono le stesse donne filmate in Il villaggio di Nalike I e Il villaggio di Nalike II: il taglio fotografico, in almeno tre scatti, è identico a quello dell’inquadratura cinematografica. La didascalia restituisce una pura evocazione, a leggere ciò che la vista produce, vede: geometrie che segnano i volti, tratti, segni, dipinti come impressioni corporali ed espressioni estetiche a eccezione di un’indicazione qualitativa e cronologica, nel caso di una ragazza truccata e abbigliata elegantemente per la festa della sua pubertà. Nulla della natura dei disegni come appartenenza castale e gerarchica, espressione sociale oltre che estetica, nulla della cultura del disegno, cultura corporale antica, come prassi di affermazione della natura umana, emergenza dell’umano dalla natura, esplicitata nelle pagine di Tristi tropici. Le fotografie di campo dei Bororo, diciotto fotografie, riportano alla cerimonia funeraria e al gioco del marid’do, restituiscono un totale del villaggio con la casa comune maschile, ci restituiscono il volto di un un indio che ri-conosciamo dalla mostra di Parigi del 1937. Che cosa ci invita a leggere Lévi-Strauss in queste foto? Ecco che la nostalgia ritorna scienza: la

didascalia iniziale descrive il villaggio nella sua struttura circolare, nella relazione spaziale tra casa degli uomini al centro e case di proprietà delle donne intorno. La foto panoramica, esplicitata dal testo, introduce il tema della geometria come organizzazione sociale, della relazione radiale tra spazi di nascita e strutture della parentela: nascere in una metà del cerchio e prender moglie con una donna dell’emicirconferenza opposta. Curiosamente, invece, la foto del gioco del marid’do, il disco rituale delle cerimonie funerarie, viene riproposta non come traccia del gioco funerario, ma come pratica ludica, mentre la didascalia sottolinea la natura spettacolare sia del funerale che della pratica sportiva. Come una concessione allo spettacolo dell’evento, piuttosto che all’evento steso, riaccostato e offerto al pubblico nei modi di un pratica agonistica, semplificando una parte del rito. Divulgando e seducendo. Appaiono poi le foto dello stesso indio già ritratto sulla copertina del catalogo della mostra parigina del 1937, il suo informatore bororo come sappiamo da Tristi tropici, il suo professore di sociologia bororo, educato dalle missioni salesiane, portato a Roma in visita al Papa, sposato secondo il rito cattolico, quindi ritornato nel villaggio e rientrato nella comunità. Le didascalie lo restituiscono qui con un tono assai più neutro che nello scritto del 1955: lo rivelano come un prezioso informatore; ne tratteggiano la vita come accadere; ne sottolineano – foto in bianco e nero – i capelli rossi colorati di oriana, non ci restituiscono il suo nome. Ci informano della sua conoscenza del portoghese. Del suo viaggio in vaticano a Roma. Nel 1955 l’immagine dello stesso uomo emergeva altrimenti: le parole lo drammatizzavano come exemplum di un conflitto di civiltà, come il segno di un disagio; ma anche Tristi tropici non ci restituiva il suo nome. I nomi, ignoti, restano come auspicio, in forma di epigrafe, in Antropologia strutturale II, nella citazione del dittico dai “Tristia” di Ovidio: “Vos quoque pectoribus nostris haeretis, amici, dicere quos cupio, nomine quemque suo”. Invece che nomi radicati nei cuori, l’archivio di Lévi-Strauss reca stampe e negativi. Immagini di fatti e atti. Un altro scatto fotografico di questo stesso soggetto lo mostra ripreso in campo più largo; l’inquadratura, in campo lungo, è qui utilizzata per la descrizione degli abiti tradizionali, delle acconciature sontuose, delle decorazioni corporali, delle asticciole buccali. Curiosa procedura visiva, naturalistica nel senso della grammatica, tradizionalmente etnografica, nel segno della sintassi, oscillante tra descrizione e interpretazione, ri-orientata paradossalmente dalla didascalia. Le foto sono montate in pagine diverse. Il primo piano, il close up, come piano dell’identità, con la didascalia che ci dà il profilo storico dell’informatore, anticipa la figura intera; questa si presenta come una biografia della cultura e della società, nell’abbigliamento e nella decorazione. Costruzione di un montaggio nella stessa inquadratura, montaggio della stessa immagine, che la scrittura orienta, che la tradizione della rappresentazione impalca, che la reinvenzione della memoria impegna agli occhi di chi guarda, come la bio-grafia di un mondo. Scrivere nuovamente, nel 1994, e in breve, il ritratto di un uomo incontrato nel 1936, scrivere a piè di pagina della sua immagine, del suo ritratto fisico, del suo volto, scrivere ai piedi del suo ritratto culturale: gli abiti rituali. O almeno proporne la retorica. Sono poi ben quarantanove le immagini ristampate dedicate ai Nambikwara. Immagini decontestualizzate, come si è detto, le cui inquadrature neutralizzano lo spazio circostante, nell’enfasi del primitivo per un verso, a risolvere autorevolmente e poeticamente la potenza insidiosa del fuori campo, della storia come ibridazione e conflitto. Tuttavia questa serie di foto è utile per riflettere sull’uso stesso del materiale da parte dell’etnologo francese, sui suoi

processi di formazione, sulle traiettorie di ingaggio con le tecniche di campo. Come ha osservato Marcelo Fiorini il primo blocco di foto è una messa in forma fotografica dei concetti espressi da Mauss in Tecniche del corpo, una serie di atti movimenti, indizio di una volontà tassonomica, di una istanza di osservazione classica del movimento nei modi dell’analisi fotografica, del record di indici. Ma è anche la testimonianza del percorso di autoformazione di Lévi-Strauss, della dimensione tradizionale della sua azione sul terreno nel Brasile della seconda metà degli anni trenta. Questa scelta dichiara poi come i Nambikwara segnino profondamente la riflessione e persino lo spazio emotivo di Lévi-Strauss: l’uomo nudo nel suo stadio presociale riconsegna all’etnologo francese le chiavi di una genealogia spesso utilizzata, da Léry62 a Montaigne a Rousseau, reinscrivendo lo strutturalismo come esito di una riflessione teorica più vasta, dove viaggiatori, storici, filosofi, intrecciano un fitto dialogo di cui Lévi-Strauss si fa erede e interprete, reintroducendo, grazie al concetto di società regressive, lo spazio storico come matrice del tempo umano. Ma tra le foto riprodotte nel volume una foto, in un formato leggermente diverso, ci ripropone l’immagine già acclusa a Tristi tropici, di un ragazzino con un ornamento al naso e una fibra rigida ornamentale che gli attraversa il labbro superiore. Dalle ricerche tra i Nambikwara di Marcelo Fiorini ne conosciamo adesso il nome. Il ragazzino, divenuto ormai anziano si chiama Tito Wakalitesu, e nel 2008 era l’unico sopravvissuto tra i Nambikwara oggetto dell’etnografia di Lévi-Strauss. Nella memoria di Tito l’etnologo francese si chiamava invece Massimo Levi. Ma se la memoria dei nomi è suscettibile di imprecisioni e storpiature, Tito ricordava bene l’attività di fotografo del professore straniero. Le osservazioni etnografiche di Fiorini, pubblicate sul Journal de Societé des Americanistes nel 2008, e quindi su Ethnies, nel 2009, restituiscono elementi di grande interesse sul passaggio di Lévi-Strauss tra i Nambikwara, e soprattutto un circuito di senso profondo la cui origine è la spedizione del 1938, unita alla decisione, appena successiva, dei missionari di raccogliere del materiale fotografico come archivio dell’etnia. Nella lingua del gruppo, scrive Fiorini, il termine nambikwara per descrivere il processo fotografico di registrazione – uh wa li – ha lo stesso senso della parola “scrittura”. Sembra così di poter dire che la lezione di scrittura, il capitolo 28 di Tristi tropici, e la presenza di fotografo dell’etnologo francese, abbiano generato e suscitato, nell’uso estensivo dell’espressione uh wa li – una nuova formazione di senso, un apparentamento profondo tra scrittura e fotografia come istanze di memoria, atti di registrazione, una semiotica semplice e potente dell’indice radicata nello spazio linguistico, nella memoria tramandata di un comunità relitto di un antica società amazzonica.63 Se Lévi-Strauss nel 1938 scopriva l’uomo, i Nambikwara scoprivano scrittura e fotografia. Se Lévi-Strauss riscopriva la storia come relitto di società regressive, i Nambikwara si accostavano alla storia nell’equazione scrittura fotografia, nel linguaggio possibile dell’archivio. Nell’intenzione di leggere le immagini come parole e viceversa. Del resto, appena un anno prima, nel 1937, Alfonso Arinos de Melo Franco pubblicava un trattato dal titolo L’indiano brasiliano e la Rivoluzione francese,64 ricostruendo lì i complessi legami intercorsi tra la scoperta dell’America e la riflessione europea sulla natura del selvaggio da Montaigne sino ai temibili Tupinanambas di Rousseau, due autori essenziali alla genealogia teorica di Lévi-Strauss, il primo riletto quasi come un protostrutturalista, il secondo come profeta dei Nambikwara. I selvaggi brasiliani si manifestavano così come una traccia profonda nel pensiero di lingua francese, una traccia capace di suggerire teorie e scelte politiche, oltre che filosofie. Una traccia rilevabile nella trama di viaggi e scoperte, di

corpi esotici e immagini dipinte della esuberante natura brasiliana, come la serie realizzata da Albert van Eckout, donata a Luigi XIV dal governatore di Nassau e utilizzata come master per le tappezzerie prodotte per il re dalle manifatture di Gobelins e che adornavano Versailles nei giorni della rivoluzione, quando, nell’immaginario, gli indios discesero idealmente dagli arazzi per avviarsi anch’essi alla presa della Bastiglia. Scrivere ripensando le immagini come didascalie dei testi: questo è il progetto di Saudades do Brasil. Lévi-Strauss rilegge le sue immagini come taccuini, ma queste, per quanto scelte e selezionate, non sempre accettano la riduzione: una volta montate in sequenza tracciano un racconto le cui possibilità le didascalie non esauriscono. E, nello stesso tempo, gli scatti, nella frizione fra tempo nello scatto e scatto nel tempo, rendono la vita più dura alla didascalia: il tempo di lettura come montaggio produce, poi, uno scarto, ulteriore. E così l’esistenza dei film, come montaggio di immagini di quei corpi in quei luoghi, produce un circuito di senso. Il vide et impera scivola e perde il suo equilibrio. Il terrain è mobile. Almeno quanto gli occhi, almeno quanto le immagini, una volta che queste assumano la forma di una rappresentazione analogica complessa. Oggetti melanconici, incontrano, nella malinconia, il loro riscatto, lo scarto del senso, il misplacement, nel tempo, di ogni immagine rispetto al suo set. Si offrono queste foto, nella forma di un libro, come un tombeau fotografico, come ha scritto su Critique Emmanuel Desvaux, nei modi di un dialogo cifrato e segreto con La camera chiara di Roland Barthes. Se, come dice Lévi-Strauss ne Il pensiero selvaggio, i sistemi di appellazione comportano i loro astratti, le immagini riprodotte appellano sempre gli astratti. Tutte le immagini riprodotte, pur negli indici di verità possibili, appellano comunque i rispettivi astratti. L’astrazione puntuale dell’immagine è la soglia di accesso alla sua interpretazione. La ricostruzione dei modi di produzione e fruizione è la condizione della possibilità stessa di un ermeneutica del materiale visivo.

5.6. Il gran teatro del mondo: nello splendore della parola immagine Immaginiamo per un istante che gli astronomi ci avvertano che un pianeta sconosciuto si sta avvicinando alla terra e che per venti o trent’anni esso rimarrà presso di noi per poi scomparire per sempre. È chiaro che non risparmieremo né sforzi né denaro per costruire telescopi e satelliti appositamente destinati a sfruttare questa grande occasione.65 Se si guardasse in questa prospettiva l’avvenire dell’antropologia, nessuna disciplina apparirebbe certo più importante e urgente. In effetti le culture indigene si disintegrano più velocemente dei corpi radioattivi, e la Luna, Marte e Venere saranno sempre alla stessa distanza dalla Terra quando lo specchio tesoci da altre civiltà si sarà talmente allontanato dai nostri occhi, che nessuno strumento, per quanto complesso e costoso, di cui potremo allora disporre ci permetterà più di osservare e neppure di percepire questa immagine di noi stessi, offerta un tempo

al nostro sguardo e ora fuggita per sempre.66 Nel teatro delle celebrazioni smithsoniane, nel bicentenario della nascita di Smithson, fondatore dell’omonima istituzione, a Washington, in terra americana, Lévi-Strauss rimette in scena, re-enact, il tema boasiano del salvage, la rimessa in gioco, nel 1965, di un’attenzione che in nome dell’altro si faccia nome e nomos di noi stessi. Il registro melanconico attilla le pieghe del finale: non più degni di sguardi, gli altri le cui vite si raccontano, essi mostrano la forma del nostro passato, ma anche le forme possibili del nostro futuro (basti pensare ai popoli amazzonici distrutti dal contatto dei colonizzatori). Gli altri adesso scompaiono. Noi scompariamo con essi. Meno di dieci anni dopo, una scena di diversa malinconia, una pratica di salvage occidentale, era messa in scena a Parigi, sotto le volte austere e sussiegose dell’Académie française. Lévi-Strauss recitava qui la scena di una parola di omaggio rituale a Henry de Montherlant, poligrafo e scrittore, noto autore teatrale nella Francia tra le due guerre. Nella forma usata della perorazione dell’eletto cui succedeva, nell’accostarsi al cuore retorico dell’omaggio, il decano dell’antropologia francese introduce sotto le volte austere scene di iniziazione indiane, storie di confraternite, noviziati tribali. A conclusione del suo intervento tace. È il tempo di ascoltare – di leggere – la risposta prevista al suo atto di adesione e omaggio: Signore, quando risaliva i fiumi impassibili per addentrarsi nell’umidità di quei tropici di cui ha raccontato la tristezza, non si sarebbe aspettato, almeno presumo, di occupare un giorno un seggio tra noi in questo abito non meno carico di ornamenti di quanto lo siano di pitture e tatuaggi i corpi degli indiani che Lei si dedicava a meglio conoscere e dai quali ha avuto l’umiltà di dichiarare che riceveva lezioni – l’umiltà o forse la segreta soddisfazione di darne una, in tal modo, ai suoi ascoltatori. Eccola dunque inaugurare in questo giorno le sue decorazioni, che sono l’esito di un’elezione, voglio dire che, se non può più deporle, almeno le ha scelte.67 È con queste parole che Roger Caillois, il grande poligrafo francese del Novecento, l’autore che attraversa surrealismo e tradizione, avanguardia e classicismi, scrittore, nel senso che questa parola assume nella cultura transalpina, compagno di Bataille e Leiris nel Collège de sociologie e avversario di Lévi-Strauss, nella durissima polemica all’atto della pubblicazione di Race et culture, saluta l’elezione, nel 1974, all’Académie di Claude Lévi-Strauss. L’immagine di apertura del discorso di elezione da parte di uno dei membri della confraternita degli eletti, gli immortali di Francia, ci muove ancora verso Tristi tropici, testo cruciale della vita del suo autore, testo cruciale – perché letteratura – nel gradus ad parnassum della vita intellettuale francese. Messa in scacco autorevole dell’esotismo, testo politico ed esistenziale, una sorta di specchio de La Nausea sartriana, il testo attraversa gli anni e le polemiche, diventando la chiave di volta dell’accesso del primo etnologo di sempre nella centenaria istituzione. Visto e letto come un détour letterario, come una straordinario esempio di scrittura, di écriture, è la patente della vestizione tribale, nel senso di Caillois, di Lévi-Strauss. Caillois, mimeticamente

e retoricamente, ritorna sui luoghi della sua polemica, della polemica di civiltà degli anni cinquanta, ma vi ritorna nella forma dell’ironia: la scena tribale dell’accademia accoglie, cerimoniosa, tra arazzi, feluche, splendidi copricapo d’antan, spadini preziosi, una distinta congerie di eletti, di probabili o pretesi saggi. Elezione rituale e memoria di liturgia laica di una scena della tradizione, dove le caste e il sangue – siamo tuttavia in Francia, c’è stata una rivoluzione – fanno spazio all’elezione dell’intelletto, all’elezione del talento. E dubitando e puntualizzando, commentando la natura dell’umiltà del suo interlocutore, allievo di selvaggi e maestro di molti intelletti civilizzati, Caillois lo accoglie nel mondo delle insegne, degli emblemi. Per ricordargli e puntualizzare, con acume e acribìa, la natura stessa della scienza antropologica: Essa si presenta come la sola scienza che contribuisca a distruggere il suo oggetto, in quanto manda negli ultimi rifugi dove sussistono ancora gli uomini allo stato di natura gli investigatori meglio preparati che ci siano e i meglio provvisti di una materia invidiabile, così che una popolazione selvaggia sarà studiata una sola volta nel suo stato di innocenza per quanto concerne l’universo tecnico. La presenza dell’etnografo più cauto annuncia o consacra la contaminazione senza ritorno della tribù in cui soggiorna. Il campo dell’etnografia somiglia a una pelle di zigrino all’estremo della sua diminuzione progressiva. Ogni giorno la estenua. Domani esisterà solo negli scaffali delle biblioteche. Niente distinguerà più l’etnografia dall’archeologia e dalla storia. Gli etnografi, se ancora ne esistono, ne sono consci e sono divisi tra l’orgoglio di far parte degli ultimi rappresentanti di una dinastia illustre e la certezza dell’inevitabile esaurimento delle fonti umane che alimentano la loro disciplina. I soggetti dello studio non possono infatti non ricongiungersi con i loro stessi studiosi.68 Critica serrata e pointu all’etnologia, alla sua natura distruttiva, alla conoscenza come forma del dominio, critica tradizionale e tradizionalista – sono queste le posizioni di Caillois – che tuttavia richiamano le immagini melanconiche di Tristi tropici, la deriva rousseauiana presso i Nambikwara, oggetto infinitamente melanconico di immagini e immaginazione, società certo regressiva, ma specchio di un possibile stato di natura, oggetto melanconico delle fotografie di Saudades do Brasil, il corpus più importante del ritorno di Lévi-Strauss sulle sue immagini eloigné. La mossa retorica di Caillois muove le pedine dell’adesione e del distacco, esercita l’affondo, per dimostrare, a nome suo e di tutti, della comunità che rappresenta, la riconoscenza verso l’agire dell’uomo scienziato, nell’elogio della distanza come presenza, e della sospensione del giudizio come via dell’onestà intellettuale, pur ribadendo la non relatività dei valori, anzi la possibilità di disporre di una gerarchia universale. Egli abbandona ogni senso di superiorità, conserva sicuramente quello della differenza, ma valutando che questa differenza è compensata e trova posto in una totalità indivisibile da cui non è opportuno isolare un termine o un altro. Sarebbe, in effetti, imprudente, ingannevole, aggiungerei inumano, giudicare, ancora più che condannare, un genere di vita o un altro dall’esterno, a partire da criteri estranei. Meglio ancora, coloro che restano coscienti che esista nonostante tutto

una gerarchia oggettiva, universale, dei valori, devono farne astrazione per il tempo e nell’ambito della loro ricerca, affinché un’antipatia o una qualche sufficienza non vada, a loro insaputa, a intaccare un’imparzialità necessaria.69 Scena dell’ammissione, rito di passaggio tra altri, della carriera di Lévi-Strauss, il rito de l’Académie si mostra come un culmine ironico, segno parodico di una tribalismo moderno, cui coniugarsi, per declinare, in forma diversa, il proprio nome. Trentacinque anni prima, il gusto del teatro o la volontà di astrazione dalla miseria e dalle malattie del luogo, avevano dettato al giovane antropologo in formazione l’idea, la possibilità, di una riscrittura della Cinna di Corneille, di una sfida alla lingua e al teatro della tradizione, immagine estrema restituita senza pudore, in nome della letteratura, dalle pagine di Tristi tropici: La mia commedia si intitolava L’apoteosi di Augusto e si presentava come una nuova versione della Cinna. Protagonisti erano due uomini, amici di infanzia, che si ritrovavano al momento cruciale, per entrambi, delle loro divergenti carriere. L’uno, che aveva creduto di optare contro la civiltà, scopre che ha usato un modo complicato per rientrarvi, ma con un metodo che aboliva il senso e il valore dell’alternativa di fronte alla quale pensava di essersi posto. L’altro, votato fin dalla nascita alla vita sociale e agli onori, capisce che tutti i suoi sforzi erano stati in direzione di una meta che destinava tutto ciò all’annientamento; entrambi cercano, nella loro distruzione reciproca, di salvare anche a costo di morire, il significato del loro passato.70 Evidentemente autobiografico, facilmente inscrivibile nell’anacronismo proiettivo delle ricostruzioni, il testo risulta ancora una volta esemplare, direttamente innestato sul passato di Lévi-Strauss, sul suo percorso accidentato e sorprendente, veridico, se riportato alla data del 1955, alla data della seconda esclusione dal Collège de France. Forma teatrale di confronto con la forma, la segreta e necessaria cifra delle esistenze, delle società. La forma teatrale è la misura occidentale del rito e della cerimonia, la coscienza spettacolare, quindi la trasmissione pubblica della tradizione: la Cinna di Lévi-Strauss, scritta, o almeno immaginata, nella savana brasiliana, in solitudine e sul retro di fogli di appunti fitti di genealogie, vocabolari, appunti di fonetica, è un’immagine epitome della modernità in polvere: il classicismo dell’ipotesi drammaturgica non salva l’antropologo, il testo non vede la luce, l’etnografia mette in scena le sue vie di fuga… Nella giungla amazzonica Herzog metterà in scena il trasporto di una nave e il sogno dell’opera a Manaus, il sogno del canto in Fitzcarraldo. Lévi-Strauss, uomo di passioni teatrali, metteva in scena, in forma di scrittura, Corneille, mentre i Bororo, nella sua prima spedizione, nei primi mesi del 1936, cantavano nelle loro cerimonie, mettendo in scena, nei loro villaggi circolari, i riti della loro complessa mitologia: Del resto una delle prime emozioni sono state per me le cerimonie che si svolgevano quando mi trovavo tra i Bororo. Accompagnavano i loro canti con sonagli che maneggiavano con lo stesso virtuosismo con cui un grande direttore d’orchestra usa la sua bacchetta. Qualche mese fa ho ricevuto la visita di due indiani bororo accompagnati da due

ricercatori dell’università di Campo Grande, nel Mato Grosso, la più vicina al loro territorio e dove loro stessi insegnano. Hanno voluto, di loro iniziativa, nel mio ufficio al Collége de France, cantare e ballare per me. Ecco precisamente uno dei paradossi nei quali viviamo: questi colleghi Bororo conservavano in tutta la loro freschezza e autenticità quei canti e quella musica che avevo sentito settant’anni prima. È stato molto commovente.71

5.7. Epifanie e ritorni Nel volume pubblicato nel 2001 da Luis de Castro Faria, i membri della spedizione del 1938 appaiono spesso intenti al lavoro etnografico. Le foto, come detto, manifestano una più semplice ed evidente volontà di documentazione. Um outro olhar ripercorre cronologicamente il viaggio della seconda spedizione presentando estratti del diario di campo, i telegrammi di servizio della missione nei suoi contatti con le istituzioni governative brasiliane dell’epoca, di cui l’autore era responsabile. La dimensione cronachistica dell’azione fotografica è puntuale, i testi e le foto si configurano come un sistema di rimandi, un circuito di informazioni, una doppia chiave di didascalie della missione. Tra le foto di campo pubblicate, due segnalano la presenza di Dina Dreyfus Lévi-Strauss, mentre lavora al suo taccuino. Di lei non vi è, apparentemente, alcuna traccia in Saudades do Brasil, se non nella foto in campo lungo nel Pantanal, dove, di spalle, appare una figura a cavallo con un casco bianco, identificabile con la giovane etnografa, moglie di Lévi-Strauss. Tuttavia alcune immagini di lei si distinguevano in una tenda tra i Caduveo in una misteriosa versione d’archivio del primo dei due film caduveo del 1935, Aldeia de Nalike, usato in forma di footage in A propos de Triste Tropiques, il film intervista del 1991, e di provenienza dichiarata dall’archivio dell’etnologo francese. Al di là delle rimozioni visive, comunque, e delle ragioni di questa scelta da parte di Lévi-Strauss, è invece utile rilevare come dal 2000 a oggi il corpus delle fotografie di terreno della missione brasiliana del 1935-36, grazie alla donazione dell’autore, sia stato archiviato presso la fototeca di Quay Branly e parzialmente digitalizzato per la visione online, oltre che per quella diretta. Altri scatti sono stati pubblicati, usati in contesti propri, nella ricostruzione degli anni brasiliani, nella ripresa di studi dedicati alle origini del lavoro etnologico dell’autore. L’esame dei materiali depositati consente una lettura più articolata della pratica fotografica di terreno, così come della tradizione e della trasformazione in archivio dei materiali da parte di LéviStrauss. Le foto, scatti e doppioni, stampate su carta baritata, di vari formati, sono montate su passepartout per lo più singolarmente, talvolta a coppie, in pochi casi in numero di tre sullo stesso cartoncino. Ad eccezione dei ritratti, prevale il taglio orizzontale. Due sono le novità che l’archivio propone: il corpus nella sua interezza, è matrice di osservazioni utili sulla formazione di Lévi-Strauss, sulla costruzione del suo sguardo e sulla fotografia come prassi di ricerca. Conferisce poi un carattere e un tratto al materiale pubblicato, definendo meglio le condizioni di campo durante la prima spedizione, producendo indici interessanti alla sua ricostruzione: la dimensione plurale della stessa, l’ibridazione culturale delle popolazioni. Seconda novità: l’archivio si presenta nella forma di un archivio autor-izzato, per usare ancora l’espressione di Geertz. I passepartout presentano in alto, in caratteri dattiloscritti, una descrizione della foto. La descrizione è tratta o dai taccuini, o, in misura più vasta, riporta a

brani dell’autore estratti dal corpus delle opere. L’archiviazione si restituisce come forma di autenticazione, di attribuzione. Lévi-Strauss, iconologo di se stesso, usa i suoi testi come fonte di validazione. I testi utilizzati, dai primi saggi sulla struttura sociale dei Bororo degli anni quaranta a Tristi tropici, Antropologia strutturale I e II, mostrano come il procedimento sia recente, probabilmente anteriore all’uso delle foto in vista dell’edizione di Saudades do Brasil. Talvolta la didascalia sorprende. Il professore di sociologia bororo, l’informatore sul terreno, nello scatto a figura intera dove è vestito di insegne e ricchi ornamenti, pubblicato in Tristi tropici e in Saudades do Brasil, è accompagnato da un commento occultato nelle didascalie pubbliche, nelle glosse editate da Lévi-Strauss: “Bororo in tenuta composita, così come ha voluto esser fotografato”.72 L’esponente della confraternita Cera, del clan Gibo Cera, vestito da festa, i cui ornamenti nasali testimoniano di privilegi clanici importanti, è vestito e posa per esser fotografato. L’abito non fa l’indiano, il suo habitus ci porta più lontano.

Attualmente online, in formato navigabile, non sono ancora disponibili le foto dei Nambikwara. Tuttavia il corpus, offre, nella sua relativa interezza, nuove possibili letture. Le foto mostrano con chiarezza la formazione maussiana dell’autore, la sua attenzione alla tradizione delle tecniche, attraverso il riscontro di dettagli, scatti puntuali di esercizi. Le foto dei tipi, delle pratiche di intreccio di canestri, le tecniche costruttive di capanne e abitazioni, le foto di ceramiche e oggetti rituali, mettono in luce il dettato maussiano. Il corpo indiano diviene qui un fatto sociale, ma anche un fatto di montaggio: un danzatore della festa del marid’do è ripreso in campo medio, a figura intera, ornato dei suoi paramenti sacri. Dello stesso riconosciamo poi un braccio, usato per descrivere la cultura ornamentale indigena e il significato delle insegne dipinte. Lo stesso indio diventa l’atto di scoccare una freccia, quando la sua mano impugna l’arco di cui vediamo il dettaglio. Corpo dionisaco quasi ejzenšteiniano, anatomizzato maussianamente, e ricomposto in foto, a figura intera, in questa ricostruzione. Identificato come il corpo originale dei dettagli fotografici. I criteri di archiviazione non lo restituiscono, infatti, come una sequenza: offrono soltanto dettagli e totali, lo fanno catalogo

di gesti e significati rituali. Lo producono, tradizionalmente, come un reperto fotografico, un’impronta, un’iscrizione destinata all’interpretazione, alla scheda. Se, come ha osservato Marcelo Fiorini, le foto dei Nambikwara rassegnano in forma iconica le tecniche del corpo di Mauss, l’intero corpus fotografico manifesta questa ascendenza, mette in scena, visivamente, le prescrizioni dell’antropologia francese degli anni trenta. Tuttavia la pratica fotografica – le foto dei villaggi in campo lungo, le foto dei tipi etnici (frontali e di profilo), il dettaglio di impugnature nel tiro con l’arco (attività maschili), come i dettagli delle attività femminili (le ceramiche caduveo) – presenta la dimensione euristica classica del lavoro di campo, del lavoro di documentazione, carattere che le note di accompagnamento in testa alle foto, probabilmente desunte dai taccuini, accentuano nella retorica e nella misura della descrizione. Documentazione protesa ai fini di ricerca, lontano da progetti di comunicazione come accadeva, negli stessi anni, nelle scelte e nella prassi di Griaule. Il corpus offre poi la possibilità di verificare l’interesse evidente che la foto suscitava in Lévi-Strauss, come dimostrano due foto di piroghe inquadrate dall’alto memoria della pittura impressionista, o traccia delle foto di coeve di de Andrade, a lui probabilmente nota, vista la frequentazione e la collaborazione di quegli anni. Tuttavia, a differenza delle foto pubblicate, alcuni scatti rimandano al contesto: il fuori campo brasiliano degli anni trenta emerge ai bordi delle foto, emerge negli abiti moderni di donne bororo in attesa della cerimonia del marid’do, o nel vestito occidentale dell’indio bororo in giacca e cravatta. Così come emerge il campo: foto in campo lungo di membri della spedizione, foto di Lévi-Strauss con la moglie, foto della moglie. Foto scattate da altri, probabilmente dalla moglie, in alcuni casi lo ritraggono ai bordi di azioni e situazioni, foto scattate da altri membri lo vedono e li vedono, invece, al lavoro, foto probabilmente sollecitate, foto comunque di documentazione. Alcune di queste mostrano i tempi morti, le pause, il tempo del campo. Altre mostrano la negoziazione: una mano india sposta il capo di un giovane indigeno, lo volge all’obiettivo. Il tempo etnografico, nei suoi tempi morti, viene in scena, emulsione della contingenza speciale del lavoro di campo. Il corpus delle foto chiarisce poi il criterio di selezione, meglio i criteri di selezione delle foto pubblicate. Lévi-Strauss, negli anni, nei diversi luoghi e contesti editoriali, produce la traccia iconica di un mondo come traccia di ricerca su quel mondo: nelle foto pubblicate è manifesta una doppia intenzionalità: la messa in forma della ricerca e la nostalgia della traccia originale, delle civiltà in qualche modo vestigia di un primitivo denso, meritevole di attenzione e studio. Questa doppia intenzionalità si produce attraverso una doppia selezione dei cliché: le foto che dimostrano, documenti necessari a illustrare ed evocare la tesi di un’antropolgia destinata a divenire, nel tempo un’entropologia; e le foto che evocano, dove la qualità dello scatto è l’esito della tensione estetica di chi inquadra e della coscienza estetica di chi è inquadrato. Coscienza complessa presso i Caduveo, memoria embodied presso i Bororo, nella complessa liturgia del marid’do, ad esempio, grado zero del primitivo nelle foto dei Nambikwara, i cui corpi sensibili all’occhio rousseauiano di Lévi-Strauss, sono inquadrati come emergenza estetica del gesto affettuoso dal primitivo del mondo, corporeal image dell’origine. Il verbo, ovvero l’incarnazione, dell’atomo di parentela.

NOTE 1 “Brazil, January 1, 1502”

Embroidered nature… tapestried landscape Landscape Into Art, by Sir Kenneth Clark Just so the Christians, hard as nails, tiny as nails, and glinting, in creaking armor, came and found it all, not unfamiliar: no lovers’ walks, no bowers, no cherries to be picked, no lute music, but corresponding, nevertheless, to an old dream of wealth and luxury already out of style when they left home

wealth, plus a brand-new pleasure. Directly after Mass, humming perhaps L’homme armé or some such tune, they ripped away into the hanging fabric, each out to catch an Indian for himselfthose maddening little women who kept calling, calling to each other (or had the birds waked up?) and retreating, always retreating, behind it. E. Bishop 2 Lévi-Strauss 1973 (tr. it., p. 46). 3 Lévi-Strauss 2005 (tr. it., p. 19). 4

Lévi-Strauss 1955 (tr. it., pp. 247-256). Cfr. Derrida 1967 (tr. it., pp. 147-195, vedi soprattutto pp. 169-195). 5 Goody 1977, pp. 148-149. 6 de Castro Faria 2001. 7 Peixoto 1998, pp. 79-107; Benzi Grupioni 2005, pp. 313-334; de L’Estoile 2007, pp. 160171. Cfr. Lévy-Bruhl 1937, p. 169. 8 Lévi-Strauss 2005, pp. 15-16. 9 Spielmann 2003. 10 M. Maia, Saudades do Brasil, DVD, TV Senado, Brasil, 2006, 1h57. 11 J.P. Beaurenaut - G. Bodanzky - P. Menget, A propos de Triste Tropiques, Zarafa Films, France, 1991, 46. 12 De Castro Faria 2001: vedi fotografie di p. 129 e p. 130 con, sullo sfondo, l’ufficio della missione e i pali telegrafici. 13 Peixoto 2004, p. 88. 14 Giobellina Brumana 2006. 15 De Andrade 1976; de Andrade 1978. Su de Andrade fotografo vedi Gabara 2008, pp. 3692. Cfr. anche Pratt 2008, pp. 232-234. Sul contesto culturale del Brasile dell’epoca cfr. anche Finazzi-Agrò - Pincherle 1999. 16 Lévi-Strauss 1936. 17 Benzi Grupioni 2005, pp. 313-333. 18 Lévy-Bruhl 1937, p. 169. 19 De L’Estoile 2007, pp. 160-165. 20 Lévi-Strauss - Lévi-Strauss 1937. 21 Per una bibliografia della produzione in lingua portoghese di Lévi-Strauss cfr. Peixoto 2004, p. 89. 22 Lévi-Strauss 1962 (tr. it., p. 35). 23 Turner 1982. Cfr. poi Turner 1986.

24 Costa 2000, pp. 261-270; Jourdan 1991, pp. 11-22; Piault 2001, pp. 87-118; de Tacca

1998, pp. 81-102; de Tacca 2005, pp. 97-110. 25 Serres 1980 per il concetto di epistemologia del continuo, soprattutto pp. 40-66. Sull’epistemologia post-strutturalista vedi Wagner 1986, pp. 81-143 e de Castro Viveiros 2009, pp. 17-29. Sull’arpa Zande il riferimento è a Severi 2004, pp. 6-13. Su questo punto vedi anche Faeta 2011, p. 75. 26 Ginzburg 1979; cfr. anche Marcus 1994. 27 Murphy 2009, vedi pp. 17-42 per una descrizione efficace della relazione tra immaginari museali e immaginari antropologici negli anni venti e trenta del Novecento francese. Cfr. de L’Estoile 2007, pp. 175-204. Per una lettura teorica del museo antropologico alla luce della contemporanee riflessioni di etnoestetica cfr. Svašek 2007, soprattutto pp. 123-153. Sul sistema della arti e l’antropologia rimane essenziale Gell 1998, capp. I-III e VII-IX. Cfr. infine Clifford 1988 (tr. it., pp. 249-288). 28 Boggiani 1895a, pp. 71-222, e Boggiani 1895b. Cfr. Leigheb 1997. 29 Wiseman 2007, pp. 135-159. 30 Schechner 1985. 31 “A pelicula tipo ‘Standard’ é evidentemente preferivel a qualquer outra, mas devido ao seu preço elevado so é possivel recomenda-la aos especialistas. O etnografo, utilizando a pelicula de 16 mms, pode obter cenas e quadros de valora tecnico e documentario que nada deixam a desejar. Quanto possivel, escolhera um aparelho com objetivo cuja apertura va até 1,5. Com efeito, a apertura de 3,5, suficiente para a fotografia, impède quasi completamente a tomaia de vistas de interiores, pois que o tempo de exposiçao da imagem è fixo na maioria dos aparelhos de amadores. Por esse motivo e sendo a utilizaçao de velocidades rapidas, necessarias para obter a analise dos movimentos, utilissima no estudo das tecnicas, deve-se procurar, sempre que possivel, un aparelho de varias velocidades. Enfim è desejavel poder cinematografar de muito perto (60 ou 80 cms.), para conseguir documentos aproveitaveis no estudo das tecnicas (cinematografia das maos duma fiandeira, duma ceramista, etc.). É mas facil cinematografar que fotografar, pois em regra o trabalho se faz com exposiçao fixa. É preciso simplemente tomar algumas precauçoes: a cena mais curta nao severa nunca ter duraçao inferior a 10 segundos… quando se mover o aparelho através de um campo muito amplo, sera necessario evitar que o aparelho trema, se desloquei ou seu sujete a movimentos muitos rapidos.” (Lévi-Strauss 1936, p. 9). 32 Mauss 2002, p. 22. 33 De L’Estoile 2009 ricostruisce l’occorrenza della mostra del 1937, leggendola come progetto di un’estetica del primitivo. Il commento della foto dell’Indio in copertina si limita a registrarne gli ornamenti, qualificando poi la foto stessa come bella. Leggendola appunto come réclame pubblicitaria del primitivo. Si tratta, invece, della foto dell’informatore principale della scena bororo, l’indio cattolico che si esprimeva in portoghese e che aveva viaggiato sino a Roma. De L’Estoile, insomma, accoglie la traccia perlocutiva di Lévi-Strauss. 34 “C’est un mort qu’on célèbre. Le directeur de la danse rituelle a reçu les emblèmes funèbres: flûtes emplumées, trompettes en calebasse (78). Mais la morte même est accompagnée de fête. Conduit par les battements subtils des hochets rituels (79), les choeurs

s’élèvent, s’amplifient, précipitent, ou ralentissent leur mouvement. Tous le pieds frappent terre en même temps. Un souffle puissant, des halètements rauques. Les trompettes funéraires résonnent (80). Alors, tandis que les femmes se cachent le visage pour ne pas mourir, les ‘bullroarers’ (81) qui tournoient dans la Maison des Hommes font entendre leur terrible sifflement” (Lévi-Strauss - Lévi-Strauss 1937, p. 3). 35 Lévi-Strauss 2005, p. 19. 36 Wachtel 2004, pp. 442-452. 37 Remotti 1990. 38 Griaule 1957, pp. 81-82.

39 Lévi-Strauss 1948, pp. 1-132, cfr. “planche 1-7”, vedi soprattutto la quinta “planche” come

tecnica e forma di montaggio orientato. 40 Debaene 2004, pp. 99-107, soprattutto la conclusione di questo testo, tuttavia orientato ad una interpretazione della fotografia come pendant della scrittura letteraria. 41 Caillois - Lévi-Strauss 2004, p. 139. 42 Goody 1997. 43 de L’Estoile 2007, pp. 165-171. 44 Fiorini 2009, pp. 80-101. 45 Leiris 1956, pp. 130-135 (ora in Leiris 2005, pp. 132 e 138). 46 Leiris 2001, vedi soprattutto pp. 138-148. 47 Clifford 1986a e 1986b (tr. it., pp. 25-59 e pp. 145-174). Cfr. inoltre Clifford 1988 (tr. it., pp. 196-220). 48 M. Murphy 2009, pp. 31-37, vedi soprattutto le pagine dedicate alla logica del displaying museale come equivalente visivo dei testi etnografici, sale come pagine e vetrine come capitoli, infine oggetti come testi, senza tralasciare il largo uso di materiali grafici e fotografici in voga già dai primi del novecento nei musei americani. 49 Boon 1992, pp. 139-208. 50 Una lettura simile è quella di Debaene 2010, pp. 308-346. 51 Gide 1927 e 1928. Di Gide fotografo di viaggio restano interessanti materiali la cui lettura, nel segno della tradizione francese dei viaggiatori esploratori e fotografi, sarebbe importante. 52 Lévi-Strauss 1955, p. 377. 53 Goody 2000. 54 Delahaye-Rivette 1964. 55 Lévi-Strauss 1962, p. 30. 56 Derrida 1967 (tr. it., p. 369). 57 Lévi-Strauss 1964 (tr. it., pp. 18-20). 58 Derrida 1967 (tr. it., p. 366). 59 Lévi-Strauss 2005, p. 19. 60 Lévi-Strauss 1994, pp. 22-23.

61 Lévi-Straus 1994, p. 9.

62 M. de Certeau, “Ethno-graphie. L’oralité ou l’espace de l’autre: Lery”, in de Certeau 1975. 63

Fiorini 2009a, 2009b, 2009c. Cfr. anche, sullo stesso numero della rivista Ethnies, Gaudemar 2009. Cfr. anche M. Fortaleza Flores, Auprès de l’Amazonie: le parcours de Claude Lévi-Strauss, DVD, 52, 2008 64 De Melo Franco 2005. 65 Lévi-Strauss 1973 (tr. it., pp. 96-97). 66 Ibidem (tr. it., pp. 96-97).

67 Caillois 1974 (tr. it., p. 137). 68 Ibidem (tr. it., p. 148). 69 Ibidem (tr. it., p. 149).

70 Lévi-Strauss 1955 (tr. it., p. 324). 71 Lévi-Strauss 2005, p. 24. 72

Musée du quai Branly, Iconotheque, N° inventaire: PP0002052 / N° inventaire DMF: 70.2007.65.0, stampa su carta baritata, formato 7,6×11, passepartout di 22,5×29,5. Description: Bororo en tenue composite, mais tel qu’il a voulu être photographié. Ce Bororo de la phratrie Cera (clan Ciba Cera), en costume de fête, porte un ornement nasal, privilège exclusif des Bokodori-Ciba-Koge (ou Grand-Tatou - Arara rouge - Daurade) et le pendentif labial de son clan.

6 SPLENDORI DEL VERO. DI JEAN ROUCH E ROBERTO ROSSELLINI In realtà noi il cinema lo facciamo vivendo, cioè esistendo praticamente, cioè agendo. L’intera vita nel complesso delle sue azioni, è un cinema naturale e vivente: in ciò è linguisticamente l’equivalente della lingua orale nel suo momento naturale e biologico. Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori: un gigantesco happening, se vogliamo. P.P. Pasolini

6.1. Epifanie, incroci, trame di vita che connettono, nuovi realismi per immagini Nell’agosto del 1989 Jean Rouch, invitato al Festival del cinema di Locarno, rilascia un’intervista ad Alberto Farassino, una breve testimonianza su Rossellini e sugli anni della loro frequentazione parigina, sul finire degli anni quaranta e negli anni successivi. Questa intervista è piuttosto una memoria. Pubblicata negli anni ottanta in realtà non riporta le domande dell’intervistatore. Il testo di Rouch si presenta come una sequenza di dichiarazioni montate in una cronologia che sfiora gli anni sessanta, ed è accompagnato da una nota del curatore. La prima tranche è una traccia della prima memoria rosselliniana nella vita di Rouch: La scoperta di Rossellini è avvenuta per me attraverso Paisà, che vidi se ben ricordo alle Ursulines, a Parigi. Uscivamo da cinque anni di guerra e il film mi faceva riflettere su un grosso problema, su cosa bisogna mostrare della guerra. Paisà con i suoi sei episodi, soprattutto l’ultimo terrificante, quello ambientato alle foci del Po, col cadavere che galleggia sull’acqua, era una risposta. Una risposta all’assurdità di quest’avventura, all’arrivo dei neri americani in Italia e a tutto ciò che questo poteva rappresentare, da Napoli alla Chiesa, a tutto il resto. Poi ho visto Roma città aperta, che era qualcosa di molto strano, e che mi spiegava Paisà. Che mi spiegava cioè che si possono fare dei film straordinari senza teatri di posa, e che essi possono raggiungere un’intensità drammatica straordinaria. Io allora non capivo niente di cinema, ma più tardi quando rividi il film e potei discuterne con Roberto, gli chiesi in particolare com’era stata realizzata la scena

dell’arresto del fidanzato della Magnani, e com’era stato fatto il suono. E solo allora scoprii che era stata girata muta. E che quando lei gridava: “Marcello!” la scena era stata ripresa dall’alto da una casa vicina. L’urlo così risuonava più realistico. E lui mi disse: “Ma il neorealismo è la finzione che diventa più reale della realtà”.1 La scoperta di Rossellini coincide con i due capolavori del neorea​lismo, e coincide con gli anni del primo dopoguerra. Rouch legge, in Rossellini, il progetto di cinema, la natura nuova e assolutamente diversa di una pratica visiva, ne approva la scelta di girare in esterni, senza attori professionisti – Paisà –, la decisione di filmare la guerra. Tuttavia all’impressione riportata subito all’inizio, subentra, a conoscenza di Rossellini avvenuta, alla fine degli anni quaranta, la scoperta più significativa; la questione apparentemente tecnica della presa del suono costringe Rouch a pensare, in termini non ortodossi, l’idea stessa di verità filmica. Il neorealismo, infatti, non lavora alla registrazione della realtà: è, piuttosto, una modalità originale di pensare la realtà e di produrla come reale. Entrano qui in gioco termini essenziali delle pratiche future di etnografia visiva di Rouch, della possibilità stessa di pensare il cinema in termini di registrazione della realtà, a fronte di una tradizione scientifica e antropologica francese che individua il senso stesso delle pratiche cinematografiche di terrain come attività di studio e registrazione del movimento, a distinguersi dalla tradizione esotica del cinema degli anni trenta e quaranta2 e di cui il primo Rouch terrà in qualche modo conto, ma le cui tracce troveremo persino in film come Horendi, del 1972.3 La messa in scena della verità neorealista è una messa in cornice della verità. Questa abita il profilmico, costituisce la premessa del set come promessa di flagranza, riprende il tema del cinema di Renoir, del set come porta aperta sull’imprevisto e sulla realtà, inventando il set come spazio esterno legittimo, come esigenza intanto etica di contatto con il mondo e di presenza in esso. Rouch prosegue in questa rievocazione e produce ancora un ulteriore movimento di interpretazione e presa d’atto di un’istanza: la traduzione del vero impone l’invenzione, non solo di un grammatica o di una sintassi, ma l’assunzione della tecnica, la coscienza della relazione di questa con l’ideologia, come scriverà alla fine degli anni sessanta e nei primi anni settanta Jean Luis Comolli. Ma soprattutto inscrive la questione neorealista nella genealogia di un cinema proiettato verso il racconto del mondo, mosso dall’esigenza di stare al mondo, di abitare il mondo per recuperarvi una diversa dimensione dello sguardo, un’urgenza come segno della storia e come attenzione verso di essa, nel senso di pensare per immagini il mondo oltre lo spettacolo, di pensare attraverso il cinema. Erano stati costretti a lavorare in questo modo, a Roma non c’erano più teatri di posa, avevano girato per le strade ma a quel tempo non era possibile girare in esterni con un suono diretto, c’era troppo rumore, e dunque la sola soluzione era riprendere le scene mute e in seguito postsincronizzarle. Per noi allora il doppiaggio era qualcosa di scandaloso e capire che il neorealismo nella sua ricerca della verità faceva molto meglio di quello che si poteva fare con il suono diretto è stata per me una vera scoperta. Anche la nouvelle vague fece così.4 Rouch insomma iscrive se stesso in una genealogia, si colloca tra neorealismo e nouvelle

vague, traduce il primo nell’incontro con l’altra, il cui sguardo riporta come scandalo di realtà e prodotto di reale – transazione acuta tra ciò che vedo, ciò che filmo, ciò che restituisco nella forma film; anticipa e orizzonta la seconda, nella radicalità della pratica e nella congiunzione profonda di camera e spazio, improvvisazione e rappresentazione, facendo del suo cinema una zona di contatto, una liminalità congiuntiva nell’atto del filmare, una costruzione partecipata nell’atto del montaggio come pratica condivisa, per approssimazioni, coi filmati, con quel mondo africano con cui filmerà. Ma nel frammento successivo, riemerge, non banalmente, la questione della tecnica, a proposito delle riprese di Jaguar, film che circola a Parigi in una prima versione muta già nel 1957, e che Rossellini vede mentre è impegnato nel montaggio di India matri bhumi, le cui condizioni di produzione si prestano a diverse considerazioni. La prima di queste sfata necessariamente l’idea stessa di registrazione, implicita secondo molti nella natura tecnica del mezzo. Sino alle videocamere, infatti, la durata dello chassis, la quantità di pellicola, consente esclusivamente un pensiero visivo formato attraverso atti di film discreti: la continuità si dà nel montaggio o nella capacità di pre-visione, sul field, di una successione di stati, appunto, discreti e come tali filmabili; l’integrale è la nostra pratica tra competenza e pertinenza nelle scelte e nelle selezioni in situ, la capacità del filmmaker antropologo di montare in macchina, configurando così una sorta di coproduzione, nel cinema di Rouch, tra profilmico e improvvisazione, di competenza spaziale e senso-motoria, si potrebbe dire, nell’atto di filmare camera a mano, producendo un’intimità culturale infine esitata e vissuta come cinetranse.5 Una seconda considerazione, conseguente, è l’evidenza della presenza tecnica, della protesi sulla scena del contatto, nel gesto del filmare – il cinema muscolare come dice Rouch. Una terza, ulteriore, sull’uso del 16mm, pratica già presente nel cinema di esplorazione di Schoedsack, come punto di incontro tra tecnica ed estetica, come embricazione elementare di corpo-occhio-macchina, nel progetto di una kinoglaz vertoviana. Il progetto dichiarato di Rouch: Io allora avevo realizzato un film sulla caccia di un ippopotamo in bianco e nero, ma giravo muto. E quando oggi rivedo quei film e in particolare un film che Roberto ha molto amato, Jaguar, che fu girato muto, nel corso di un anno, con una 16mm che bisognava caricare ogni venticinque secondi, e con la pellicola da cambiare ogni tre minuti, mi rendo conto che facevamo del cinema “muscolare” che gli è piaciuto, che l’ha deciso a fare qualcosa, quando è venuto a Parigi con la Bergman e ha deciso di incoraggiare quello che facevamo, preconizzando l’avvento del 16mm ecc. Per questo io dico sempre che Rossellini è stato forse il più grande ispiratore della nouvelle vague francese. Questo non bisogna dimenticarlo.6 A questo punto del testo, con un’ellissi, Rouch muove dagli anni di nascita delle nouvelle vague ai dibattiti appena successivi, agli anni sessanta, al conflitto teorico con Rossellini, conflitto di pratiche che si fa dibattito, conflitto di campo, prima che di metodo; si parla di film, come si parla di etnografie. Ed è sugli oggetti reali, realizzati, che infatti ci si misura, sul metodo che li ha prodotti, nella coscienza che metodi diversi producono diversi oggetti, la cui legittimità non è intrinseca al linguaggio, ma impone un’assunzione di un punto di vista, una responsabilità a priori, anche se data e prodotta nel campo stesso, nella flagranza dei dati di

realtà, qui in accezione del tutto diversa rispetto al modello culturale di Bateson e Mead. Conseguenza: la tecnica si segnala ancora come elemento centrale, così come la natura di protesi della cinepresa. Da cui la nascita di un nuovo, mobile, paradigma: la frizione del contatto come continua memoria di una relazione che inventa le sue forme e la sua forma nel gesto del filmare, gesto che muta chi filma come chi è filmato, stato non dialogico, in senso stretto, ma neanche monologico, in senso proprio. Qui il field diventa intanto una pratica comune di improvvisazione organizzata, una messa in atto di una potenza di condizioni, le cui successioni possono farsi divergenti come convergenti. E il cui esito, il montaggio, se rappresentato e condiviso dai filmati, diviene esso stesso uno stato di approssimazione da cui muovere ancora. Pratica complessa e probabilmente ambigua, come le pratiche proprie dell’antropologia classica di campo, dell’etnografia nella presenza di terreno7 il cui statuto si dà invariabilmente come statuto di un’esperienza soggettiva di relazione, le cui ipocrisie dolorose e le necessarie ambiguità non possono non segnare testi e film, per quanto questi, invece, possano darsi come finestre sullo splendore o sul dolore del vero, restituirci immagini smaltate di mondi, immagini di una trasferta tra l’io e gli altri.8 Ma su questo punto Rouch, come vedremo, sul piano di metodo, provoca davvero una riflessione ulteriore: la sua attitude, il metodo delle approssimazioni successive, comporta una radicale messa in discussione di tempo e spazio in senso antropologico. Proprio nel senso dell’antropologia di campo. La questione della verità risuona quindi nella traccia conclusiva delle dichiarazioni di Rouch: Abbiamo avuto conversazioni formidabili, abbiamo anche litigato molto, sui Cahiers du Cinéma quando abbiamo inventato il “cinema diretto”, quando abbiamo trovato gli strumenti per farlo. Era un po’ la risposta a Roma città aperta: finalmente si poteva girare nella strada con del suono reale, con una cinepresa portatile, e questo lo irritava molto… Quel che ci obiettò allora, a me e a Michel Brault, era che non è possibile innamorarsi di una cinepresa, una macchina. “Una cinepresa è come un’automobile”. “Proprio tu – gli dissi io allora – con il tuo amore per le automobili!” Anch’io a quel tempo avevo una Bugatti, quella che si vede in Petit à petit. “Sì – ribatteva lui – ma un’auto non è una donna, è un oggetto di cui ci si serve, è uno strumento, non si può esserne innamorati”. E io sapevo che da un lato era in malafede, ma nello stesso tempo in fondo aveva ragione. Insomma la forma non deve far dimenticare il soggetto, far credere che esso non conti. E queste sono lezioni indimenticabili. Lezioni che io non posso impedirmi di ritrovare in tutte le sue dichiarazioni, quando diceva ad esempio: “Io non sono un cineasta, conosco un po’ il cinema, ma il mio mestiere non è fare dei film, il mio mestiere è essere un uomo”.9 Che cosa vede quindi Rouch in Rossellini, che cosa assume per somiglianza e che cosa produce come differenza? Rouch assume la possibilità plurale di un approccio come equivalente di un punto di vista che alla pluralità delle voci si relaziona, e che di esse cerca di dar conto nella responsabilità asimmetrica di una pratica che muove spazialmente da una differenza: dietro la camera e davanti ad essa, qui o lì, anche se l’evidenza di una riflessività che si fa visibilità del soggetto che filma sarà di lì a poco il segno forte, la marca semiotica produttiva, del cinema diaristico americano d’avanguardia degli anni sessanta.10 Rouch vede

Rossellini come una sorta di Griaule del cinema mondiale, ne vede il vitalismo sperimentale, la pratica laica e aperta di presenza, la qualità teorica rilasciata semplicemente nella forma di interviste occasionali o conversazioni private, la natura socratica del suo impegno, la densa ricchezza teorica del suo cinema semplicemente definita dalla invenzione di una grammatica che sdrucciola via via a scucire il mondo vestito per drappeggiarlo di altri tessuti più leggeri, non semplicemente in nome di una comodità e praticità dei gesti, ma nel segno di una diversa immaginazione di corpi nello spazio, di pratiche dello spazio nella forma della vista e del racconto. Nella luce di una metafora rosselliniana di uomini cuciti e uomini drappeggiati, dove i primi si muovono nel segno dell’efficienza e i secondi nel segno della capacità. Perché una buona metafora ravviva l’intelletto, come Wittgenstein, appunto, ha scritto. Ma quel che Rouch più vede nei film del suo amico Roberto non sono i comportamenti rituali-reali, le cronache della città, le inchieste sul campo dell’individuo. Sono le facilità e le magie della finzione, il modo stregonesco e “selvaggio” con cui egli mette insieme le immagini e i suoni. Che un etnologo faccia dei documenti etnologici è soltanto normale, anche se non tutti l’hanno fatto. Che un etnologo possa fare, con gli stessi strumenti, con lo stesso linguaggio, dei film, organizzare delle messinscene che diventeranno sempre più simili a delle storie inventate, che possa costruire egli stesso la realtà di cui parla, questo deve essere cercato e voluto, e forse ha bisogno di essere, se non insegnato, stimolato. Rossellini insegna questo, che tutto si può fare, con semplicità, con facilità.11

6.2. Rouch in vista di Jean Rouch. Prime cronologie di immagini africane Il cinema consentirà di fotografare la vita. Non va poi dimenticato il suono. Si è già riusciti a filmare delle rappresentazioni drammatiche in Liberia, come la transumanza di intere tribù nella regione de l’Aurès algerino […]. La registrazione fotografica sonora ci consentirà poi di osservare l’ingresso del mondo morale nel mondo puro della materia. Giungiamo così al problema della registrazione morale. Metodo fonografico: registrazione su banda magnetica, su pellicola sonore. Per ogni registrazione bisognerà trascrivere i testi. Non registreremo soltanto la voce umana, ma anche la musica, prendendo nota delle battute di mani e piedi. Non è sufficiente registrarli, bisogna essere in grado di riprodurli.12 Nel 1946 Jean Rouch non ha ancora trent’anni. È un giovane ingegnere che durante la guerra ha trascorso due anni nell’Africa coloniale francese. Da questa esperienza, dall’abitudine alla presenza sul terreno, Rouch ritorna in Francia manifestando il desiderio di volgersi all’etnografia. Marcel Griaule, che già conosce il materiale di una sua ricerca sui riti di possessione, lo incoraggia e gli suggerisce di prepararsi al dottorato dopo aver conseguito un diploma in Lettere. Nello stesso anno Rouch fa ritorno in Niger, dove trascorre alcuni

mesi, discendendo il fiume su una piroga con due compagni di viaggio, Sauvy e Ponty, impresa che gli farà meritare il premio Louis Liotard della Societé des explorateurs.13 Prima di lasciare Parigi Rouch acquista una Belle&Howell 16mm, residuato di guerra, della guerra per immagini dei combat film statunitensi nel secondo conflitto mondiale. Nel 1942 Rouch era a Niamey, ingegnere capo dei lavori pubblici, incaricato della costruzione di due importanti vie di comunicazione, una diretta a nord verso Gao e l’Algeria, l’altra in direzione ovest verso Ouagadogou e Bamako. Il progetto prevedeva due strade interamente nuove, di dodici metri di larghezza, due lossodromie, due nastri e cinture. Nel percorso vi erano dune, fiumi, oasi, finalmente uniti da una traccia rettilinea, a migliorare, rettificare la via esistente, fatta di curve, pendenze, altre curve, intorno ai baobab o ad altre presenze vegetali. Alle route garde cercle indigene, così incerte e selvagge, andava, finalmente, a sostituirsi un asse cartesiano di pietra, da costruire con pochi mezzi ma con grande disponibilità di risorse umane, lavoro volontario forcé, predisposto dall’autorità coloniale. Tra luglio e agosto, all’inizio della stagione delle piogge, Rouch riceve un messaggio dal suo capo cantiere: “Monsieur l’ingenieur, le Dongo a tué hier dix manoeuvres sur cantier P.K 25; attends instructions”. Il Genio del tuono, il Dongo, aveva ucciso dieci manovali; la Scuola superiore dei ponti e delle strade fondata da Napoleone Bonaparte certamente non prevedeva che un ingegnere francese dovesse affrontare la questione. Oltre Cartesio e la scienza delle costruzioni, bisognava quindi apprestare una table des matières del tutto nuova. Era comunque un affaire per Kalia, una donna del luogo, capace di entrare in contatto con gli spiriti e riconoscere il loro volere e interpretarlo: “Questo è un caso per mia nonna.” Nel quartiere di Gawè, Kalia, la nonna meravigliosa, prese un vaso di Hampi, campane di ferro, un’accetta, inviando qualcuno alla ricerca dei suoi musicisti. Sembrava tutto molto chiaro. Siamo partiti con un camion raggiungendo attraverso il fiume la piccola frazione dove Gawey Pagnouf aveva stabilito il suo accampamento. Lo spettacolo era orribile. Sul pavimento una dozzina di cadaveri accanto ai resti carbonizzati di una capanna. Kalia cominciò a recitare i detti del Dongo, lo spirito del tuono, e poi lentamente ha bevuto il latte e sputato sui corpi carbonizzati strofinandoli delicatamente. Il suo violinista suonava senza sosta le arie del Dongo e dei suoi fratelli, figli di Harakoy, il genio dell’acqua. Dopo questa purificazione, Kalia ha autorizzato la sepoltura dei corpi in deliquio. Ma era ora di interrogare il Dongo, il genio del tuono stesso: e lì ho assistito alla scena terrificante di uno dei riti più straordinari di possessione. Kalja, impugnando l’ascia di ferro, recitava i motti dei grandi geni del cielo, accompagnata dal violinista e dai percussionisti. Improvvisamente una donna e alcuni uomini erano posseduti; ho riconosciuto Dongo, che ha indossato un abito nero e Kirey, il fulmine, vestito di rosso. Seduti su un mortaio capovolto, parlalarono con una voce distante e lontana, una voce che riconoscerò sempre. Damouré mi traduceva quanto Dongo e suo fratello dicevano, intervallati da urli terribile. Molto semplicemente, ero stato io il responsabile degli eventi e delle morti, perché il percorso della strada incrociava il cammino del Dongo.14 A conclusione del rituale, gli uomini del cantiere, informati, cercarono un toro nero che fu

sacrificato. Il sangue dell’animale sgozzato colò sulla terra dove il fulmine era caduto uccidendo i manovali. L’ordine era così ristabilito. Qualche giorno più tardi, un pescatore moriva sul fiume annegato o ucciso dal Dongo, durante un violentissimo temporale. Rouch ottiene il permesso di assistere al nuovo rituale, simile, come dichiara, al precedente. Ne fotografa alcuni momenti con una Rolleiflex, prende appunti. Traduce il tutto in un breve articolo etnografico, che invia al Musée de l‘Homme, a Parigi, all’attenzione di Griaule. Qualche mese più tardi la risposta dell’artefice della missione Dakar-Gibuti lo incoraggia sulla strada dell’attenzione verso quei fenomeni. Germaine Dieterlen gli invia un questionariotraccia per il futuro dell’indagine. L’ingegnere si attrezza alla costruzione di vie e ponti molto più immateriali ma ugualmente complessi. Le leggi della statica diventano insufficienti. Così come la fotografia, nel raccogliere e registrare le immagini della possessione. Nel 1946, nuovamente in Niger, Rouch gira il suo primo cortometraggio, più precisamente all’inizio del 1947, il film da cui trarrà Au pays des mages noirs due anni dopo, l’inizio di una lunga fedeltà per immagini e relazioni, testi scritti e presenza sul campo con i Songhay.15 Le immagini in bianco e nero, acquistate per una fortuita serie di circostanze dalle Actualités françaises, assumono la forma di una drammaturgia di dèi e natura, grazie a un montaggio diverso e all’interpolazione di materiali di altra provenienza. Tuttavia nelle immagini di Rouch si manifestano, immediatamente, i temi ricorrenti della sua produzione, l’interesse verso i culti e i riti di possessione, la migrazione, la relazione tra culto e azione, tra interrogazione divina e attività quotidiana. Ma, soprattutto, nella forma filmica si rende subito evidente il movimento interiore di Rouch, la sua distanza dal dettato di Mauss, dall’idea di un cinema come registrazione dei fatti, anche se, in Les magiciens du Wanzerbé, al cui commento partecipa anche Griaule,16 ritorna, nei titoli di testa del film, una dichiarazione di intenti che lo inscrive nella tradizione del documentario etnologico come pura presentazione di questi. Il testo di Marcel Mauss, già citato, è parte dei materiali stenografati da cui post mortem viene tratto il manuale di etnografia a sua firma. Questi materiali erano, com’è noto, il frutto delle sue lezioni settimanali tenute presso l’Institut d’ethnologie dal 1926, anno della sua fondazione, al 1939. Il testo di Mauss contiene degli elementi che lo rendono linguisticamente suggestivo, pur nella sua apparente volontà manualistica e istruttiva, e concettualmente più complesso di come possa risultare alla prima lettura. Sin dalla citazione in forma implicita del film intrinsecamente maussiano di Hilton-Simpson e Haeseler, An Unknown Race, realizzato nel 1925, dedicato alle culture berbere de l’Aurès,17 esito del lavoro di campo prolungato nell’area algerina da parte del primo di due, Mauss ritiene possibile e auspicabile filmare la vita, filmare evidentemente il movimento; tuttavia assegna un compito ulteriore alle immagini: far sì che insieme al suono producano l’ingresso del mondo materiale in un mondo morale. Alla voce umana va così unito il suono degli strumenti, la musica percussiva ottenuta dalle claque di mani e piedi, il suono dei corpi come strumenti. Un concerto di tecniche del corpo, e forme di vita. E, se necessario, l’atto stesso di registrazione va ripetuto, re-enacted nel linguaggio di Boas. La registrazione coglie quindi l’attimo, ma, ove possibile, l’atto e l’attimo possono essere riprodotti, in nome di una fedeltà riproducibile: l’evento diventa producibile, e, anche se differito, non si produce come differenza sensibile dal punto di vista dell’indagine. Il suono produce un mondo che le immagini mute descrivono altrimenti come materiale. Il mondo morale, evidentemente umano, è il mondo dei suoni e della voce, il mondo espresso dal linguaggio, tra suono e senso, come aveva mostrato Jakobson, nelle sue lezioni a New York del 1943, lezioni

fondamentali per lo sviluppo del pensiero e delle ricerche di Lévi-Strauss.18 Al di là della vista, emerge, con forza, l’udito come forma del sapere, l’ascolto come forma dell’attenzione etnologica, l’intuizione di una scienza che si muova oltre la collezione degli oggetti e la raccolta di fiche come descrizioni e vue, carte postale della disciplina negli archivi del terrain. Già un breve racconto di Segalen, Dans un monde sonore, pubblicato sul Mercure de France19, nel 1907, descriveva il ritorno di un etnologo dal campo di Torres Straits, field trascorso nelle misurazione delle facoltà sensoriali dei nativi. L’etnologo, al suo ritorno, incontra il marito di una vecchia amica, il cui stato di salute mentale sembra assai compromesso. Questi vive in un puro mondo di suoni. Gli altri sensi sono ormai offuscati e dimenticati in favore esclusivo dell’udito; l’uomo vive nel mondo vibrante del suono, invece che nel mondo silenzioso delle immagini e del tatto. Tutto si fa brusio, riverbero, presenza. Un mondo diversamente morale si apriva così agli occhi dell’etnologo reduce da Torres Straits, come Haddon e Pitt Rivers e tutti gli altri, dal mondo delle misure. L’uomo in ascolto si obbligava a ripensare il suo mondo di oggetti. E di soggetti appunto misurabili. Questo racconto, probabilmente ignoto a Mauss, squarciava letterariamente il velo etnologico delle misure e il primato della vista come strumento di interpretazione del mondo. La firma di un viaggiatore di mondi lontani e sonori, visivi e altri, com’era appunto Segalen, dà al racconto una sua splendida preveggenza. Mauss, viaggiatore da fermo, per gran parte della sua vita, intuisce genialmente, nel suono, la questione cruciale della visione, la possibilità di trasformare il film nella memoria morale di una presenza: il sonoro dà alla vita una forma etica che il movimento restituisce solamente come cinetica. Così se il mondo di immagini di Rouch certamente si distaccherà dal mondo delle immagini etnologiche pensato da Mauss, come anche da Griaule, i cui film differiscono profondamente dal segno rouchiano, e le cui ragioni etnologiche divergono sul terreno della pratica filmica, l’istanza del suono diventerà centrale immediatamente nel suo lavoro filmico. Il tema del suono è infatti centrale nella relazione con Rossellini, successiva ai primi tentativi di cinema di Rouch. Centrale già in un film sonoro come Cimetière dans la falaise, in cui il suono verrà raccolto con un registratore portatile praticamente sperimentale, l’Acémaphone Sgubbi, e centrale nelle scelte successive, sino all’invenzione di registratori e microfoni di ambiente, capaci di una presa del suono in diretta, cosa che avverrà e renderà possibile Chronique d’une été. Le prime cronologie d’immagini africane di Rouch ci portano tra i Songhay e in Niger, tra i Dogon di Griaule, tra i migranti songhay ad Accra. I riti di possessione e i rituali legati al trapasso e al sacrificio, le divinità dell’acqua formano la traccia di questi film. Accanto ai film, traccia visiva ulteriore, la serie di fotografie che accompagneranno ventidue articoli di Rouch pubblicati da Le franc tireur, dal 25 luglio al 23 agosto del 1951, ripubblicati in volume nel 2008,20 un piccolo volume di fotografie ormai dimenticato per le edizioni Nathan nel 1954, memoria del viaggio in piroga, una prima monografia sui Songhay.21 I film compongono subito la geografia degli interessi, delle ricerche di Rouch, dei testi etnografici da lui prodotti, la geografia fisica dei percorsi e dei viaggi, la geografia dell’immaginario che Rouch osserva, studia, reinventa nella forma del suo cinema. La restituzione, in forma popolare, come traduzione giornalistica dei taccuini, riprende la tradizione delle spedizioni etnografiche francese degli anni trenta, la tradizione di Rivière e Griaule, la ricerca puntuale di un’attestazione pubblica del lavoro di campo, nella forma di memorie diaristiche dove la letteratura del viaggio e la presa diretta con luoghi e mondi lontani sollecitano il lettore nel segno del primitivo o dell’esotico, e di cui, come abbiamo visto, la collana di Plon, curata da

Jean Malaurie, sarà l’esito scientifico e popolare insieme. I primi film sono, di fatto, dei documentari apparentemente tradizionali. Si distinguono evidentemente per un’intelligenza visiva barbara e felice, per una grammatica inventata dai set e dalla pratica, mostrano il nascere di un cineasta e di un etnologo, sono sperimentali e classicisti; restituiscono l’esperimento di vita e di progetto di conoscenza, restituiscono la pratica come domanda ancora nella forma dell’illustrazione. Rouch, in cerca di Rouch, muove da una tensione verso i soggetti non ancora tradotta in una tensione del soggetto verso la rappresentazione dell’altro. La grammatica classicista talvolta si sfalda o si incrina, ma resta salda ancora l’idea stessa di rappresentazione. Invece che Rossellini, i suoi spazi ricordano splendidamente Ford e Flaherty, mentre Vertov è un orizzonte etico, piuttosto che linguistico, come lo sarà per tutta la sua vita e filmografia. La flagranza dei set, la distanza e differenza, di ambiente, luoghi, posture, l’occhio curioso, certo surrealista, per certi versi, umanista come Rossellini per altri, producono dei testi che immediatamente segnano la nascita di un’etnologia visiva segnata fortemente dalla spazialità e dalla sintassi cinematografica classica, dal mondo come sistema di segni e immagini prodotto dal cinema. Mentre Rossellini frantuma la modernità, il più giovane Rouch è ancora inscritto nella tradizione formale del cinema monologico e narrativo classico. Il surrealismo e le sgrammaticature del dilettante di talento lo mettono comunque al riparo dall’accademismo. Così come le pratiche multiple di restituzione: dagli articoli sui giornali alla scrittura etnografica, dai film etnografici usati come banda immagine per improvvisazioni jazz nelle caves di Parigi, come vedremo.

6.2.1. Geografie songhay, geni songhay, grafie di luoghi Nel 1948, chargé di mission del neonato CNRS francese e dell’Institut française de l’Afrique noir, Rouch fa ritorno in Niger con l’incarico di studiare i processi migratori di quell’area. Il CNC, il Centro nazionale della cinematografia, gli ha sovvenzionato delle riprese per possibili documenti filmati. Di rientro dalla missione, nel 1949, Rouch ha con sé taccuini, osservazioni, fotografie di terreno, scatti sia suoi che di Damouré Zika, come mostrano i carnet, e attesteranno le successive dichiarazioni; così come si evince dalle didascalie di Le franc tireur, dove, in forma di articoli, pubblicherà parte dei diari di missione. Ha con sé, inoltre, tre film di ambiente songhay, Les magiciens de Wanzerbé, in bianco e nero, e Circoincision e Initiation à la danse des possedés, questi ultimi a colori, Kodachrome, tutti in 16mm. Tre taccuini visivi, tre cinegrafie documentarie: questo almeno nell’intento e come forma di un’intenzionalità etnografica modellata sulla pratica e teoria di terreno francese del tempo. Esito, tuttavia, di una missione che nulla ha della spedizione tradizionale, e molto di diverso manifesta nelle strategie di contatto, come nell’attitudine dell’etnografo in formazione. Questi film definiranno il percorso di Rouch tra etnologia e cinema, accreditandolo ulteriormente presso la comunità antropologica, avvicinandolo alla comunità cinematografica, che premierà Initiation à la danse des possedés a Biarritz al festival dei film maudit voluto da Cocteau, incrociando, come già era accaduto in Documents e Minotaure etnografia e arte, cinema come spettacolo tra vita e arte, ritrovandosi in un catalogo dove appare il profetico testo del 1927 di Artaud Cinéma e sorcellerie, allora inedito, la cui influenza sarà indubbia sulla sua futura pratica e poetica di cinema etnografico.22 Seguendo i carnet di viaggio, recentemente ripubblicati,23 il primo dei film è Circoincision, girato a sud di Timbuctu e Gao, nel villaggio

di Hombori, un film di quattordici minuti dedicato al rito di passaggio centrale della vita dei giovani songhay destinati a diventare maschi adulti. Se il filmato, come testimonia anche il commento d’epoca, traccia la presenza della camera come forma di scrittura in diretta di eventi da registrare, di gesti e comportamenti tutti degni di attenzione e cura visiva, sfuggendo al tema classico della differenza tra durata dei riti e forme filmiche di restituzione e riparando in qualche modo nella misura canonica del documentario, tracce di affezione emergono, tuttavia, nelle riprese dei volti e dei corpi dei fanciulli: la dimensione espressiva non sfugge all’ottica della mdp. L’evento cerimoniale non è neutrale per i soggetti che lo vivono come per chi lo registra. Una dichiarazione di Rouch del 199324 ci riporta alla prima proiezione del film presso il Musée de l’Homme, alla presenza di Griaule, Leroi Gourhan, Lévi-Strauss, appena rientrato dagli Stati Uniti, Leiris e la Dieterlen. Agli occhi dei presenti il film faceva dei ragazzi invece che una classe di soggetti dei personaggi vivi e reali. In termini di teoria del cinema delle origini il film tracciava la via della mostrazione piuttosto che della captazione pura di eventi.25 Nel mondo dei fatti sociali di Durkheim gli esseri viventi vanno appunto studiati come oggetti. Nell’impossibilità di una ragione baconiana dagli occhi secchi, Rouch parteggiava coi suoi fanciulli, impauriti dal rito e dal dolore. Traccia di un contatto piuttosto che forma ottica di questo. Filmare per Rouch è tracciare: dare forma a una semiotica leggera ma estrema dell’impronta, accostare la materia sensibile dell’immaginario, la vita tattile dell’aptico, le vite degli altri. Il secondo film, nella cronologia del viaggio del 1949, è Initiation à la danse des possedés e vede un ritorno a Firgoun, il villaggio di Au pays des mages noirs. Rouch filma il villaggio ancora una volta pensando alla cinepresa come caméra crayon, alla regia come cinegrafia, come se fosse davvero possibile la cinegrafia di un rito di possessione che lo vede testimone nel villaggio per sette giorni.26 Il film comincia offrendoci un totale dei luoghi, una panoramica del villaggio come indice di localizzazione, per poi presentarci l’arrivo del musicista-guaritore, attore decisivo della cerimonia di possessione. Definita la cornice, localizzata la dimensione narrativa a venire nell’economia di un incipit, il film mette a fuoco la donna posseduta, Zaba, la cui sorte è segnata dalla presenza del genio, donna del cui stato si fanno carico i sacerdoti, attraverso la terapia della danza. Una donna iniziata sarà tramite tra sacerdoti e musicista, offrendosi come compagna e guida coreutica alla posseduta perché apprenda i passi necessari alla guarigione. Rouch filma così, come già in Au pays des mages noirs, gli stati plastici del corpo, l’evidenza di espressioni e gesti, la dimensione esacerbata di sguardi e posture. L’intensità e la prossimità dei primi piani e delle inquadrature strette, camera a mano, segnano lo spazio liminale della danza rituale, attestano la presenza contigua di Rouch, testimoniano la sua intimità culturale e spaziale con le forme del rito. La tensione verso il gesto in qualche modo esemplare mette in luce una scelta estetica, una forma di tensione filmica verso gli stati di eccesso, tensione che tralascia il fuori campo, i tempi morti del rito, la funzione supplente delle donne ai bordi dello spazio rituale della danza, come si vedrà poi in Horendi del 1972. Suscitando qui, nel confronto, la questione cruciale della marca temporale, la relazione tra tempo narrativo cinematografico, e tempo vuoto, morto, tempo comunque puntuale di vita e osservazione antropologica. Dell’attitudine e del metodo etnografico. L’inquadratura come pratica di rilocazione temporale nella successione di stati intensi ed esemplari, o la cinepresa come stilo necessaria dell’immagine vuota a bassa densità descrittiva? Del pieno vuoto dell’evento rituale? Il tempo del récit o la qualificazione tonale e sensoriale dei discours? L’impossibilità del piano

sequenza, la durata di circa venticinque secondi del caricatore obbligano o muovono Rouch alla pratica di un film tensivo, fatto di frammenti, ossimorico, in taluni frangenti. La cerimonia si fa film, si fa cinema nel privilegio di elementi spettacolari, nella struttura di un climax che il montaggio restituisce con chiarezza. La conclusione del film, come vedremo poi in Maîtres fou, ci presenta il villaggio alla fine del ciclo cerimoniale, la quotidianità ritrovata, le possedute come donne normali nuovamente dedite alle attività consuete. La diegesi fa, dello schermo possibile di questo film, il mondo songhay, nella durata di ventidue minuti. Commentando Au pays de mages noirs nella versione del 1991, Rouch contrapponeva una sua descrizione puntuale del rito alla enfatica didascalia della versione delle Actualités françaises, alla ekfrasis paradossale e benpensante del primitivo, proposta come didascalia, operatore patemico in nome e per conto dell’altro. Sulla via di un cinema partagé ancora a venire, nei film songhay la frizione tra commento e riprese, tra intenzionalità del progetto scientifico ed effettualità del lavoro filmico, comincia a mostrare la tensione tra field e film, tra cornice narrativa e dispositivo teorico del terreno come campo di registrazione di dati, tensione di cui la mdp sembra farsi strutturalmente testimone, come misura e strumento di esplicitazione, piuttosto che elemento di elicitazione. L’euristica si nutre di inquadrature e punti di vista, interrogazioni che i protocolli di Mauss e Griaule, d’altronde, non riescono a disciplinare, esponendosi di fatto a tensioni simili già in fase di teoria, come mostrano i manuali di entrambi.

Les magiciens du Wanzerbé è l’unico in bianco e nero tra i film songhay della missione del 1948. Girato in Niger, sincronizzato nel 1951 a Parigi, ha un commento scritto e interpretato da Rouch, rea​lizzato con la consulenza di Griaule. Interpretato, perché Rouch, a differenza dei commenti e delle restituzioni didascaliche, usa la voce come uno strumento, a sottolineare, pur senza drammatizzare, gli eventi. Non c’è mai enfasi, ma neanche indifferenza: Rouch è l’autore, non è uno speaker, Rouch narra, mentre la Mead spiega. Il set è il field di Wanzerbé, dove le cerimonie di Mossi e i rituali di purificazione e possessione da lui celebrati sono oggetto esteso di studio da parte di Rouch, come leggiamo nella sua tesi di dottorato del 1954 e nella monografia del 1960 ristampata nel 1989.27 Il film si annuncia attraverso una dichiarazione di intenti, un cartello di introduzione teorica: “questo film non è

che una registrazione”. Osservanza, retorica, alla tradizione francese, del dilettante di talento nel suo avviarsi all’etnografia, osservanza alla tradizione di Mauss e Griaule. Poi ecco il film fatto immagini, nel suo aprirsi con un totale fordiano, con un’esattezza del paesaggio da cinema americano degli anni trenta e quaranta: Tuareg provenienti dal Marocco, sulle rotte dei mercanti. Quindi il cielo, un cielo ampio e africano, solcato da uccelli di grandi dimensioni, e, in off, la voce che ci dice che gli uccelli, poiché volano in cielo, conoscono i segreti della terra. Essi ascoltano dio che sta nell’alto. La mdp ci presenta quindi un totale del villaggio di Wanzerbé. Ci è descritta la carovana e indicato il capo di questa. Incrociamo poi il viso di una ragazzina che guarda in macchina e sorride, esploriamo il mercato, lo sguardo di donne che accolgono la presenza della camera sorridendo, e di donne che si nascondono allo sguardo estraneo. Rouch usa qui dei totali per poi, nel montaggio, alternare inquadrature strette, o addirittura frame di dettagli, come le finiture e le staffe delle selle dei cammelli, o il dettaglio delle forme di sale vendute al mercato. Indugia e cerca la risposta dello sguardo in macchina, sguardo presente e che acconsente. Quindi, nel montaggio, alla scena del mercato giustappone la scena di giochi di ragazzi guidati da un maestro, descritti e comparati ai giochi di adolescenti e bambini francesi di quegli anni, risolti in campi e controcampi. Dopo la descrizione del luogo, nel giorno del mercato, Rouch ci presenta Mossi, uno dei sette maghi del villaggio. Lo seguiamo nel suo recarsi nella brousse, nell’atto di devozione rivolto all’albero che decorticherà per preparare le sue pozioni, nel ritorno a casa. Ecco allora la descrizione filmata di questa, l’indicazione della traccia spaziale e cardinale in cui è inscritta dai quattro alberi da lui piantati secondo gli assi di orientamento, per poi concentrarci sul sacrificio di un’antilope bianca, la cui uccisione non è filmata, prima di adempiere alla preparazione di un incantesimo. Mossi, come recita la voce off, è guidato dal genio: nella sua casa predice il futuro con i cauri, traccia dei segni sulla terra e si produce in una complessa geomanzia. Le sue mani riempiono un vaso magico e Rouch ne filma il suo volto riflesso. Accorcia la distanza, e, evidentemente accolto, produce una prossimità. La terra non mente, così ci dice Rouch riprendendo quanto Mossi sembra dirgli.28 Quindi un totale ci fa tornare sulla piazza del villaggio, nello spazio rituale: i tamburi cominciano suonare, Mossi adesso non è più solo, tutti i maghi del villaggio sono con lui. Ma all’atto della danza soltanto uno di loro sarà sulla scena rituale, e con lui il villaggio celebrerà un rito di purificazione. Comincia così una danza di fertilità.29 Al levare del sole, il giorno dopo, uomini e ragazzi si avviano verso la montagna di Segoumé che protegge il villaggio, portandosi dietro un torello bianco. Fissato il luogo del sacrificio, i maghi leggono il futuro nel sangue della vittima. Dopo aver cacciato il male dal villaggio, i maghi chiedono alla divinità il futuro del raccolto. L’animale sacrificato, la cui uccisione per sgozzamento è qui filmata, è quindi offerto come cibo ai ragazzi, mentre i cani, commenta qui Rouch in modo letterario, attirati dall’odore del sangue, arrivano numerosi. Le immagini sono senza suono diretto, la camera si sofferma sul labiale dei nativi. Rouch che registra ciò che vede, come dichiara a inizio film, racconta una tranche di vita del villaggio, filma il mercato e la magia, il sacrificio rituale dell’animale in nome e per conto del villaggio e la geomanzia di un destino singolare, giochi e carovane, incroci di genti diverse sulla rotta delle merci. Cadrage descrittivo e vocativo, evocativo. Totali, primi piani, volti, dettagli di gesti il cui senso, come nella scena della geomanzia, è essenziale, ma il cui film, come poi il montaggio, sono prodotti e pensati in chiave narrativa: cartes postales dell’immaginario che cominciano a giungere in Europa da Wanzerbé, tra il cinema, e l’antropologia, in un confine,

per Rouch, davvero immaginario: Per me il cinema, filmare, è come la pittura surrealista (Magritte, Dalí): utilizzare dei procedimenti di riproduzione i più reali possibili, essenzialmente fotografici, ma al servizio dell’irreale, per mettere a fuoco gli elementi irrazionali. Portarli alla luce. Una cartolina al servizio dell’immaginario.30 Alla conclusione della missione, nel febbraio del 1948, Rouch si ritrova, da solo, senza i suoi compagni di viaggio africani, in attesa di rientrare a Parigi via Dakar. I carnet riportano diverse impressioni, il diario di viaggio consegna una riflessione acuta sul mestiere di etnografo e sui limiti di questo, sulla forma che esso assumerà nel lavoro di Rouch, tra cinema e antropologia: Non sono venuto per vivere come gli africani, ma per essere un testimone della loro vita. Ed eccomi divenuto testimone di eventi gravi e segreti che non posso testimoniare. Qui emerge la difficoltà quasi insormontabile del mestiere etnografico: come non essere un intellettuale dagli occhi secchi nel senso di Bacon, una macchina di osservazione, né tuttavia diventare una sorta di poliziotto volto a estorcere alla gente ciò che non vuole comunicare; né, d’altronde, essere una sorta di Robinson nella vita selvaggia, vivendo tra gli africani una vita contemplativa. E mi rendo conto che nel lavoro di equipe rischierei di restare alla superficie delle cose, mentre il lavoro solitario rischia di condurmi troppo in profondità. Fortunatamente questa bardatura, sovente maledetta – apparecchi fotografici, macchina da presa – è stata la mia fedele compagna. Quando mi sono sentito trascinato dallo spettacolo, l’obiettivo di cristallo non batteva ciglio davanti alla bava dei posseduti, al sangue dei tori sgozzati […] Ho sempre filmato con camera a mano o in spalla. Scoprendo intorno a me assistenti locali, come Damouré, capace di ricaricare le bobine, di diventare fotografo mentre filmavo… Questo mi suggerisce la possibilità di lavorare con troupe locali, dopo una breve formazione utile alle riprese: questo consente di realizzare dei buoni film etnografici.31 Rouch mette in crisi la condizione dell’osservatore partecipante sia nella versione malinowskiana che in quella indiziaria di Griaule, ripropone il tema dell’interdetto e della confidenza tra informatori ed etnografi, nodo cruciale dell’esperienza di Leiris nella missione Dakar-Gibuti, fugge, consapevolmente, da modelli sentimentali superficiali e semplicistici: la ricerca del buon selvaggio gli è del tutto estranea. L’Africa che lo muove e orienta è una terra di saperi e frizioni, di modernità incipiente e tradizioni esoteriche, di relazioni commerciali e iniziazioni rituali. Di sovranità e legittimità diverse nel campo di forze dell’immaginario, nella restituzione, da occidente, di questo terreno di scontro. L’etnografia visiva sembra poter esser, in nome della tecnica, la via di fuga possibile dalle contraddizioni, la via di una ricerca partagé, di un’antropologia partecipata con nativi, locali, abitanti, migranti africani, maghi e fotografi. Il secondo episodio, la seconda missione della geografia dei film songhay, porta

Rouch a caccia di ippopotami sul fiume Niger. I pescatori Sorko cacciano con arpioni le bestie del fiume. Prima della partenza ha luogo una cerimonia per interrogare il genio del fiume sulla riuscita della caccia la cui possessione in forma di trance è filmata nel segno del realismo: l’evidenza della bava alla bocca nella sua plasticità deforme. È il rito che in Au pays de mages noirs, per esigenza drammaturgica, in nome della potenza narrativa delle immagini e delle abitudini diegetiche occidentali verrà poi montato a conclusione del racconto, alterando la logica indigena della devozione come augurio e ricerca di responso. Il film quindi si sofferma sulla costruzione di una grande piroga dedicata alla caccia di grandi ippopotami e la caccia ha inizio. Nella caccia, il cacciatore e il suo arpione sono sottomessi al Dongo, divinità dell’acqua, e ad Harokoy Dikko, i cui capricci e desideri guidano l’arpione verso la bestia, o lo deviano da questa. Nella relazione tra il fiume e la popolazione, la vita va negoziata tra l’autorità religiosa che celebra il dio dell’acqua e ne interpreta e i segni, e il mago coi suoi incantesimi, grazie ai quali Harokoy Dikko può essere sconfitto e l’animale ucciso. E Damouré, amico e fotografo, qui ridiviene cacciatore, come ci informano i diari di viaggio, cacciatore di animali invece che di immagini. Rouch filma le scene di fiume come in un sontuoso film americano e le scene di caccia nella memoria di Flaherty e di Rossellini, tra Nanook of the North e Stromboli terra di Dio, tra le cacce tra i ghiacci ai leoni marini e la tonnara cruenta del film siciliano. Ma, come Flaherty, Rouch, armato della sua 16mm, filma accorciando le distanze, filma i cacciatori e l’animale, filma la grande piroga quasi affondata da un ippopotamo, filma il caso e sfida il caso, pur avendo cercato di partecipare alla produzione dello stesso. Il secondo film della geografia songhay, tra quelli realizzati da Rouch negli anni cinquanta, Les hommes qui font la pluie, ci porta a Simiri, nel settimo giorno della stagione secca. Qui la popolazione si reca in processione alla casa dei geni per celebrare lo Yenendi, o festa della pioggia. I suonatori di calebasse accompagnano le danze di possessione grazie alle quali i geni si esprimono nella voce dei danzatori. Dopo una trattativa tra uomini e geni, il giuramento della pioggia si compie con il sacrificio di un pollo e di un montone: comincia così la stagione delle piogge. Lo Yenendi viene filmato il 23 aprile del 1951 ed è oggetto di una lunga appassionata descrizione ne La réligion et la magie Songhay,32 come, poi, di una lunga dedizione, formata da dodici titoli nell’arco di quarant’anni, dedicati a una vera e propria geografia diacronica dello Yenendi. Il film ha inizio con un camera car che consente a Rouch un totale in movimento del paesaggio. I colori della stagione secca segnano la natura circostante. Quindi la macchina da presa inquadra la casa del dio dell’acqua – il Dongo – e cominciano le danze di possessione durante le quali il dio si manifesterà. Dongo si incarna nel corpo di una donna e questa diviene, nella cerimonia, il Dongo. La continuità semantica del film è data dal suono. Il suono diventa lo spazio della relazione tra inquadrature e riprese, tra situazioni descritte dalla voce off, sempre di Rouch, e descrizioni devolute esclusivamente alle immagini. La voce off si situa tra immagine e suono, ma il suono, la musica, sono il terreno di emergenza del senso. Rouch cerca, evidentemente, di generare, attraverso il suono, una produzione patemica di senso: la possessione emerge nel corpo, nella cadenza che si fa ritmo, nella flagranza motoria della trasformazione del corpo in una presenza spirituale: non è il genio dell’acqua a possedere la donna, semplicemente, ma la donna a farsi il genio dell’acqua, in un othering metamorfico. Ecco allora la necessità di interpretare i segni della divinità e il suo linguaggio: le brocche d’acqua, sineddoche semplice della pioggia, lette come testi di una comunione tra terra e cielo, perché la pioggia è appunto il legame liquido che unisce i due

mondi: la pioggia dal cielo è il segno di una unione. Il sacrificio dei due animali presenti consente al loro sangue di colare in terra e di imperlare di rosso un albero ormai morto, segno di una pioggia mancata. Rouch, dopo queste inquadrature abbastanza strette, nel rituale che va a conclusione ritrova il totale, forma dell’oggettivo ma anche dei finali, dal punto di vista delle grammatiche e delle retoriche filmiche, forma della rassicurazione e dell’esortazione: l’ampiezza della vista consente all’occhio di guardare lontano, i cieli sono solcati da uccelli e da nuvole come presagi di pioggia. La piccola epica del tutto e del senso riacquistato è predetta retoricamente dal cineasta: il totale delle nuvole ci avvicina al presagio, gli dà agio di essere il visto come previsto. La potenza del cinema sta nella costruzione dell’anticipazione, la visibilità e il montaggio come forme semplici dell’inferenza. Chi non immagina una pioggia alla vista di nuvole grosse e imponenti? Come in un finale da un film di Ford o da un western di Anthony Mann, Rouch trascina l’Africa dei riti di possessione nello spazio visivo del cinema classico, produce nello spazio della realtà filmata il reale della sua memoria e il possibile della sua inquadratura. La grammatica e la sintassi di un punto di vista sono nel sistema dei punti di vista. Non si impara a guardare, si impara a vivere in un sistema di sguardi. Da lì si può provare a pensare come guardare.

6.2.2. La variazione dogon: geografie e cronache from an outer space Due dichiarazioni di Germaine Dieterlen sono il viatico necessario alla lettura di Cimetière dans la falaise di Jean Rouch, prima deviazione dal mondo songhay, primo contatto col mondo dogon, nel segno di Griaule, nell’attrazione verso l’antropologia simbolica, nel segno di una restituzione filmica di questa: E mi ricordo soprattutto della reazione di Marcel Griaule a Sanga nel 1950, quando Rouch, sentiti i tamburi dogon, sale di corsa con Roger Rosfelder per gli impossibili sentieri della falaise all’inseguimento di un corteo funebre che, con gli ultimi raggi di sole, riportava il cadavere di un annegato al villaggio di Ireli: l’indimenticabile sequenza di Cimetière dans la falaise. Griaule, allora, disse semplicemente: “Sarebbe questo un cineasta?” […] Fin dal 1951, quando Griaule gli aveva chiesto di fare un film sulla vita quotidiana dei villaggi della falesia, ed egli aveva ripreso senza esitazione l’improvvisa cerimonia funebre, Rouch applicava un metodo che ha poi sempre seguito: registrare tutti gli avvenimenti, le tecniche, i riti, le cerimonie, cercando di raccontare la storia con le immagini: la costruzione di una piroga su un fiume, il sacrificio di un pulcino sulla falaise, la preparazione di un veleno, la divisione della carne di un leone ucciso con le frecce, l’iniziazione alla danza di possessione.33 Cimetière dans la falaise, datato 1950, è un film unico nella formazione di Rouch come cineasta ed etnologo. Film a colori, magnifico nella sua capacità di filmare la bellezza stupefacente della falesia a Bandiagara, è, tra i film degli inizi di Rouch, il più sorprendente, il film più patetico e patemico, estremo per intensità ed esatto nella descrizione, flagrante nei movimenti di macchina e nitido nel montaggio neoclassico. Film dove la presa del suono si fa terreno grazie a Ros​felder e al registratore portatile Acémaphone Sgubbi, del peso di trenta

chili. Primo viaggio in terra dogon, omaggio al maestro Griaule, prima incursione in un terreno etnologicamente estraneo. Siamo a Bandiagara, nel 1951, nella missione di Griaule: Rouch è incaricato di realizzare un documentario sulla vita quotidiana dei villaggi della falesia. Un evento terribile e fortuito modifica la natura stessa del progetto: l’urgenza della realtà impone un diverso reale. La morte di un uomo annegato nel fiume, la sua ricerca, i sacrifici propiziatori alle divinità dell’acqua, il suo ritrovamento e infine il funerale formano un film, si fanno l’urgenza di una storia. Rouch non filma soltanto la cerimonia, filma la cerimonia come tempo, come esperienza del dolore di uomini e donne, rappresentazione pubblica di questa. Filma la liturgia dove il dolore assume la forma del rito e dove la comunità ritrova la forma del congedo nella relazione tra la vita e la morte, l’idea del passaggio. Il film inizia con la presentazione dello spazio della falesia: una panoramica seguita da altri totali, poi da inquadrature più strette, rievocando in queste prime immagini i due film firmati da Griaule stesso Au pays de Dogon (1931) e Maques Dogon (1938), entrambi in bianco e nero, film contigui al cinema esotico e coloniale di tradizione francese.34 Guglie, spuntoni rocciosi segnano qui i bordi di panoramiche e inquadrature. Dall’alto la mdp filma la terra coltivabile, l’acqua, le radure, i baobab. Quindi l’umano emerge dalla natura in campo lungo, ridefinendo questa come paesaggio, offrendo a noi la differenza, l’articolazione di questa emergenza: le donne avanzano con delle ceste sulla testa; la voce off ci informa che le ceste hanno la forma del mondo, come pensata dalla cosmologia dogon. Dettaglio di piedi nudi che corrono e si arrampicano magistralmente sulla falesia trovando gli appoggi. Ultima inquadratura di questa sequenza è la pianta di un piede: sineddoche semplice. Ma la sintagmatica ci riporta dal mondo ai piedi del mondo, dal movimento del corpo, che sulla testa reca il peso come forma del mondo stesso, ai piedi che nell’appoggio trovano il mondo a partire dalla postura e dalla corsa: si arrampicano sulla falesia e portano verso l’alto teste e occhi. Metonimia e montaggio, analogia. La mdp inquadra poi la cascata, la fonte d’acqua, vista dall’alto, così come il villaggio all’ombra di questa; quindi nuovi tagli di montaggio sulle forme dell’acqua, per poi discendere, attraverso una panoramica da sinistra a destra sul villaggio stesso, sulle sue magnifiche architetture, sulle murature, sulle coperture dei tetti. Quindi una nuova panoramica da destra a sinistra: il totale usa un ramo alla sua destra come cornice dell’inquadratura, mentre il baobab manifesta la sua importante presenza nel paesaggio dogon. Rouch, in off, ci informa che nella cultura del luogo dopo una notte di pioggia bisogna rispettare il dio dell’acqua, il genio del fiume, perché contraddirlo è pericoloso. La morte dell’uomo è il segno della mancata osservazione dell’interdetto. Una ripresa dal basso ci presenta ancora la cascata, luogo di bellezza e colore. Una donna avanza, formando quasi un sipario visivo tra noi e l’acqua. Poi la donna scompare. Ed ecco, allora, il sacerdote celebrare un rito di sacrificio al fine di propiziare il ritrovamento del corpo dell’uomo annegato. Rouch lo inquadra dall’alto: vediamo l’uomo svestirsi, sacrificare il pulcino sgozzato, offrendo il sangue al genio del fiume perché restituisca il corpo dell’uomo. Quando il corpo è ritrovato, Rouch filma il trasporto del cadavere; è una scena straordinaria e unica, concitata e puntuale: camera in spalla, Rouch corre, per fermarsi ora dietro la folla che corre verso il villaggio trasportando e accompagnando il corpo del defunto, ora per sopravanzarla, filmando frontalmente gli uomini che avanzano con in spalla il corpo avvolto in un tappeto. Scena segnata da salti di luce, di tagli di inquadrature che sovvertono grammatica e sintassi, ma la cui urgenza etica ed estetica è visibile, volta a produrre il sacro e il lutto come uno spazio

effabile di segni e movimenti: l’ordine fisiognomico dei volti degli uomini di quella comunità nella corsa verso il villaggio al tramonto. La concitazione non si fa qui spettacolo del pathos, piuttosto una cinetica originale, un dispositivo corpo-macchina da presa capace di inventare e fare reale la realtà. Nuove tecniche del corpo novecentesco. Omaggio a Mauss, alla sua tensione di ricerca orientata dalla centralità del corpo, che la fotografia brasiliana di LéviStrauss rimette in scena, come euristica, che il film di Rouch ricostituisce criticamente nel doppio vincolo della tecnica del corpo del cineasta antropologo nell’atto di filmare e registrare le tecniche del corpo dei soggetti filmati. Da cui lo stupore di Griaule, riportato dalla memoria di Germaine Dieterlen, di fronte al cinema à bout de souffle di Rouch, cinema muscolare. Un’ellissi di montaggio ci porta quindi al giorno seguente, alla data dei funerali. La veglia notturna ha accompagnato il defunto e ora il villaggio si appresta all’ultimo saluto. La famiglia dello scomparso è vestita di bianco – grammatica culturale dei colori – i tamburi sono suonati dagli uomini. Va in scena una battaglia tra gli uomini della famiglia, che mimano uno scontro con gli spiriti guerrieri che vogliono impedire al defunto l’accesso alla piazza del villaggio, il cui corpo, vinta la battaglia da parte dei suoi famigliari, è infine trasportato sulla piazza stessa. Si intravede la casa della parola dei villaggi dogon, si legge il percorso sinuoso del trasporto, questo in rispetto al genio dell’acqua, e all’idea di rinascita dopo la morte: pensiero mimetico e analogon nello stesso movimento, essere come l’acqua del fiume mobile e volubile e produrre il percorso come peripezia, ovvero la forma della vita e della sua possibile rinascita dopo la morte. Il cadavere è finalmente giunto in piazza. Rouch ha seguito i movimenti del corteo, si è allargato per filmare la battaglia degli spiriti e degli uomini. Adesso è tra la folla, sperimenta lo smarrimento visivo, si lascia guidare dall’istinto, filma il sollevamento del cadavere, issato con delle corde nel cimitero, in alto nel verticale della falesia stessa. Controcampo sulle lacrime della famiglia e della madre, mentre l’off commenta il destino dell’uomo in lotta perenne nella vita e destinato comunque alla morte, riportando i detti dogon. Rouch filma l’evidenza della partecipazione al dolore, filma i primi piani, cerca nella fisiognomica l’universale semplice del pianto, ma la sua inquadratura – il plan – rimane rispettosa anche se nitida: la scelta è di inquadrare offrendo tempo all’interlocutore di decidere se restare dinanzi alla cinepresa, oppure rifiutare la presenza della camera. Non ci sono immagini di sguardi rubati. Non si filma furtivamente nello spazio di una cerimonia. Le lacrime comunque fluiscono: pianto di partecipazione patetica e pianto professionale, come aveva assicurato Griaule a Rouch sollevandolo da preoccupazioni e timori, sospeso verso l’imponderabile di un rito tra necessità del vero e necessità di una tensione filmicamente palpabile: la dimensione aptica delle lacrime come materia visibile del dolore. Rouch filma poi il sollevamento del corpo. Ci informa, nel commento, sulla natura dei disegni del tessuto che ricopre il cadavere, geometrie e figure della morte e della resurrezione, con una panoramica alto-basso a seguire la fune, mentre il cadavere sale al cielo salutato dalle voci dei canti, dalle lacrime. “L’homme est fait pour souffrir dans la brousse,” commenta Rouch, e la morte è destino di tutti, mentre una calebasse fracassata rappresenta adesso l’uovo spezzato che è il mondo, ovvero la vita e la creazione animale e spirituale. Dinanzi a questo simbolo, l’occhio tecnico di Rouch torna in mezzo alla folla, lo sguardo e la mdp ritornano verso la famiglia, mentre tutto il villaggio si congeda e saluta la madre del defunto. Rouch filma quindi il cimitero nelle cave di argilla, la tomba dove i morti ritrovano gli antenati; penetra col suo obiettivo nelle caverne, prima di tornare, con diverse

inquadrature sulle cascate, sul racconto dell’acqua che cade dall’alto verso la pozza, per ritrovare infine l’acqua in basso scorrere via, trascinando un arbusto che scompare. Scena di un altro funerale, innestata sulla presa diretta del primo, trucco di montaggio al fine di accostare il reale, piuttosto che la realtà, nella trama di un film condiviso con la Dieterlen e Griaule, con la prima probabilmente responsabile di un copione traccia seguito da Rouch.35 Il congedo lirico, come descritto, racchiude un film intensissimo dal punto di vista emotivo, dove la descrizione densa dell’evento si forma a partire dalla presenza visiva di Rouch tra la folla, dalla sua continua sfida alla liminalità, dall’idea di una grammatica del mezzo esaltata dalla scelta primitiva e obbligata della camera a mano, segno assoluto della modernità: addio al cavalletto, addio alla statica performante dei punti di vista, alle panoramiche inclusive ed esclusive. Il campo si fa più stretto, non si fa più preciso, ma più denso. In Masques Dogon, l’immagine di Griaule al lavoro con il suo taccuino, all’inizio del film, segnava il terreno della presenza dell’autorità etnografica. Rouch restava ancora al di qua del campo, ma lo sfaldava nel movimento del suo corpo, nel suo farsi sguardo di prossimità, nell’attesa di farsi parte di un dialogo sin sulla scena del terreno nell’atto di filmare, filmarsi, farsi filmare. L’antropologia visiva comincia qui a trovare il suo campo, a disciplinare il controcampo: l’altro non è un counterplan. Bazin, nella sua riflessione ontologica sul cinema, scriverà, negli stessi anni, che il tempo dei falsi campi/controcampi è finito, che i piani di ascolto sono trucchi, che il coraggio della modernità si presenta nella possibilità che due o più soggetti siano nella stessa inquadratura, compresenti. Coevalness. Questione, certo, più dolorosa e acuta in antropologia. Risolta dalla scrittura a distanza, dalla distanza. L’immagine che accorcia, l’immagine rouchiana, la futura immagine partecipata, rompe la calebasse della scena rituale disciplinare, spezza l’occhio del mondo, la sua tenuta grafica, la potenza antica della scrittura. Il coraggio del paesaggio, la sua malìa, il coraggio del racconto, danno vita alla scena dolorosa del rituale, lo rivelano come vivo, nell’ellissi del montaggio, nell’evidenza di una durata diversa, nella possibilità di una passione per immagini come forma di conoscenza. Immagini che qui sono segnate dalla relazione con Griaule, la cui competenza di terreno era indubbia, come pure la sua ascendenza sul giovane Rouch, immagini che inevitabilmente rievocano Dio d’acqua, tracciando il simbolico nelle forme del concreto, nella relazione tra visibile ed evocabile, tra campo e fuori campo, tra effabile e ineffabile. La carte postale dogon era in viaggio. Spedita da un credente in quanto filmmaker, da un praticante di una liturgia del bello, nella tecnica chiamata cinema. Dallo statuto classico del narratore fordiano la metamorfosi potenzialmente rosselliniana incorporava, come un occhio, una piccola 16mm da cinema muscolare nella soglia mobile del movimento del corpo che vede e filma. Il ciclope novecentesco, chelovek s kinoapparatom.

6.3. Metodi, manuali, tradizioni: le immagini selon Griaule, 1957 Méthode de l’éthnographie è pubblicato nel 1957 da Presses universitaires de France. Il manuale di Griaule, come già quello di Mauss, vede la luce dopo la morte improvvisa, l’anno precedente, del suo autore. Come il manuale di Mauss, il testo di Griaule è desunto dai

materiali delle sue lezioni. L’ampio frammento qui riportato ha come oggetto l’uso delle immagini cinematografiche, ed è parte di una serie di paragrafi concernenti l’uso della fotografia, la pratica delle diverse tecniche fotografiche (con un particolare approfondimento della fotografia aerea), le pratiche cinematografiche. Griaule è qui richiamato con il suo testo alla luce del suo ruolo fondamentale nella ricerca etnografica di terrain in ambito francofono e africano, alla luce della sua esperienza di cineasta etnografo, di fotografo di campo, cruciale nella pubblicità della missione Dakar-Gibuti, di produttore di metodologie. Rouch diviene etnologo grazie al suo incoraggiamento, alle sue indicazioni di metodo, alle sue capacità di indirizzo di ricerca. Nel 1950, Griaule lo chiama con sé a Bandiagara, come abbiamo visto, con l’incarico di realizzare un documentario etnologico sulla vita quotidiana dei villaggi della falesia. Ed è qui che Rouch filma splendidamente, per la prima volta nella sua vita, lo spazio dogon, provocando lo stupore e la sorpresa di Griaule, stupore verso la pratica, sorpresa verso la forma stessa dell’agire filmico come esperienza dell’imprevedibile. Sempre Griaule lo attaccherà, di lì a pochi anni, criticando duramente Les maîtres fous alla prima proie​zione al Musée de l’Homme, chiedendo di distruggere il materiale della trance in quanto immagine violenta e irrisolta di una cultura rituale, immagine inevitabilmente spettacolare. Il progetto metodologico di uso delle immagini da parte di Griaule è evidentemente diverso, orientato da una tradizione maussiana, dalla memoria di un uso delle immagini come pratica di indagine a distanza, esperite quindi come traccia, struttura della registrazione. Il sistema di istruzioni, le avvertenze metodologiche, procedono alla costituzione di un archivio di immagini documentarie, di immagini registrazioni, la cui fedeltà, ovviamente mediata dalle esigenze di terreno e dalle limitazioni tecniche, restituisca un approccio scientifico alla pratica filmica e fotografica. Il buon uso delle immagini è la trasformazione di queste in una fiche filmica: il supporto come memoria puntuale e situata, nella logica qui espressa nell’incipit del paragrafo sulla fotografia, della fedeltà testimoniale materiale. Il paradigma boasiano, rivisto alla luce di Régnault, trova qui la sua pienezza, il suo radicale sviluppo, nel segno del salvage – gli archivi dell’umanità – e dello studio: La fotografia e la cinematografia sono dei processi di registrazione di primaria importanza nella ricerca etnografica. È evidente che esse sono d’aiuto per la presentazione oggettiva delle società e delle idee che sono lontanissime dalle approssimazioni congetturali che fornisce, per esempio, un testo scritto, che è emanazione di uno storico, di un testimone o di un etnografo. Come tali, sono utili alla costruzione degli archivi dell’umanità, soprattutto del lavoro storico. Un fatto attuale deve essere studiato con la stessa serietà e con la medesima attenzione con cui si studia un fatto del passato e l’etnografo dovrà sempre tenere a mente che egli è, per lo storico, il testimone autorevole sul quale, quest’ultimo, deve poter contare senza riserve. Fotografia e cinematografia, utilizzate da ricercatori in buona fede, forniscono gli strumenti per stabilire i documenti più indipendenti e imparziali del sistema etnografico. Stabiliscono il documento visibile per eccellenza. Il documento fotografico è un pezzo autentico, un testimone indipendente il cui valore è dato dalle proprietà fisiche e chimiche usate per la sua creazione. L’emulsione assorbe tutta l’energia luminosa, e ci consegna un’immagine totale che nessuna memoria

può ricostruire.36 Definita la fotografia come punto di arrivo imparziale dell’indagine di campo e della sua possibile trasmissione alla comunità della ricerca, Griaule muove la sua attenzione verso il cinema come pratica tecnica piuttosto che istanza linguistica di rappresentazione, recuperando Mauss e Régnault, in un senso, e ancora Boas. I film sono, in questa luce, documenti e archivi di immagini in movimento, quindi indici di fedeltà a eventi unici, a riti morenti, elementi didatticamente utili nella formazione ed educazione degli antropologi. Essi sono, nel segno boasiano, strumenti utili alla diffusione della conoscenza. Tuttavia una modesta dose di spettacolarità può risultare utile alla legittimazione della disciplina come all’istruzione pubblica in generale. Ciò che è stato detto della fotografia, in generale è valido per la cinematografia. Ma quest’ultima tecnica ha portato alla creazione di un documento che è molto più dettagliato e vivo della fotografia. È quindi importante occuparsi nello specifico del suo impiego nella ricerca. Tre idee portanti devono presiedere alla ripresa documentaristica: 1) Il film ha un valore d’archivio al quale ci si riferisce come a una fiche o a un oggetto; 2) Il film costituisce uno strumento estremamente efficace di insegnamento per la formazione di specialisti destinati alla ricerca etnografica; 3) In un senso più ampio, contribuisce all’educazione pubblica e, a certe condizioni, costituisce un’opera d’arte. Ne consegue che il film etnografico deve essere un documento esatto relativamente a fenomeni originali non ricostituiti (salvo in casi particolari), attraverso dei piani sequenza allo scopo di essere utilizzati come dimostrazioni tecniche, e che il fine di presentazione di materiali, pur senza divenire preponderante, non sia comunque messo da parte.37 Griaule definisce così l’assiologia del film etnografico, la sua natura di metodo di inchiesta, la sua natura formale di documento, la sua struttura come registrazione – anche se, come Mauss, definisce talvolta possibile il re-enacting, ritenuto semplicemente strumento legittimo da parte di Boas, messo in pratica da Mead e Bateson a Bali, esplorato dalla tradizione etnografica boasiana sia sul terreno della fotografia che del cinema. Si pone quindi il problema retorico: Griaule non lo affronta in profondità, ma si limita a segnalare la necessità di una expositio del materiale. Quindi, con maggiore definizione e risoluzione delle questioni di campo, la sua attenzione si sposta al disegno delle coordinate della presenza sul field in ragione di una registrazione cinematografica: In rapporto alla difficoltà di esecuzione si possono considerare due aspetti dei fenomeni umani. I più semplici sono quei fenomeni relativamente stabili che si verificano in uno spazio predeterminato, secondo modi conosciuti, per esempio una certa tecnica, una certa cerimonia non complessa di cui si conoscono le fasi. Un altro aspetto concerne fenomeni in movimento molto complessi, poco o affatto

conosciuti. La tecnica di ripresa è relativamente più facile delle altre. Si tratta nella maggior parte dei casi di movimenti meno sfuggenti, più raccolti, facilmente rinnovabili: tessitura, fucina, ceramica, pesca. Il tempo potrà essere scelto e, in una certa misura, anche lo spazio. L’atto di tessitura illuminato meglio, ben posizionato, opportunamente predisposto, mieux manipulé, si presterà a delle riprese più significative. Le tecniche lasciano dunque ampi margini dal punto di vista del tempo come dello spazio. Altrettanto si dà in un diverso ordine con i paesaggi, gli agglomerati, le abitazioni, la coltivazione di suoli. E in linea generale con tutto ciò che è immobile, oppure è relativamente poco mosso. Si stabilirà quindi uno schema delle differenti riprese che potranno essere ripartite lungo il corso del soggiorno, per realizzare le quali si approfitterà del momento migliore.38 Ma, se le tecniche della vita quotidiana delle società tradizionali, semplici, sono relativamente facili da osservare e filmare, vista la natura del mezzo, e la natura dell’oggetto etnografico, i rituali, le cerimonie, gli eventi complessi in ragione di unità di tempo e spazio, localizzazione, durata, qualità della performance, sono da filmare nella logica del reportage, nella saggezza di riconoscere la necessità di un duro lavoro di preparazione alla ripresa, di selezione e organizzazione delle informazioni disponibili sui rituali, della consapevolezza che una restituzione parallela di un testo scritto come di uno filmato conterrà inevitabilmente delle mancanze, le quali saranno ancora più gravi nel caso del testo filmico. Paradosso splendido della ragione filmica intesa appunto come restituzione fedele nel segno della registrazione. L’oggetto unico e singolare di una cerimonia produce l’oggetto unico e singolare del film di quella cerimonia. Il testo riproducibile è il testo unico. Il film è unico, il filmage unico, a meno di non considerare la possibilità, qui non esplicitata, della moltiplicazione dei punti di vista come traiettorie e punti di registrazione, con una dislocazione ulteriore del processo di restituzione e della nozione stessa di verità del punto di vista come pura tecnica delle messe a fuoco, della ragione panoptica. Crisi allora della monologia ultima, della macchina da presa come macchina monologica. Paradosso di una tautologia che si produce a partire dalla sua premessa: la fedeltà tecnica della registrazione, la potenza della techné: Tutt’altro sono le condizioni per la ripresa di fenomeni in movimento, fermo restando che la ricostruzione deve essere esclusa. Non deve essere considerata come ricostruzione la ripresa in primo piano per esempio di costumi e ornamenti che possono ad esempio essere indossati in seguito, di tatuaggi che possono essere riprodotti, di cui i movimenti caotici della popolazione o le circostanze religiose non consentono l’osservazione e lo studio nel corso del loro utilizzo. La ripresa di una cerimonia di qualche importanza deve essere considerata nei termine del reportage. Il caso più difficile è quello di un evento nel corso del quale non si è potuto registrare nessuna informazione. In questo caso bisogna lavorare al meglio e favorire la possibilità che si stabilisca una stretta relazione fra il cineasta e tutti i membri dell’équipe che studiano il problema. L’ideale è evidentemente dotare ciascun osservatore di un apparecchio.

Diversamente, in molti casi, sarà possibile ottenere delle informazioni preliminari sullo svolgimento di un rito, di una manifestazione pubblica, informazioni che evidenzieranno gli atti salienti. Tutte le osservazioni di questo genere sono utili dal punto di vista del regista. Egli porrà particolare attenzione a studiare e percorrere in anticipo i tragitti principali, a studiare i luoghi, a farsi spiegare di movimenti di scena. In una parola egli dovrà sfruttare al massimo l’inchiesta condotta dagli etnografi. Eviterà così le sorprese, sarà al momento giusto nel punto di ripresa più corretto, realizzando così un documento filmato, parallelo al documento scritto. È possibile che entrambi i documenti abbiano dei difetti, ma il film avrebbe quello più grave, di non poter rammendare i buchi [boucher les trous], attraverso una nuova inchiesta o attraverso una nuova ripresa, essendo le circostanze e i personaggi raramente gli stessi. Da questo punto di vista, ogni film è un unicum.39 A partire quindi da questo paradosso, il paradosso dell’unicum, paradosso drammatico nel caso di materiali etnologici, nodo borromeo di field, intimità e competenza culturale, profilmico, liminalità, descrizione e rappresentazione, Griaule riesamina la questione della destinazione del film etnografico (affrontando l’idea di un pubblico non soltanto specializzato), la natura dei compromessi che la produzione filmica incontra nella logica della fruizione, infine lo spazio estetico e lo spazio scientifico della messa in scena, che per certi versi continua a vedere nel senso di una sorta di processo fotografico perfezionato. Tuttavia Griaule allerta l’etnografo visivo sulla natura spesso accidentata delle immagini significanti, sulla necessaria apertura a forme di salienza diversa, che abitano spesso il banale piuttosto che l’estremo, gli atti mancati e i tempi morti invece che il climax di cerimonie e riti: La cinematografia deve essere impiegata dall’etnografo per due fini: da una parte essa deve essere considerata come una sorta di fotografia perfezionata che invece di fornire dei momenti, offrirà dei periodi del fenomeno registrato. In questo senso essa porta a film didascalici o dimostrativi. Per altro verso essa può essere considerata come produttrice di film documentari. Da un punto di vista radicalmente purista si potrebbe dire che non è necessario procedere a delle riprese cinematografiche, con l’idea di mostrare più avanti un film documentario. In effetti, un tale film, destinato al pubblico, è vincolato al rispetto di certe regole di presentazione che si suppone debbano renderlo gradevole o semplicemente interessante. Queste preoccupazioni devono essere, in via di principio, estranee all’etnografia. In effetti queste regole potrebbero far commettere alcuni errori di valutazione verso l’interesse di una cerimonia o di un gesto, o aggirarsi nello spazio delle curiosità, o ancora accostare da vicino le curiosità più facili e comprensibili. Così da trascurare gli elementi più complicati o le banalità delle espressioni native che possono perfettamente situarsi nel centro, nel nucleo delle cerimonie. Tuttavia bisogna tener conto di entrambi i punti di vista.40 Tuttavia, assunta e riproposta la natura del film come strumento e progetto di conoscenza scientifica, Griaule sembra suggerire un fuoco altro di risoluzione, almeno parziale, del tema

della rappresentazione, della retorica della rappresentazione: la relazione tra arte e scienza, tra dettaglio e insieme, qui inteso come elemento vitale narrativo, come elemento diegetico evocativo, capace di produrre un effetto più vivace di realtà, nella distinzione tra oggetti formati, film destinati al pubblico, e oggetti di studio, bande de démonstration, taccuini visivi nel lessico di Mead e Bateson, Cinema 1 nel segno di Régnault.41 Oggetti che nella forma del documentario siano in grado di suscitare l’interesse di futuri investigatori, antropologi detective, nell’idea del terreno come terreno di confronto e scoperta di verità occultate, artefatti cognitivi in forma filmica: La presentazione di un documentario al pubblico ci dà un’idea più corretta dell’oggetto da trattare, a differenza del film allo stato bruto. È questo il ruolo interessante dell’arte in questo campo. Esso restituisce una realtà esatta. Detto altrimenti, il dettaglio giudiziosamente scelto e inquadrato è più evocatore dell’atmosfera reale che il documento puro e semplice, con le sue inevitabili lungaggini che appesantiscono l’atmosfera. Il film per il pubblico può, per certi versi, offrire alla didattica delle qualità specifiche che non sempre possono esser richieste alle sequenze etnografiche [la bande de démonstrations]. In effetti, la questione dell’atmosfera così importante, per esempio, dal punto di vista dei produttori cinematografici deve essere valutata nell’insegnamento corrisposto ai futuri ricercatori-investigatori [énqueteurs]. Nel film documentario ci sono dunque qualità che bisogna ricercare ai fini del film didattico.42 Infine, a conclusione parziale, Griaule suggerisce l’uso, da parte dell’etnologo, di una troupe di professionisti, auspicando una formazione essenziale alle tecniche cinematografiche da parte di chi intende utilizzare questi mezzi sul campo, ipotizzando comunque una monarchia del ricercatore, meglio la sovranità del suo occhio rispetto all’occhio che filma: Il metodo migliore per realizzare dei film è associarsi a una casa cinematografica che fornirà il materiale e gli specialisti necessari. Deve essere chiaro, però, che al regista spetteranno solo compiti tecnici, mentre la direzione del lavoro sarà integralmente dell’etnografo. È dunque necessario che l’etnografo abbia qualche nozione di cinematografia, delle potenzialità che può attendersi, degli obblighi che essa impone.43 La posizione di Griaule risulta chiara: il soggetto antropologico, l’etnografo, è ben saldo sul terreno; il cinema è un medium; il film un prolungamento del gesto fotografico, della sua possibilità documentaria. L’oggetto etnografico, posto fuori di noi, va risolto otticamente come registrazione, fiche su film, nel senso di pellicola – segno elementare perché capace di riprodurre gli elementi della scena, pur nell’impossibilità di risolverla in una sinossi. Posizione curiosa e contraddittoria, di un antropologo di campo, che nella missione DakarGibuti fa della gestione pubblica e scientifica delle immagini una ragione essenziale di potere – come fotografo, egli stesso, della spedizione44. Autore di un testo centrale della ricerca etnografica, la cui evidenza dialogica e la cui natura intrinsecamente specifica di restituzione di testimonianza sono l’in nuce della ricerca di

campo a venire come Dio d’acqua, Griaule, spericolato aviatore, amante della tecnica, sembra come paralizzato rispetto alla pratica filmica. Legge, di questa, la matrice tecnica, per allontanarne la natura linguistica, la messa in gioco del soggetto che vede, la potenza ultrafotografica del mezzo, ridotto a tracciante di oggetti, pur intuendo, nel cinema, la potenza evidente del racconto, il fuoco del dettaglio come fuoco del reale. La camera partecipata di Rouch diverrà un corpo alieno, anche se amico, una attitude che impone un radicale ripensamento del vedere, un interrogarsi sulla natura dell’oggetto, sull’unicum, sul film come pratica di narrazione, da cui genera la questione del montaggio, il ritorno sulle immagini, la costruzione di un processo di indagine come rappresentazione: le foto sono maneggevoli, come ricorda Griaule nel suo testo, la loro scala consente una diversa usabilità. Il film, negli anni cinquanta, pur se 16mm, impone una ratio ulteriore di produzione e restituzione, proiezione o visione in moviola, di fruizione. Alla sua potenza, alla pratica di segni e di punti di vista, Griaule contrappone la domestica potenza dell’archvio fotografico, l’archivio di dettagli e di aereofotogrammetrie, di particolari di maschere e di sinossi di spazi planari. Alla bidimensionalità imponente dello schermo, Griaule oppone la bidimensionalità da tasca della foto: il terrain prevede la logistica, lo studio la semplicità. Semplicità che Rouch inventa e produce nella sua etica di presenza e di competenza nel girare, e nel filmare, nel farsi il cineocchio etnologico, nell’imprimere in sé le immagini in movimento, producendo egli stesso il movimento verso di esse. Muovendosi verso una thick inscription,45 piuttosto che all’interno di una thick description. Les maîtres fous nel 1954 sarà il terrain di una differenza e di una diffidenza tra maestro e allievo, tra lo studioso dei riti di possessione dei Songhay e lo studioso delle cosmologie dogon, nel segno del conflitto e dell’amicizia.

6.3.1. Finzioni, possessioni, specchi: the imitation of life. Les maîtres fous; Jaguar; Moi, un noir Nel 1954 Jean Rouch pubblica un piccolo libro di occasione, il racconto fotografico del suo viaggio in piroga lungo il fiume Niger, la sua discesa sino alla foce. Dall’incrocio con le altre fonti, dai film, dalla tesi dottorale del 1960, dalle interviste della sua lunga e operosa vita, come dai Carnets pubblicati nel 2009, sappiamo che durante questo viaggio Rouch ha lavorato alle sue ricerche sul Dongo, sul genio dell’acqua, che ha preso parte come osservatore a diversi riti di possessione, che ha cominciato a filmare, che ha perso il cavalletto nelle rapide dell’alto Niger, che a Bandiagara ha filmato accanto a Griaule. Di alcuni di questi esiti siamo consapevoli e già informati, soprattutto dei film. Rouch comincia a essere Rouch: ha conseguito il titolo accademico di etnologo, il suo primo film girato sulla caccia agli ippopotami tra i Sorko, Bataille sur le grand fleuve, è stato accolto nel primo festival del cinema etnografico, Leroi Gourhan e Lévi-Strauss hanno commentato positivamente quelle immagini, pensando che, forse, il cinema può essere qualcosa di più che un’illustrazione dell’etnografia. Leiris, invece, ha già prodotto un uso sovversivo delle immagini etnografiche, sin dagli anni di Au pays des mages noirs, presentandole in una cave di Parigi accompagnate da musica jazz, e Jean Cocteau ha accolto le immagini di possessione nel suo festival dei maudit a Biarritz, dove Les magiciens du Wanzerbé si trovava accanto ai fiammeggianti film di Kenneth Anger e al rigore del cinema astratto di Norman McLaren e dove si trovavano, tra gli altri, Bazin, il più importante critico e teorico del cinema francese del primo dopoguerra, il suo giovane assistente, lo sconosciuto François Truffaut e molti altri, tra cui Langlois, il fondatore della Cinémathèque la cui programmazione libera angustiava autorità e collaborazionisti durante l’occupazione tedesca in tempo di guerra, scopo dei détour parigini dell’allora studente di ingegneria. Rouch si va formando una doppia identità, di etnologo e cineasta, sulla struttura ancora esistente dell’ingegnere, funzionario pubblico della Repubblica francese, un curioso e complesso doppio vincolo tra due appartenenze. E un doppio regime di leggibilità per i suoi film, come per Au pays de mages noirs, rimontaggio del suo primo documentario etnografico, gonfiato in 35mm, in sala già dal 1949 come complemento di programma di Stromboli terra di Dio di Rossellini, a provocare un vertiginoso crash di immagini e immaginari, tra pescatori di ippopotami songhay e mattanze di tonni siciliani. Le trame si vanno formando e alcune sono già intensamente intrecciate. Intanto il surrealismo etnografico sembra ancora esser ben vivo a Parigi, nei primi anni cinquanta, nell’attesa dell’esistenzialismo. Ma nel 1954 il piccolo racconto fotografico editato da Nathan Le Niger en pirogue, ci racconta di un viaggio quasi idillico, di splendide fotografie di pae​saggio, di intense inquadrature di donne e uomini sul fiume, etnie, forme del quotidiano nel segno di attrezzi e oggetti, ci racconta46 di cerimonie, cacce fluviali con gli arpioni. Tra le foto ritroviamo anche le foto di Wanzerbè, e soprattutto due foto di una danza di Hauka, quella in cui, come la didascalia avverte, le possessioni assumono forme spesso brutali provocando trance violente. Nel 1954, nella sala delle proiezioni del Musée de l’homme, un pubblico di intellettuali africani ed europei assiste ad una proiezione ad inviti. Tra di essi troviamo Marcel Griaule, Germaine Dieterlen, Paulin Vieyra, Luc de Heusch. Nella cabina di proiezione, Jean Rouch inizia a proiettare e

commentare le immagini di un suo nuovo film, immagini ancora mute, in attesa di una colonna sonora, in attesa anche, come è nelle intenzioni di Rouch, di essere presentate agli attori del film stesso, prima del completamento. In pochi minuti la tensione va montando in sala, e via via che le immagini impudiche e dirette di Rouch si formano sullo schermo, il pubblico ha moti sempre più evidenti di reazione. Le posture mutano, il brusio si rende avvertibile. Rouch chiede a questo punto alla sala di esprimersi. Marcel Griaule è il più duro e netto nel prendere posizione: il film è per lui un’offesa della verità, un travestimento della stessa, va distrutto. Altri si accodano alla posizione del grande etnologo francese. Luc de Heusch difende il film. Questa storia è raccontata da Rouch in un’intervista radiofonica del 1988, sceneggiata ulteriormente da Paul Stoller, nel suo saggio Artaud Rouch et le cinéma de la cruauté del 1985,47 qui semplicemente collazionata e riassunta. Ma che cosa vedevano gli spettatori di quella curiosa e strana giornata al Musée de l’Homme? Quali immagini suscitavano scandalo e disturbo? I membri del culto Hauka, in genere lavoratori immigrati ad Accra, provenienti dalle regioni interne del Niger, si riuniscono per la loro grande cerimonia annuale. Nello spazio cerimoniale, il compound del grande sacerdote Moumtbyeba, dopo una pubblica confessione, ha inizio il rito di possessione. Bava, tremito delle mani e del corpo, respirazione affannosa, questi sono i segni salienti dell’arrivo della forza, nella personificazione di figure emblematiche del dominio coloniale: il caporale di guardia, il dottore, la moglie del capitano, il generale, il conduttore di locomotive. Il rito diventa via via più intenso per la violenza della possessione, la brutalità espressiva dei gesti e dei movimenti mostra ormai la presenza del genio Hauka. Culmine del sacrificio è l’uccisione di un animale, un cane, che viene mangiato dai posseduti. Questo è, sommariamante, quanto videro nel 1954 gli invitati alla proiezione di un film poi intitolato Les maîtres fous.

6.3.2. L’immagine possessiva Les maîtres fous nasce in Rouch, esito originale ma proprio, dal lungo e appassionante studio etnografico dei rituali di possessione dei Songhay, di cui il rituale è, nel film, una variante violenta e complessa. Qui gli stessi protagonisti del rituale si autoappellano come folli – Hauka – e sono oggetto di critica da parte degli osservanti dei culti del Dongo. Questo mito, e il rito che riporta in vita annualmente le sue figure cardini, nominate brevemente nella sinossi, è un mito di nuova fondazione, evidentemente debitore a un immaginario ibridato e moderno. Presso i Songhay, la definizione dei folli posseduti in questo tipo di cerimonie è quella di zondom, ovvero di folli cattivi. Nella cornice di questa variante ibridata dei riti di possessione, storicamente condizionata dalla presenza coloniale, Rouch filma appunto il rituale nel suo compiersi e monta, insieme al rito, una parata militare inglese, producendo una grammatica di riprese significativamente diverse. Troviamo così totali e campi lunghi e lunghissimi, per la parata a cavallo, la messa in forma del codice convenzionale, qui parodizzato, dell’ufficialità militare e civile, come presentazione dello spazio occidentale in quanto geometria delle forze in campo, ragione e forma storica del castrum romano; a contrasto vediamo primi piani e cambi di fuoco rapidi o addirittura violenti, nella restituzione filmata delle scene di trance, della violenza flagrante del rituale, che Rouch interpreta come una sorta di resistenza simbolica allo stato coloniale.48 Una resistenza che genera la nascita di un diverso mondo mitico, di un diverso sistema di

rappresentazioni. Il film non viene realizzato secondo i criteri consueti del cinema etnografico del periodo: film pensati come restituzione etnografica o salvage di soggetti resi oggetti nella memoria filmica. Al contrario, il film è realizzato su richiesta degli Hauka che partecipano al rituale e nel quale essi stessi sono coinvolti durante le riprese. Una volta ultimato, inoltre, Rouch non ritiene opportuno, a fronte anche della prima reazione del pubblico del Musée de l’homme, di metterlo in circolazione, ma lo presenta in varie occasioni in Francia, per raccogliere le impressioni di pubblici diversi. Da questo parterre di reazioni, Rouch nota che il film necessita di una più ampia contestualizzazione perché sia comprensibile il comportamento filmato degli Hauka, altrimenti oggetto di una reazione puramente spettacolare all’insegna e nella cifra dell’esotico o del ripugnante. Di conseguenza, Rouch aggiunge un’introduzione, prima di editarlo in forma definitiva. Questo genere di feedback diventa una prassi che si consolida nel suo cinema etnografico, e che lo rende sostanzialmente unico, una pratica di approssimazioni successive come forma di interrogazione ex post del girato, e come verifica del montaggio in quanto esito partecipato tra filmati e filmmaker. La scena dell’uccisione del cane, successivo cibo per i partecipanti al rito, così come la scena tutta della possessione, tracciavano un limite del visibile: Rouch filmava l’impensabile, filmava l’interdetto su richiesta della comunità stessa dei migranti di Accra; essi erano in scena, ma la scena crudele e insopportabile diventava visibile, per la prima volta, anche ai posseduti. La possessione come segreto di una cultura, come conoscenza segreta di un’etnia, segnavano una soglia diversa della rappresentazione, una liminalità congiuntiva da inventare in nome dell’altro e della sua dignità in quanto essere. Filmabile appunto perché tale. Liminalità che suggeriva la necessità di uno sguardo intensamente emico perché etico: passione verso il reale e riconoscimento della sua dimensione comunque irrelata e irriducibile a immagine analizzabile, apertura verso uno stato possibile di immagine condivisibile49. Passaggio necessario di una pratica inclusiva. Anni dopo, sempre sul tema della possessione e della trance, partecipando ai lavori del Colloque international su la notion de personne en Afrique noire, organizzato a Parigi dal CNRS nell’ottobre del 1971, Rouch si avviava a concludere il suo intervento rimettendo al centro la questione della pratica filmica. In questo intervento Rouch sottolineava la natura della posizione del filmmaker, la centralità dello stato stesso dell’esperienza di chi filma (perché ammesso) un rituale di possessione, perché è in conseguenza di ciò che viene a determinarsi la natura dell’incontro visivo con gli stati delle trance altrui come stati alterati della persona. Lì, nel terreno, emerge allora la valutazione della propria personale condizione, nella traccia di quella relazione inapparente – tra il filmmaker e il posseduto – il cui esito si fa comunque visibile nel film, altro stato della materia e della memoria, impressione chimica di impressioni ed espressioni, di una dinamica per certi versi incontrollabile:

Tutti coloro che oggi filmo conoscono la macchina da presa, e sanno bene cosa è capace di vedere e ascoltare… hanno assistito a diverse proie​zioni dei loro film durante il montaggio; durante il tournage essi sono dei cinevisti allorché io li cineguardo. In effetti essi reagiscono dinanzi a quest’arte del riflesso visivo così come dinanzi all’arte pubblica della possessione o all’arte privata della magia e della stregoneria. Frazer ne Il ramo d’oro segnalava la reazione di spavento dei primitivi allorquando li si fotografava, perché questo riflesso della loro anima sarebbe andato incontro ai più grandi pericoli […] Credo che oggi, per coloro che sono filmati, la persona del cineasta si metamorfizza sotto i loro occhi nel corso delle riprese: il regista non parla più se non per urlare ordini incomprensibili: motore! tagliate! Il cineasta non guarda più se non attraverso un’appendice estranea, non ascolta più se non attraverso un microfono e una cuffia. Ma paradossalmente è grazie a questo armamentario, a questo nuovo comportamento – che nulla ha in comune con la stessa persona quando non filma – che il cineasta può aderire a un rituale, integrarsi, seguirlo passo dopo passo: strana coreografia che, se ben ispirata, rende il cineasta e il suo aiutante non invisibili ma partecipanti alla cerimonia in corso. Così per i SonghayZarma, assai abituati al cinema, la mia persona si altera ai loro occhi come la persona dei danzatori della possessione sino a che la cine-transe dell’uno filma la transe reale dell’altro. Questo per me è così vero, che ne ho coscienza, e attraverso il controllo del mirino e dalle reazioni degli spettatori, so se la sequenza è riuscita o è perduta, se ho potuto sbarazzarmi delle teorie cinematografiche ed etnologiche, per ritrovare la barbarie dell’invenzione.50 Ma Les maîtres fous, nel raccontare la possessione ad Accra, esercitava l’attenzione verso la dimensione urbana, verso la città, produceva uno scarto di localizzazione nella tradizione del documentario etnografico, segnava la restituzione di questa novità, ma soprattutto l’idea

stessa di indagine e di terreno. Come nel lavoro etnografico di Balandier su Brazzaville, iniziato sul finire degli anni quaranta, e pubblicato nel 1955, la città imponeva una nuova frizione di modernità, nel contesto delle politiche di decolonizzazione, esigeva forme nuove di indagine antropologica e sociologica, restituiva una originale e complessa diversità africana. Un’antropologia visiva dello spazio urbano e nello spazio urbano si delineava qui per la prima volta. Come Lévi-Strauss, nelle sue allora inedite fotografie urbane di São Paulo nel Brasile degli anni trenta, così Rouch indagava fotograficamente, nella sua ricerca sulle migrazioni, le forme di meticciato culturale, le trasformazioni dell’immaginario, la città come vettore di cambiamento, lo spazio simbolico come luogo di alienazione o di reinvenzione di senso, il progetto di migrazione come verità moderna del rito di passaggio nelle aree della Gold Coast. La dimensione del villaggio, lo spazio olistico della ricerca e della sua rappresentazione, erano già stati sfidati dalla pratica di una ricerca multisituata: alla ricerca di riti di possessione, Rouch incrociava tradizioni localizzate e pratiche dislocate di queste, migrazioni tradizionali e pratiche moderne delle stesse. Per restituirle attraverso film e testi. Ma l’emergenza visiva che si andava formando in quegli anni nell’Africa della West Coast riguardava ormai lo spazio urbano, l’urbanizzazione crescente e la trasformazione delle città. Ciò comportava la necessità di definire uno spettro del visibile dove ripensare la formazione visiva dell’altro, delle culture altre: in questo frame la dimensione dell’esotico e del pittoresco potevano certo emergere nel picaresco – traccia presente nel cinema urbano africano di Rouch – ma la pienezza estetica e lontana dell’Africa letteraria ed esotica svaniva nei quartieri di periferia. Sulla regalità dei gesti magici e antichi dei geomanti di Wanzerbé si proiettava la scena urbana della grandezza e delle miserie della banlieu africana. Neorealismi africani. Un nuovo equatore nelle immagini.

6.3.3. Nel tempo di dieci anni: storia di Jaguar Il lavoro di terreno, nella forma dell’etnografia tradizionale, o nella modalità dell’etnografia visiva, è un lavoro nello spazio, e nei luoghi, ma spesso si manifesta come lavoro sul tempo: il tempo del contatto prolungato – la presenza in situ – il tempo dell’altro come forma storica e differente di presente, il tempo di religioni, riti, cosmologie. Il tempo infine come causa o spiegazione di eventi, tra fisica e metafisica native. Lavorare sul tempo implica il lavoro sulla realtà delle ricostruzioni individuali e di gruppi, come sulle finzioni necessarie e condivise delle forme di vita, sul sistema delle proprie finzioni, la cui urgenza si fa viva nell’atto di pensare filmando, nella forma del documento narrativo: L’alternativa reale-fittizio è così completamente superata in quanto la cinepresa, invece di ritagliare un presente, fittizio o reale, collega costantemente il personaggio al prima e al dopo che formano un’immagine-tempo diretta. È necessario che il personaggio sia prima reale perché affermi la finzione come potenza e non come modello, è necessario che si metta ad affabulare per affermarsi ancor più come reale e non come fittizio. Il personaggio continua a diventare un altro e non è più superabile da questo divenire che si confonde con un popolo.51

Nel 1956 Rouch pubblica un importante volume di ricerche sui modelli di migrazione in Ghana frutto di un’inchiesta sul terreno di due anni di durata, dal 1953 al 1955.52 L’interesse verso le migrazioni attraversa in forme molteplici i percorsi intellettuali di Rouch come appare in diversi materiali filmati, segna il suo esordio nella ricerca etnografica, caratterizzandola nel segno della novità. Studiare gli spostamenti, le ibridazioni, le zone di contatto, la migrazione verso le aree urbane è un’esperienza che l’antropologia affronterà molti anni dopo. Rouch, del resto, già nel lavoro di dottorato, occupandosi della religione dei Songhay, situa i suoi studi in diversi luoghi e villaggi, ricerca le varianti geografiche e urbane degli stessi, produce una ricerca di area la cui vastità è ancora sorprendente. La seconda delle sue ricerche di maggior rilievo ha come oggetto lo studio dei modelli di migrazione in Ghana, dove molti giovani, decisi e affascinati dall’idea del viaggio, lasciano le comunità isolate nella savana del nord di cui sono originari, per dirigersi verso sud, verso il mare, stabilendosi per un certo tempo nelle città più grandi per approdare a una nuova vita. In una seconda fase, gli emigranti fanno quindi ritorno al villaggio nativo con nuove idee, entusiasmo e moderni oggetti di consumo, per trascorrervi, alcune volte, il resto della vita. Il viaggio è così un rito di passaggio, che quindi offre non solo l’avventura o i mezzi necessari per la dote, ma anche un nuovo status sociale. Quest’oggetto di studio, la cui modernità è ancora sorprendente, segno di una geniale preveggenza di Rouch sui modelli culturali ibridati, sulle strategie di trasformazione individuale e collettiva dei comportamenti tradizionali – la forma del rito di passaggio come esperienza urbana – trova una sua ripresa e riscrittura, in forma metanarrativa, in Jaguar. Come già in Les maîtres fous qui si rivela, a ben vedere, appunto uno stato diverso di una stagione di ricerche sul campo sul tema della possessione: Jaguar è così la

deriva narrativa controllata di un’inchiesta socio antropologica, o un’antropologia del viaggio e dello spostamento. Dal punto di vista di Rouch, emerge qui, per la prima volta, il disagio sintattico e grammaticale della precedente idea di cinema etnografico: l’urgenza della finzione come strategia di verità, come esperienza di improvvisazione situata con i suoi attori non attori, produce subito la necessità di un metodo nuovo ed esplicitato. Ancora una volta, Rouch sviluppa in questo caso una metodologia estremamente significativa: usa come attori i giovani informatori della sua prima ricerca. E, mentre essi si spostano dall’isola a nord, verso la costa popolata da culture in transizione, attraverso la loro narrazione spontanea – che gli attori registrarono in seguito mentre si vedevano sullo schermo – noi apprendiamo le loro reazioni all’esperienza di queste nuove culture. Reazione differita e operazione complessa di cinema della memoria; per una serie di vicissitudini e di occorrenze diverse nella vita degli attori, il film è sonorizzato a distanza di anni, risultando di fatto un esperimento di ricostruzione differita di identità, di transazioni tra immagine, immaginario, memoria personale e collettiva, improvvisazione orale sul tema visibile di una tranche di vita situata ma inventata.53 I tre informatori diventano essi stessi, nel corso di dieci anni e del tempo, dei cinematic griot, per riprendere l’espressione di Stoller, attori delle proprie vite realmente immaginate. Le loro imprese, durante il viaggio con Rouch, formano così un testo denso e complesso. Jaguar, con i suoi diversi “livelli”, smentisce definitivamente la presunzione che un film etnografico possa, o debba, essere la rappresentazione diretta, senza mediazioni, di un’altra cultura. La “differenza” sta proprio nella riflessività, cioè in una forma di partecipazione per cui il cineasta e i soggetti etnografici partecipano nel produrre una rappresentazione dialogica di se stessi e per se stessi. Cinema di traduzione, trait d’union, ma cinema di condivisione. In Jaguar vediamo e viviamo la storia di tre vite: Lam il pastore, Illo il pescatore, e Damouré, il pubblico scrivano, decidono di cercare fortuna e per questo di trasferirsi ad Accra. Durante una danza di possessione, Damouré chiede ai geni di proteggere il loro cammino. Comincia così il viaggio dei tre. Viaggio picaresco, viaggio di conoscenza e di esperienza, di bildung, che avviene nel segno delle indicazioni dei geni. Così, superata clandestinamente la frontiera, i tre si dividono, in ossequio alle istruzioni ricevute. Damouré, intanto, già fotografo e assistente di Rouch, diviene qui attore: primo scarto, primo detour, deviazione secca dalle trame consuete del cinema etnografico, dalla relazione tra filmati e filmaker. Ritornando al film, i destini sembrano formarsi. Illo diventa pescatore tra gli Ewé, Lam mercante di profumi, Damouré, giunto ad Accra, inizia una vita di successo, da vero self made man, scalando le tappe dell’ascesa sociale, da manovale a imprenditore. In questo percorso la vita urbana intorno a lui modifica le sue forme: si spettacolarizza. Corse di cavalli, danze di strada, riti degli Hauka, elezioni politiche, tramano il set-vita. La società dello spettacolo africana entra in scena: mercati, insegne, réclame. Il nascente flâneur africano fa esperienza del mercato e delle merci; la soggettiva di Rouch, tattile e seduttiva, offre allo sguardo occidentale un mondo di segni e cose, di desideri e di bisogni. La citta di Damouré, filmata camera a mano, con l’uso esclusivo di luci naturali, è la città montata dall’occhio che monta, come avrebbe scritto e detto Pasolini, di lì a pochi anni, la città fatta immagine. Rouch segue il suo personaggio, fa shadowing della sua vita inventata ma vera, come dichiara in off esplicitamente all’inizio del film, invita l’occhio, attraverso una panoramica iniziale della città offrendogli l’esperienza dello spazio, della totalità di un assiografia rassicurante, nella visione dall’alto. Questo è soltanto l’arrivo in città. Da lì in avanti, la scena delle vie, filmate sempre

ad altezza di uomo, si fa brulicante di viste e di situazioni, l’immagine si fa semplicemente il progetto di una randonnée. La storia di vita dei tre soggetti, storia dell’esperienza, trova poi il suo ulteriore e paradossale frame nella voce off dei tre che commentano e presentano ai nostri occhi ciò che intanto vediamo; questo spaesamento, questa pratica documentaria della finzione, introduce, di fatto, la forma di un’antropologia riflessiva: l’etnofiction come strategia delle storie di vita, come trama acuta della pratica di ogni intervista, in cui un soggetto tra urto della domanda e strategia di esibizione, produce la finzione condivisa del vero, la verità di una terapia pubblica dell’esposizione. Accra non è Shangri-la: l’occhio-sguardo di Rouch e dei suoi informatori, da lui riuniti in città nel negozio di Damouré, nel frattempo diventato imprenditore di se stesso e di successo, segna i percorsi delle differenze e delle contraddizioni della condizione urbana del terzo mondo. Lo sguardo morale di Rouch legge processi e oggetti, soggetti e materia, le cose e il lavoro: l’antropologia delle relazioni tra uomini e donne e mondo. La camera a mano consente la presa di contatto ravvicinata, la ricerca leggera e sincera dello sguardo in macchina come prima restituzione della presenza. Lo sguardo in macchina cessa qui di essere il certificato di presenza del filmmaker, l’attestato di partecipazione, diventando la risposta semplice e sollecitata alla perturbazione della macchina da presa embodied nel cineasta, la messa in atto etica di una compresenza riconosciuta come costituzione materiale di una possibile condivisione, come spesso accadrà nella pratica documentaria a venire di Marker. In Jaguar, l’etnofiction entra sulla scena moderna del cinema moderno: il neorealismo africano di Rouch si alimenta del neorealismo italiano, disegnandosi come eredità del segno rosselliniano e del progetto di un cinema del pedinamento di Cesare Zavattini, come una radicale reinvenzione a 16mm di Umberto D di Vittorio De Sica del 1948, del suo progetto mancato. Nel film di Rouch, i tre protagonisti, dopo una notte brava da futuri vitelloni felliniani nei locali notturni di Accra,54 fanno ritorno al villaggio, avendo bruciato, in poche ore, i guadagni di molti mesi. Il ciclo del rito di passaggio prevede comunque la figura del ritorno. La piccola odissea rituale si chiude così, nella rimessa in gioco di ciascuno nella comunità, nella narrazione e nel racconto dell’esperienza del viaggio, nel riassunto di questa nel ritorno alle attività abbandonate: il giro lungo di Rouch riassume, nel suo agire, l’idea stessa di un’antropologia come peripezia alla ricerca dell’altro e di se stessi.

6.3.4. Io – Rimbaud, l’africano Per Deleuze il cinema di Rouch è un cinema dell’indiretto libero, un cinema che sovverte la tradizione del discorso, la muta e la moltiplica, nelle forme della soggettività d’autore ed etnologo, nelle forme dei soggetti personaggi del discorso che si fa racconto, etnografia, testo: Ma quanto diciamo del personaggio vale in secondo luogo, e principalmente, per lo stesso regista. Anch’egli diventa un altro, per quanto prenda come intercessori dei personaggi reali e sostituisca le proprie finzioni con le loro affabulazioni, ma dia, inversamente, a queste affabulazioni la figura di leggende, ne operi la “messa in leggenda”. Rouch fa il suo discorso libero indiretto mentre i suoi personaggi fanno quello dell’Africa.55 Nel 1959, mentre Jaguar è ancora oggetto di culto e di proiezioni private, vede la luce Moi, un noir, film che avrà una regolare distribuzione nelle sale francesi, film che si fa quindi, materialmente, cinema, offrendosi al pubblico nelle forme convenzionali della visione a pagamento in sala. Alla sua uscita Godard saluta il film con ben due interventi, tracciando una lettura di istanza rosselliniana: André Bazin diceva che il più bel film del mondo era la spedizione del Kon Tki, ma che questo film non esisteva, e che non sarabbe mai esistito, perché semplicemente non vi è mai stata. Nell’attesa di India 58 di Roberto Rossellini che ci mostra come e perché un tale film è possibile ecco Moi, un noir. […] Si intuisce oggi che il reportage evoca la sua nobile ragion d’essere, come una sorta di ricerca di un santo graal che si chiama mise en scène devine. Vi è in Moi, un noir qualche movimento di gru che non dispiacerebbe ad Anthony Mann. Ma il bello è che sono fatti a mano. Riassumendo: nell’intitolare il suo film Moi, un noir,

Jean Rouch, che è bianco come Rimbaud, dichiara, anche lui, che “Je est un autre”, che io è un altro.56 In Moi, un noir Rouch racconta la vita di un gruppo di giovani nigerini che, lasciate le terre dell’interno, cercano lavoro in Costa d’Avorio. Ad Abidjan il gruppetto prende a vivere a Treichville, un quartiere popolare, dove l’esperienza di vita urbana trasforma e ferisce le aspettative di tutti. Nei nuovi nomi che assumono, la memoria del cinema si fa evidente. Così Edward G. Robinson, Dorothy Lamarr, Eddie Constantine rintracciano le loro vite attraverso dei nomi schermo. Tipi ideali, tipi da cinema, cercano felicità e ricchezza, cercano una forma di vita nel disagio e nello sradicamento del cambiamento. Moi, un noir è un film ancora oggi straordinario e sorprendente. La luce di Abidjan sembra regalare davvero, come la luce indiana di India Matri bhumi, lo splendore del vero. Rouch è sulla strada del cinema, della pratica visiva di un‘antropologia di relazioni nella forma della finzione condivisa, esplicitata. La narrazione di storie di vita inventate da e con i propri personaggi, orizzonta e produce le condizioni di senso di uno sguardo sull’altro. L’intuizione della dimensione originale dello spazio urbano, intuizione che spingerà Rouch con Morin, due anni dopo, all’impresa di Chronique d’une été, genera uno scarto dell’esperienza conoscitiva sul piano visivo, produce di fatto soggetti ibridati: il mondo regale del gesto primitivo e acronico si sfalda nella congerie dei segni e dei gesti meticci. Così come accade nelle inquadrature ripetute della toponomastica francese, le insegne, le réclame di bar e di locali, mimesi del paese coloniale, dei nomi dei locali e dei quartieri parigini. Rouch filma davvero l’esotico come prodotto della frizione e della contaminazione delle culture. Filma l’esotico, ma non filma esoticamente. Questioni di grammatica innanzitutto, di cadrage, di restituzione. Camera a mano nella luce naturale, nella fioca luce di locali nella notte, la camera di Rouch informa lo spazio della sua presenza; Rouch è nello spazio e da lì lo genera, per così dire. Abbandonata la visione formalizzata dello spazio, l’inquadratura che smalta e forma l’immagine spaziosa e spaziale, Rouch inventa la scena dei suoi personaggi nella forma dell’improvvisazione situata, nella deriva controllata della finzione senza script, della trattativa dialogica, della storia negoziata di una relazione tra la camera e i personaggi, veri e propri informatori sul campo nella forma di un acting mimetico. Mimesi di vita come storia di vita. Il reale come oggetto etnologico, come progetto dialogico nella forma della camera partecipante, della semplice traiettoria di un punto di vista che genera un punto di vita, nell’incontro tra l’obiettivo e la situazione, all’interno di una diversa visione grammaticale e sintattica del mondo, nei modi del film, ovviamente. Rouch eredita Rossellini, e reinventa, dal neorealismo, una pratica semplice perché radicale di messa in scena, di azione nel vero. La sfida cinematografica è evidente. La sfida antropologica, altrettanto. Come abbiamo già visto nell’intervista concessa ai Cahiers di Claude Lévi-Strauss, sono in gioco l’idea stessa di verità, di set, di field, di metodo, di rappresentazione obiettiva, di restituzione dell’esperienza di conoscenza, di trasmissione di questa. La sfida di Rouch mette in gioco lo statuto della conoscenza antropologica, e la sfida è portata da un etnologo eterodosso, allievo tuttavia di Marcel Griaule, contro il cui agire si scaglia intellettualmente un etnologo peculiare e geniale come Lévi-Strauss, autore di una monumentale etnologia quasi senza etnografia. Due autori eccezionali e diversi, due autori delle proprie vite intellettuali, assolutamente antinomici e divergenti nelle forme delle proprie vite. Rouch è oltre la scena dello spettacolo, ma è sempre sulla scena del field: questo,

ovviamente, produce la sua originalità, questo rende difficile la negazione radicale della sua presenza. Moi, un noir, sotto le sue apparenze documentaristiche, si muoveva e si formava a partire da procedimenti di finzione: personaggi, sequenze oniriche, inquadrature in soggettiva. Muoveva, soprattutto, da un’ambiguità di fondo: l’essere un film di “cinema diretto”, ma postsincronizzato (come Fino all’ultimo respiro e molti dei primi film della nouvelle vague). E tuttavia non dissimulava la postsincronizzazione, ma al contrario la cifrava paradossalmente nel film, nelle riprese stesse, esibendo la materialità aleatoria della ripresa e sottolineando ancora di più l’attimo col designarne la distanza per mezzo della voce off e del commento. Lo sfasamento tra immagine e suono, tra il momento delle riprese e quello della parola, è proprio ciò che esibisce la realtà delle riprese e della fabbricazione del film. Nulla appare più lontano adesso dell’idea ingenua e potente di registrazione, nulla appariva più lontano della ragione mimetica come fondamento del film in etnografia. L’off del commento di Rouch, la sua voce, si presentano ormai come segno di un’istanza di enunciazione, di uno sguardo, di una messa in scena, di quel prisma attraverso il quale ci perviene il dato delle riprese, “messo in forma” dalla parola: messa in scena degli attrezzi, dei tempi, dei tempi degli altri. Nelle inquadrature e nelle convenzioni esplicite del cinema la cassetta degli attrezzi del linguaggio di Wittgenstein si mostrava agli occhi degli spettatori. Congedo dalla finestra sul cortile della visione dell’alterità. Venticinque anni dopo Gilles Deleuze dedica due splendide pagine in Image Temps al cinema di Rouch: sono due pagine essenziali alla lettura di Moi, un noir, due pagine che unite a quelle splendidamente ossimoriche scritte da Godard alla fine degli anni cinquanta, suggeriscono un’ipotesi di lettura che indaga fortemente le ragioni di essere del cinema stesso di Rouch, del suo détour narrativo e dei suoi détour tra etnologia e cinema partecipato; una pratica dove il cinéma direct viene semplicemente doppiato, dove film come Jaguar vengono ripresi e reinventati nel doppiaggio a distanza di anni, a dimostrazione di una moralità della rappresentazione assolutamente non ortodossa e intensamente rosselliniana. Certo, è forse vero che nessuno ha mai fatto tanto, come Rouch, per mettere in fuga l’Occidente da se stesso, e per fuggire egli stesso la forma etnocentrica e bianca della narrazione, ma la questione giocata da Rouch, e analizzata da Deleuze, tocca il cuore del nostro sistema di rappresentazione, la nostra pratica di immaginare col cinema: Per Rouch si tratta di abbandonare la propria civiltà dominante e giungere alle premesse di un’altra identità. Ne deriva la possibilità di malintesi fra i due autori; eppure come registi partono entrambi con lo stesso materiale leggero, cinepresa in spalla e magnetofono sincrono; devono diventare altri, assieme ai propri personaggi, e a un tempo i loro personaggi devono diventare essi stessi altri. La famosa formula: “quel che è comodo col documentario è che si sa chi si è e chi si filma” non è più valida. La forma di identità io = io (o la sua forma degenerata, essi = essi) non ha più valore per i personaggi e per il regista, tanto nel reale quanto nella finzione. A livelli più profondi si può indovinare piuttosto l’“io è un altro” di Rimbaud. Godard lo diceva a proposito di Rouch, non soltanto per i personaggi, ma per il regista che “bianco proprio come Rimbaud, dichiara anch’egli che ‘io è un altro’”, cioè io un negro.57 L’intuizione Rimbaud era già un’intuizione di Godard, dettata dall’evidenza del titolo,

dall’economia in attesa di interpretazione che ogni titolo provoca o esibisce. Intuizione che Deleuze, peraltro, riconosce, esplicitandola in un altro passo del testo. Nei due interventi di Godard dedicati a Rouch si tracciano le questioni essenziali della sua presenza e della sua posizione tra cinema e antropologia. Jean-Luc Godard, spartiacque del moderno, presenza che impone alle storie del cinema una cronologia a partire dal suo cinema, così come accade con Rossellini del resto, intuisce la natura originale del pensiero visivo, del pensiero cinema di Rouch, e lo inscrive nel segno del cinema, intravedendone grandezza e limiti, producendo, a partire da Moi, un noir, una riflessione epifanica, fibrillante di intermittenze del cuore e dell’intelligenza, sullo statuto dell’immagine, sulla sua interpretazione. Godard offre e propone un esercizio dello sguardo a partire dalle forme storiche degli sguardi che hanno assunto l’idea e la forma cinema. Questa lezione di interpretazione, questa morfologia storica delle immagini in movimento, che muove appunto da Moi, un noir, ha uno splendido titolo che riportiamo, e merita e necessita di essere ampiamente citata: L’originalità di Rouch è di aver fatto dei suoi attori dei personaggi. Attori nel senso più semplice del termine, del resto, per il solo fatto che sono filmati in azione, e che Rouch si limita a filmare l’azione dopo averla, come Rossellini, organizzata logicamente, nella misura del possibile. E tuttavia, diranno i seccatori, è possibile questo possibile? Lo vediamo subito. […] Mi spiego. Si fa o Alexander Nevskij o India. Si ha il dovere estetico di girare l’uno o quello morale di girare l’altro. Non si ha il diritto di girare, ad esempio, Nanook come fosse Sunrise. Tutti i grandi film di finzione tendono al documentario, così come tutti i grandi documentari tendono alla finzione. Ivan il terribile tende a Qué viva México e viceversa, Rapporto confidenziale a It’s all true e reciprocamente. Bisogna scegliere tra l’etica e l’estetica, beninteso. Tuttavia è chiaro ciascun termine comporta una parte dell’altro. E chi opta con decisione per l’una trova, alla fine, necessariamente l’altra.58 Lettura estrema e curiosa dove due film incompiuti come Qué viva México e Its’s all true diventano documentari, o almeno così vengono assunti nella diade verità/finzione verso il cui superamento muove teoricamente Godard. Verità/finzione: una diade che, segnata ormai dal cinema, rigioca nel linguaggio dell’esperienza e del consumo di immagini il suo statuto, l’ordine stesso dei mondi in cui viviamo, il corpo reale dello spettatore che si fa cinefilo, attore occasionale, interprete di desideri che il cinema suggerisce e fa vita, in concorso con la vita stessa: Esempio: Edward, diventato Edgar G. Robinson, si allena in sogno per il campionato del mondo di boxe. La palestra è nera come un tunnel. Rouch gira la scena senza illuminazione, senza neppure una flood. Poco male se non si vede nulla, tanto più che è a colori. Effettivamente, per qualche minuto non si vede nulla. Poi il miracolo: un volto nero si stacca a poco a poco, è qui il miracolo, dallo sfondo nero. Si rivela, dovrei dire, perché questa inquadratura è misteriosa e bella come la stampa delle fotografie di Audrey Hepburn in Funny Face. Jean

Rouch l’etnologo raggiunge qui Richard Avedon, il più esteta fotografo di moda. Arte o caso? Comunque ecco la prova che tutte le strade portano a Roma città aperta. Le vie dell’arte sono imprevedibili, proprio perché quelle del caso non lo sono. Forse “perché tutto è dio”, ci dice l’ultima immagine di questo film straordinario. […] Certo, Moi, un noir, è ancora lontano dal valere India. C’è in Jean Rouch un tono scherzoso che nuoce un po’ alle sue intenzioni. Non che gli abitanti di Treichville non abbiano il diritto di infischiarsene di tutti; solo che c’è una certa facilità da parte di Rouch nell’adattarsi a questa situazione. Un burlone può andare in fondo alle cose tanto quanto un altro, ma questo non gli impedisce di essere severo con se stesso. Sono rimproveri del genere che bisogna fare a Jean Rouch, e non altri. Del resto egli lo sa. Sa che i suoi lungometraggi cominciano a non aver più nulla in comune con i piccoli reportages puramente etnologici. Sa che uscendo dalla sua crisalide di artigiano è diventato un artista.59 Fuori dallo spettacolo, ma nel mondo delle immagini in movimento, nella storia novecentesca del vedere attraverso la forma cinema, Godard traghetta Rouch verso l’apertura e l’arrischiamento, verso quel dove in cui già si trova. Verso cui Godard è in viaggio, negli stessi giorni, i giorni del montaggio di Fino all’ultimo respiro. Tra Rossellini e il mondo, tra il montaggio come mondo in Welles e Ejzenštein, e il mondo come epifania di uomini probabilmente essenziali in spazi effettivamente essenziali di Flaherty, l’etnologia, scienza del concreto, delle relazioni, dei comportamenti minuti e semplici, dei gesti che parlano e raccontano, sembra trovare in Rouch nuova visibilità. Godard lo afferma e lo scrive. O piuttosto è il cinema che traccia, tra Parigi e l’Africa urbana di Rouch, nuove conduzioni di produzione di senso, traiettorie di linguaggio e di restituzione di luoghi e segni, di cui il cineasta etnologo si fa il soggetto incubatore, il portatore sano di nuovi virus di immagini, o, semplicemente, il produttore di cartes postales dell’immaginario i cui indirizzi più prossimi sono i lungosenna della nouvelle vague.60 Epifania di un’altra trama.

6.4. Cuciture, scuciture, uomini drappeggiati, uomini cuciti: altri continenti della vista Ancora una volta un titolo, il titolo di un film, la sua economia, la sua suggestione, la nostra attesa di spettatori, le parole date dagli autori per spiegarne senso e fine, per tracciare la direzione dello sguardo. Che cosa ci dice, allora, Rossellini di India? Il vero titolo è India, matri bhumi, che vuol dire l’humus della terra. È forse il film più esemplare – non come film, come esempio – di tutto ciò che abbiamo visto nelle nostre interviste, di tutto ciò che ho spiegato nelle mie ambizioni sul cinema. È un film che ho fatto davvero sperimentalmente, potrei dire. Ho cercato di mettere su pellicola ciò che pensavo in maniera forse teorica. È un’inchiesta il più possibile approfondita, sia pure nei limiti di un film, su un paese, su un paese nuovo come l’India, che ha ritrovato la sua libertà, che è uscito dal colonialismo – allora erano appena dieci anni –, e sull’immenso sforzo che faceva per mettersi in marcia, per diventare un paese come gli altri. Com’è costruito il film? C’è una parte strettamente documentaria, ma ho comunque cercato di evitare di vedere tutto ciò che il turista vede di solito, i monumenti ecc. Il mio sguardo si è posato soprattutto sulle strade, sull’aspetto delle persone, sulla vita quotidiana più immediata. E poi ci sono anche delle piccole storie, un po’ romanzate se si vuole, ma comunque sono romanzate perché sono probabili, non escono dalla fantasia ma sono cose che ho sentito attorno a me, che mi hanno raccontato, più o meno, e ho costruito il film con questi elementi, con queste quattro brevi storie, che sono mescolate con il documentario. Non so cosa possiate pensare del film. È uscito solo in Italia, con non grande successo bisogna dire. È stato fatto con un coproduttore francese che non lo ha mai fatto uscire in Francia: ignoro il perché. È un film che amo molto perché, come ho detto, è qui che ho cercato di fare un tentativo di rinnovamento nel campo della conoscenza, dell’informazione: un’informazione che non sia strettamente scientifica o statistica ma che sia anche una certa documentazione dei sentimenti e del modo di comportarsi degli uomini. È anche, se si vuole, in un certo senso, un film etnologico. Ecco, è tutto ciò che ho da dire su questo film.61

Nell’eco di Godard, qui riproposto, il film diviene segnavia, marca un nuovo stato del cinema e un modello di immaginazione filmica del mondo. Fa di Rossellini, come Ermes, il dio dei tragitti, dio della comunicazione, e tuttavia anche di ladri, prostitute, vite vissute: India è un film di una logica assoluta, più socratico di Socrate. Ogni immagine è bella non perché bella in sé, come un’inquadratura di Qué viva México, ma piuttosto perché manifesta lo splendore del vero, e perché Rossellini muove dalla verità. Là dove altri non arriveranno se non tra venti anni, lui è già giunto. India ingloba il cinema mondiale come le teorie di Riemann e Planck la geometria e la fisica classica.62 Il 9 dicembre del 1956 Roberto Rossellini atterra nell’aeroporto di Bombay, oggi Mumbay. Non è il primo cineasta occidentale a sbarcare in quegli anni nel subcontinente indiano con il progetto di realizzare un film. Sei anni prima, infatti, Jean Renoir ha firmato in Bengala, The River, uno dei suoi film più affascinanti. L’India si presenta a Renoir come lo spazio di una possibilità nuova e diversa di far cinema. Deluso dall’esperienza americana, scelta come volontario esilio dall’industria cinematografica francese, Renoir intuisce, nelle culture altre e lontane, il luogo di un ripensamento dell’identità dell’Occidente. La sua non è, per questo, una fuga esotica da Hollywood e dal cinema francese del primo dopoguerra, né una sorta di flash forward esistenziale del viaggio in Oriente degli anni sessanta. È piuttosto, come racconterà molti anni dopo in un’intervista apparsa su Écran, un interrogarsi di tipo etico e intellettuale, nella forma propria del lavoro di un cineasta, sugli anni della nascita di una nazione e della proiezione mondiale della figura di Gandhi: La potenza distruttiva delle idee venute dall’India si produce, per milioni di occidentali, nella evidenza della vanità dell’azione. Per la mia generazione dio era l’azione. La forma popolare di quest’azione era il lavoro. La società moderna è

fondata sul lavoro. Bisogna muoversi, comprare, vendere, produrre. Presso gli adulti (occidentali) la meditazione è per lo più sconosciuta… Al contrario, dolcemente, a loro insaputa, la credenza indù nella vanità dello sforzo sommerge il mondo.63 Queste considerazioni, datate vent’anni dopo l’esperienza di The River, non differiscono molto da quelle espresse da Rossellini nelle interviste e nelle dichiarazioni pubbliche degli anni della sua esperienza indiana, e che trovano una restituzione diretta ed esplicita in uno dei due testi che accompagnano l’esito di questa, la serie documentaria J’ait fait un beau voyage, il cui titolo italiano è L’India vista da Rossellini, 1957, la serie documentaria autonoma e vero e proprio réperage, preparazione, contestualizzazione di India matri bhumi, editato nell’anno successivo: Ho una teoria: ci sono civiltà di uomini drappeggiati e civiltà di uomini cuciti. L’uomo drappeggiato è un uomo più morbido, flessibile, più gentile, più tenero in un certo senso. Molto più tollerante, cosa che è molto importante. I cuciti sono invece attivi, efficienti.64 Questa citazione di Rossellini è parte del commento della terza puntata della serie. Questo argomento ritorna più volte nelle interviste, come in scritti di occasione di Rossellini.65 Ma una sua restituzione, ampliata e circostanziata, va riportata: Nehru, come tutti gli indiani, è un “uomo drappeggiato”. Cerca di aprire il suo spirito a tutte le conoscenze e di ottenere una sintesi poetica del mondo. Noi europei siamo degli “uomini cuciti”, siamo diventati degli specialisti, eccelliamo in campo peculiare alla nostra attività ma siamo incapaci di capire quanto non fa parte della nostra specializzazione. Noi siamo prigionieri delle nostre abitudini: dico “noi”, ma io mi sforzo di diventare un “uomo drappeggiato”.66 Il progetto indiano di Rossellini è quindi chiaro ed esplicito: l’India è l’orizzonte di una possibilità di vita, di una civiltà e di una cultura da esplorare e soprattutto incontrare, alla ricerca di uno spazio per allentare le cuciture del mondo occidentale, per disegnare per immagini la scena di un mondo fatto immagine, ma la cui forma sia drappeggiata dai suoi abitanti piuttosto che vestita dallo spettacolo, cucita insieme dall’industria dell’immaginario. All’interno del progetto documentaristico, Rossellini immagina comunque un film di finzione, in senso assolutamente originale, un film che nella forma della narrazione, realizzi il senso di quella visibilità che si produce davanti ai suoi occhi di cineasta, un film che racconti l’India come paese di donne e uomini, di mutamenti e tradizioni, un paese la cui densità di esperienze e storie diventi, attraverso un viaggio per immagini, uno spazio altro dell’immaginario, il risultato di un incontro piuttosto che di un’appropriazione. Detto in altri termini, già nelle premesse di Rossellini, l’India si disegna quindi come un field, il campo di un’esperienza, che il film trasformerà di volta in volta in set, sia nella forma della serie televisiva che nel film pensato e immaginato per la destinazione cinematografica. India matri bhumi, così come il progetto della serie di documentari, nasce da una

disavventura produttiva iniziale dalle cui ceneri Rossellini riemerge grazie all’aiuto di Nehru cui si rivolge direttamente, sollecitando il suo interessamento al progetto di un racconto del cambiamento indiano. Grazie a questo aiuto Rossellini organizza una coproduzione tra il governo indiano dell’epoca, la televisione pubblica francese ORTF, la Radiotelevisione italiana. Siamo nel 1956. A capo del comitato che presiede all’organizzazione delle riprese e alle relazioni con le autorità locali troviamo la giovane Indira Gandhi. Rossellini lavorerà in India per oltre un anno. Lo script verrà preparato via via, com’è abitudine di Rossellini: il viaggio sarà réperage di luoghi e storie, di incontri e opportunità. Rossellini indaga l’India attraverso la sua piccola Super8, attraverso le foto di Aldo Tonti, che lo accompagna nel viaggio, attraverso la competenza linguistica e culturale di una donna, Sonali Das Gupta, che diventerà la sua terza moglie. Come un etnologo dilettante, come un dilettante etnologo di talento, Rossellini metterà spesso in atto delle strategie elusive nei confronti di autorità, traduttori, informatori: Visitavo dei villaggi con delle guide indiane e non arrivavo mai a stabilire un contatto umano con la gente. Un giorno sono andato in un villaggio da solo, con il mio collaboratore francese Jean Herman, e mi sono ritrovato circondato da tutti gli abitanti di quel luogo. Ci facevano delle domande. A un certo punto ho creduto di capire che volessero sapere il mio nome. Ho detto “Rossellini” suscitando il riso generale, perché in India i nomi femminili hanno la desinenza ini. Da lì comiciai a dire Roberto accentando la “o” finale. Poi mi chiesero da dove venivo. Allora dissi di essere italiano, che venivo dal Mediterraneo, dall’Europa ecc., e di colpo chiamarono un vecchio. Quest’uomo aveva gli occhi rossi e cominciò a dire delle cose facendo un certo sforzo. Mi insegnò che il sanscrito, in quanto lingua indoeuropea, era simile al latino e al greco. E così cominciò a dirmi che patri vuol dire padre, matri madre, che gamba è pedi, e in venti minuti mi aveva insegnato una quarantina di parole, e a gesti – da italiano conosco il latino e con i gesti so come esprimermi – eravamo riusciti a stabilire un modo di comunicare.67 In questo breve apologo, tratto ancora dalla terza puntata della serie, nella sua versione francese, Rossellini mostra semplicemente la sua strategia di accesso alle informazioni, la costruzione dialogica e relazionale del suo cinema, la pratica neorealista come estetica dell’oggetto, il film, come estetica e etica del set, dell’azione che precede e produce la ripresa, come continua e originale decisione di superamento e accorciamento di distanze tra cineasta e soggetto filmato, tra cineasta e l’immagine parziale del mondo, il frame che si forma nella flagranza del set. La scelta etica di Rossellini non si manifesta certo nella pratica della camera partecipata di Rouch – di cui criticherà anzi l’ipotesi di cinéma verité in quanto strategia di camouflage nella responsabilità di restituzione filmica del mondo – ma si pensa all’interno di un movimento dove la pratica dell’immagine nasce nella frizione e nella passione del reale, segno della realtà nella forma-film, memoria soggettivamente restituita, in un processo dove il linguaggio della rappresentazione e la tecnica della rappresentazione viaggiano insieme verso il vero, come pratica visibile del soggetto che filma (il movimento di macchina) e come pratica invisibile della struttura formale (il montaggio). Alla potenza del montaggio come tradizione e invenzione delle forme, Rossellini oppone la verità visibile del movimento della

macchina da presa, l’assunzione di un punto di vista mobile, sia attraverso l’invenzione di tecniche di ripresa e ottiche originali, come il pancinor, capace di consentire un accorciamento morbido della distanza e un passaggio a una diversa messa a fuoco nella profondità di campo (vedi la sequenza in soggettiva delle folli internate di Europa ’51), sia attraverso un uso spericolato e sgrammaticato, letteralmente, dei materiali, usati nel senso del vero piuttosto che del bello, come accade in India matri bhumi, dove in un campo controcampo, una ripresa in 35mm di un vecchio viene montata accanto alla sequenza in 16mm gonfiato di una tigre. I cineasti sono soggetti e Rossellini, come tale, assume su di sé, più che la tradizione monologica dell’antropologo, la faticosa consapevolezza del privilegio conoscitivo del cinema come traccia di un individuo in un’impresa collettiva e plurale quale la produzione di un film. Ma la sua pratica di viaggio nella contemporaneità, la pratica neorealista dei capolavori del periodo bellico e postbellico – Roma città aperta, Paisà, Deutschland im Jahre Null – è la stessa pratica che informa il lavoro indiano: la ricerca dialogica, la costruzione contingente di soggetti e set, la volontà di produrre, nella semplicità di una forma comunque narrativa, una passione verso il reale. Scelta questa segnata dal lavoro con non attori, dall’adesione alla lingua locale. Così come Germania anno zero, girato in tedesco, nella sua versione originale del 1948, è montato in quella lingua, così il materiale indiano riporta le principali lingue parlate nel paese, hindi, urdu, inglese, bengali. La fedeltà della pratica neorealista è quindi la matrice in cui leggere l’esperienza indiana, la sua dimensione etnologica: viceversa le pratiche etnologiche misconoscono curiosamente i debiti contratti col neo​realismo, la pregnanza degli scritti teorici di Zavattini, precursore, nella sua idea di cinema come pedinamento del personaggio, delle pratiche contemporanee di shadowing.68 Come un etnologo dilettante, Rossellini si muove nell’India degli anni cinquanta, ne osserva la modernità, gli elementi di una presenza tradizionale e primitiva, in un certo senso ne coglie la tradizione razionalista, recentemente difesa e rinverdita, da Amartya Sen in L’altra India.69 Rossellini osserva e studia la tradizione castale, le dinamiche religiose, la cultura agricola, la relazione tra città e campagna, la struttura dei legami di parentela, la struttura della famiglia e la natura dell’autorità parentale, dell’autorità maschile, così come ne osserva l’architettura. Procede sul campo come un etnologo, riempie taccuini, fotografa, intervista, scrive lettere a Parigi a Enrico Fulchignoni,70 allora all’UNESCO, per informarlo del progetto e per ottenere da lui ragguagli su argomenti e luoghi della vita indiana. Esito di questo processo una serie di materiali trasmessi nel 1958 dalla televisione italiana e francese nella forma di taccuini visivi, commentati dallo stesso Rossellini filmato dinanzi alle immagini, sollecitato dalle domande di Marcello Cesarini Sforza, nell’edizione italiana, e da Etienne Lalou, in quella francese. Tutto questo nella forma di una serie televisiva, nella forma di una conoscenza trasmessa per immagini, muovendo dalla consuetudine della restituzione monologica del documentario, ma offrendo qui non solo la variante di un commento off dichiaratamente esibito, ma sopratutto esplorando nella forma di un taccuino l’idea stessa del documentario, offrendo materiali filmici, rushe montate e assemblate, un diario visivo di viaggio, ma anche la materia d’immagini di India matri bhumi. Come i viaggiatori di Jaguar, Rossellini restituisce, in differita, la memoria di un’esperienza, offre in differita il suo corpo e la sua voce al documento, all’invenzione documentaria della sua India. Pasolini, in Appunti per un film sull’India, qualche anno dopo filmerà il suo corpo e la sua voce nel corpo stesso del film, offrendosi come testimone autorevole e doloroso, nella scena di un viaggio dove

un’attitudine etnologica moderna si manifesta nei modi dello spaesamento, nel segno trascorso dei letterati etnologi alla Leiris, nella profezia dell’antropologia riflessiva successiva.71 Rossellini, da buon illuminista, filma nella forma della trasparenza e della flagranza, assume l’emico come etico; nei termini di Geertz apparterebbe ancora alla scrittura densa della tradizione inglese, o potrebbe essere accostato alla ragione dialogica di Griaule, mentre Pasolini, probabilmente, troverebbe la sua collocazione nel segno della crisi della tradizione monologica.

6.4.1. Quattro storie esemplari: geografia narrativa di uomini, uomini e animali, animali Oggi i paesi sono schiacciati l’uni agli altri come sardine. Si viaggia sempre di più. Diventa banale viaggiare. La vita comune ha una scala mondiale. Per cui la cosa più importante è conoscere i nostri vicini. Prima di amare qualcuno bisogna conoscerlo. Mi accusano di essere un battitore libero. Ma è davvero così: io parto in esplorazione, come un missionario, dunque un cineasta. Bisogna conoscere gli uomini così come sono. Il cinema è questo: filmare a tutte le latitudini, tutte le avventure, da tutti i punti di vista, buoni o cattivi. Non è casuale che gli obiettivi si chiamino così. Bisogna impegnarsi ad accostare gli uomini con rispetto e obiettività. Non abbiamo il diritto di filmare un personaggio orribile, e al tempo stesso, di condannarlo. Io non mi permetto di giudicare i miei personaggi. Era Balzac, credo, che diceva spesso, all’inizio dei capitoli dei suoi romanzi: “ora parlano i fatti”. Andare in fondo alle cose, coglierle, significa appunto questo. Bisogna raggiungere questo punto, l’estremo in cui le cose parlino da sole. Il che non significa soltanto che le cose parlino di se stesse mostrandosi, ma che divengano realtà. Quando si mostra un albero, bisogna che l’albero manifesti la sua bellezza di albero, che la casa sia la bellezza della casa. Che il fiume sia la bellezza del fiume. E questo vale sia per gli uomini che per gli animali. Una tigre, un elefante, una scimmia, sono interessanti come un gangster, o una donna di mondo. E viceversa, naturalmente.72 India matri bhumi è il testo a fronte narrativo della serie televisiva che ha il titolo italiano di L’india vista da Rossellini. Se il testo documentario si può, nel gioco delle similitudini, costituire e definire come una sorta di etnografia visiva, diario di viaggio etnografico tra modernità e tradizione, India mahtri bhumi si accosta alla forma del saggio, alla riflessione metaetnografica nella forma di quattro storie esemplari, alla narrazione come allegoria etnografica, nel senso di Clifford e Marcus; ma la finzione etnografica è qui evidentemente rivelata come tale. Il soggetto di Rossellini, i soggetti, nel senso di plot, dei quattro apologhi, sono il risultato di un lavoro di raccolta di materiali di campo, nell’accezione ampia e in un uso volutamente discorsivo del lessico antropologico. Il lavoro di set si presenta poi analogo al lavoro dei film neorealisti: Rossellini riprende a considerare una tecnica che sarà propria del cinema di osservazione. Lavoro di ascolto di storie e di raccolta di queste, lavoro di osservazione del corpo e dei movimenti dei corpi, i corpi di non attori, al fine di memorizzarne

i gesti, sperimentarli visivamente negli spazi di vita quotidiana, per cercare di riprodurli dinanzi alla camera: memoria anche fotografica, nel segno di produrre un atlante di gesti individuali da chiedere al proprio attore, addirittura da re-insegnare al proprio attore, nella coscienza della perturbazione singolare e inevitabile della macchina da presa. Una complessa e peculiare pratica di re-enacting prodotta al di fuori della disciplina antropologica, ma nel segno di un’antropologia complessa dell’uso della relazione attraverso la camera, nel segno della responsabilità ineludibile del soggetto che filma. Le osservazioni del commento della serie televisiva muovono continuamente dal singolare verso l’universale. Nella pratica filmica, invece, il singolare, la singolarità viene esaltata nella forma semplice e peculiare di una etnofiction la cui dinamica di produzione e restituzione mette in pratica una consapevolezza acuta sia dell’oggetto come soggetto del racconto, nella mediazione dell’invenzione narrativa, sia della relazione con la cultura e le pratiche dei non attori. Verso cui le scelte realistiche di messa in scena implicano una capacità di accorciare la distanza, ma anche la necessità di una condivisione del set. Pratica complessa, in un paese che già negli anni cinquanta manifesta una particolare propensione culturale al consumo di immagini cinematografiche. Così descritte le condizioni di produzione testuale, evidenziate le caratteristiche di lunga durata del field-set di Rossellini, procedendo in questa analogia, seguendo Stephen Tyler – con qualche forzatura sulla questione del visualismo – nulla ci vieterebbe di considerare il film come una sorta di esempio postmoderno di etnografia, qui evidentemente visiva, invece che letteraria:

Una forma cooperativa di testo che consiste di frammenti discorsivi tesi a evocare, nella mente del lettore, come di chi scrive, la fantasia emergente di un possibile mondo di senso comune, capace di suscitare un’integrazione estetica dagli effetti terapeutici.73 La complessa finzione etnografica, nel senso di Kilani,74 diviene qui una relazione tra reader e writer, tra filmmaker e viewer. Per costituirsi come il luogo di una integrazione estetica, grazie anche all’evidenza della natura della relazione tra Rossellini e i filmati, alla scelta illuministico-evocativa di segnare di realtà di senso comune il mondo fatto immagine. Il cinema di Rossellini, in questo senso, e questo film soprattutto, insieme col materiale della

serie documentaria, diventano, di fatto, l’esito di una pratica etnologica, di una volontà etnologica, la cui evidenza traspare ed è espressa non tanto dalle dichiarazioni di intenti, quanto dalla evidenza filmica, eludendo esplicitamente una questione più ampia e essenziale, ovvero se una pratica etnologica produca necessariamente un oggetto etnologico, e se questo oggetto sia poi normabile e normato, e come, dal sistema disciplinare. Per non ricadere in quella che potremmo chiamare, senza ironia, la legge di Ruby, ovvero: i film etnologici sono i film fatti da etnologi. Legge per la quale, ad esempio, i film di Rouch precedenti al suo dottorato non sono tali. E così anche i film di Lévi-Strauss e le sue pubblicazioni anteriori al 1948. E così via. India mathri bumi è un film composto da quattro episodi e da un breve prologo. Ciascun episodio è sostanzialmente autonomo, e presenta un suo carattere, una sua precisa e diversa localizzazione, una sua dimensione di plot e sviluppo narrativo, una sua propria collocazione di genere. I raccordi tra gli eventi e le storie narrate sono elementi diegeticamente essenziali: luoghi, momenti di viaggio, tracce visive del contesto spaziale, ovvero l’India degli anni cinquanta. Gli episodi nella loro dimensione di storie di vita si trovano a essere inclusi all’interno di una cornice di genere documentaristico: la narrazione, come l’invenzione, abita nello spazio diegetico della realtà. Il prologo è ambientato a Bombay, nella realtà dell’India urbana e metropolitana, l’India della folla, della modernità della massa, del movimento frenetico e spettacolare del traffico delle città, dei corpi in città, degli animali in città. Degli umani. Da cui la scelta di tagli di montaggio bruschi, l’uso di zoom, di veloci movimenti di camera: l’evidenza visiva del documentario riposa sulla matrice dei generi urbani del cinema americano, il noir soprattutto, la perversione urbana del western, anticipando, visualmente, la nouvelle vague in statu nascenti. Tecniche del corpo maussiane ritratte nella flagranza narrativa rosselliniana. Alla scena urbana della modernità fanno seguito i quattro episodi, la cui ambientazione naturale, o ai bordi tra città e natura, tra territorio formato e trasformato dal segno urbano o dal segno agricolo, provoca in Rossellini una pratica di stile del tutto diversa. La grammatica e la sintassi del film si materializzano nelle scelte di lunghi piani sequenza, movimenti lenti di macchina, essenzialità o quasi assenza del montaggio, trasparenza di questo, non nel senso classico hollywoodiano. Siamo lontani dal progetto storico del cinema classico di uno sguardo esplicitamente onnisciente perché istituito come prodotto di realtà, come riduzione a occhio dello sguardo stesso; non siamo qui nella posizione classica dove il noi degli spettatori coincide tecnicamente con l’io-occhio del regista, con l’obiettivo della mdp. La lunghezza dei piani sequenza, l’essenzialità delle panoramiche, l’uso di camera car negli spostamenti come riduzione primitiva del piano sequenza stesso, la volontà di semplificare il montaggio, producono una sorta di mondo semplice della modernità della rappresentazione novecentesca. In questo senso la tensione formale del primo Rossellini, come scrisse Jacques Rivette sui Cahiers du Cinéma, già nel 1955, lo accosta a Matisse, al suo apparente primitivismo. Ma anche lo spazio di Masaccio, la spazialità del volto e del corpo nella pittura italiana quattrocentesca, sembrano costituirsi come elementi formali della modernità di Rossellini. L’incipit del film è infatti volutamente espressivo di un punto di vista visivo estraneo alla storia formale del suo cinema. Si tratta qui di una messa in scena nei modi di un’azione mimetica complessa, volta al racconto di una modernità urbana incombente e nascente, verso cui Rossellini mostra un estremo e acuto interesse, letta come segno di una globalizzazione mondiale che per lui è già in formazione, come appunto nella citazione in testa al paragrafo, tratta da una conversazione con Jean-Luc Godard riportata in forma di dichiarazione su Arts

del 1958. Nei restanti quattro episodi, invece, la moralità dell’inquadratura sarà il segno delle riprese, come dell’esito finale: la scelta del reale come incontro e frizione della realtà e delle riprese, del film come zona di contatto tra un soggetto e il mondo comporta la dimensione primaria della durata, la trasformazione dell’occhio in sguardo, il recupero o la scoperta del movimento come attenzione invece che come registrazione. La coscienza di esser lì, per Rossellini, si inscrive nell’esser lì con la camera, col proprio corpo e con la troupe,75 nell’evidenza che qui si tratta di cinema, seppure intensamente etnologico, ovvero di perturbazione manifesta ed esplicita del field, di una sua cosciente modifica in set. Intanto la natura si filma diversamente, e così l’uomo, in uno spazio naturale, sia esso questo selvaggio, sia esso una natura trasformata attraverso il lavoro dell’agricoltura come tramite verso le pratiche del costruire e dell’abitare. Il primo dei quattro episodi è ambientato nella giungla di Karapur e il focus del racconto è la relazione che lega i conducenti di elefanti ai loro animali, i veri “bulldozer indiani”, relazione lungamente descritta attraverso gli atti di cura rivolti agli animali stessi, alla sfera delle attenzioni che queste bestie suscitano. Poi il focus si muove verso un giovane driver di elefanti che, innamoratosi di una fanciulla figlia di un impresario di marionette, la chiede in sposa. Per far questo il giovane si reca da un maestro di scuola perché inoltri al padre una lettera formale al fine di organizzare il matrimonio. La scena seguente vede i genitori di entrambi trattare il matrimonio alla presenza di un maestro, che funge da traduttore: i due infatti parlano lingue diverse. Scena esemplare, volutamente non sottotitolata, annunciata e risolta dalla voce off del narratore e realizzata da Rossellini come un taccuino visivo, un esercizio di cinema di osservazione: i volti, i gesti, le posture, l’uso parziale di campi controcampi, la scelta di filmare nello stessa inquadratura i due vecchi mentre l’accordo sta per realizzarsi. Mimetismo suggestivo dell’accordo, del superamento dialettico della grammatica del campo-controcampo. Costruzione nell’inquadratura dello spazio di relazione come spazio comune di presenza di due o più corpi; com-presenza, corappresentazione, la modernità ontologica del cinema secondo Bazin; due esseri nello spazio rappresentativo: l’esserci. E insieme, con l’immagine dei corpi, nella durata dell’inquadratura, lo spazio che li contiene, il suono, nella dimensione più ampia che li raccoglie ma che il cinema produce come continua cornice invisibile: il fuori quadro. Così i due giovani, in accordo alle leggi matrimoniali tradizionali, potranno unirsi. Mentre, intorno, la natura procede nei suoi cicli: è la stagione dell’accoppiamento degli elefanti. Il secondo episodio ha come oggetto l’impatto della modernità, l’idea di cambiamento e di progresso, l’incontro e la frizione tra tempi diversi del mondo, tra il tempo della tecnica e il tempo della vita, sia essa natura, sia essa la vita umana, nelle sue forme di relazione al mondo e alle altre vite. La cornice documentaria ci porta prima all’Himalaya, alla sorgente dei principali fiumi dell’India, quindi, grazie a una serie di veloci ellissi, l’acqua si fa immagine del sacro, ci appare il Gange, quindi la città sacra di Benares. Il focus di quest’episodio è l’immensa diga di Hirakud, la sua messa in opera come segno della modernità, del lavoro umano come potenza della trasformazione. Poiché il cinema di Rossellini si fa tale nel raccontare la storia, nel senso delle storie di donne e uomini, se questo cinema sta dal partito preso dell’umano invece che dal partito preso delle cose, ecco allora il vero focus, il centro narrativo e patemico del film: gli ultimi giorni di lavoro di un ingegnere, la sua prossima partenza, una cena di commiato nella sua casa in compagnia della moglie. I due, rifugiati dell’est Bengala, dopo la scissione della guerra indo-pakistana, sono sul punto di trasferirsi altrove. Ma la coppia manifesta due diversi atteggiamenti. La donna soffre del distacco

prossimo da quei luoghi, l’uomo è attratto dalle scommesse future. Dopo un violento litigio, l’uomo ritualmente prende congedo dalla diga, bagnandosi e nuotando nel lago da lei generato. Il giorno seguente, su un carro, con pochi mobili e oggetti, la coppia lascerà quei luoghi. Alle spalle di entrambi, enorme, la diga. Cultura come progresso, cultura per leggere il progresso: la diga, nella sua potenza, è il frutto del lavoro di oltre quattrocentomila uomini, centosettanta dei quali sono morti durante i lavori. L’elettricità non ha nulla di magico, il pensiero razionale di Rossellini sollecita all’incontro con la tradizione razionalista indiana. Eppure Rossellini manifesta, in questo piccolo scontro tra culture, tra forme e modi diversi della temporalità, il suo dubbio profondo sugli abissi culturali dell’idea di progresso, sull’american way of life, sull’idea di una mente calcolante e quantificante come macchina universale del benessere: dubita che la scienza sia tale senza conoscenza, dubita, come afferma in diverse interviste, dell’epoca come degli anni successivi, della manualistica, della cultura ridotta ad istruzione, tecnica del problem solving, pur avendo egli stesso una passione verso la meccanica e le macchine, e un’abilità non comune nel servirsene e nel modificarle (vedi l’invenzione di una macchina ottica come il Pancinor). Il terzo episodio è ambientato nel mondo delle piantagioni di riso. Siamo dinanzi alla scena della vita di un vecchio di cui vediamo il risveglio, i suoi riti di saluto e purificazione mattutini, la scena di una vita ecologicamente disegnata nell’osservanza di un equilibrio tra esistenza singolare e campo naturale delle forme di vita, umane e animali. Questo equilibrio complesso è sconvolto dall’arrivo di un gruppo di geologi impegnati in una campagna di prospezioni. L’installazione di questi uomini, l’uso di macchinari rumorosi, turba l’equilibrio di quello spazio; gli animali mal sopportano i nuovi suoni meccanici: un porcospino ferisce una tigre, e come recita il vecchio, una tigre ferita è un animale pericoloso. E così la tigre attacca e uccide un uomo. La compagnia mineraria decide quindi di organizzare una battuta di caccia. Il vecchio nella notte accende dei fuochi per far sì che la tigre fugga: perché uccidere se c’è spazio per tutti? Il quarto e ultimo episodio ci porta, definitivamente, verso lo spazio del mondo animale. È l’episodio più struggente e complesso del film, apparentemente etologico, invece che etnologico. Un ammaestratore di scimmie è in viaggio verso la fiera di una città lontana. L’uomo attraversa una natura desolata e quasi desertica. Il calore sale progressivamente sino a tramortirlo. L’uomo perde così conoscenza, mentre il piccolo macaco, di nome Ramu, è legato al corpo dell’uomo da una piccola catena. L’animale si dispera, cerca di danzare per il suo padrone, ripete una sequenza di gesti che ben conosce, ma non accade nulla. Gli avvoltoi volano intanto sempre più bassi. La morte dell’uomo libera la scimmia, la quale raggiunge comunque la città: il percorso, evidentemente, è intensamente embodied nella sua memoria. Nella fiera la scimmia sembra orientarsi alla ricerca di uno spazio; poi si confonde tra la folla. Quando vede degli uomini che si esibiscono in esercizi di abilità, la scimmia ha memoria delle sue capacità: il luogo produce in lei un riflesso complesso. Così la scimmia comincia nuovamente a esibire i numeri che il suo padrone le aveva insegnato, e alla fine di ciascuno a mano aperta cerca le offerte. Qualcuno risponde a questa richiesta con delle monete. E la scimmia proverà a mangiarle, per poi abbandonarle. Lasciata la piazza della fiera, raggiunto un giardino, la scimmia si vedrà attaccata da altre scimmie che la vedono e sentono estranea e straniera, vestita di abiti umani, vestita di odori umani. La scimmia così rimane sola, paria tra le scimmie, ultima tra gli ultimi dei macachi. Un nuovo padrone la adotterà:

Non ho messo quell’episodio alla fine perché più drammatico, ma perché rappresenta la regola perfetta della natura. Gli avvoltoi attendono, ma non mangeranno l’uomo che non è morto. Bisogna attendere il decreto di morte. Bisogna che, in qualche modo, sia legalizzata la morte dell’uomo per far sì che gli avvoltoi, parte della natura, si muovano e vadano a compiere la loro funzione nella natura. E già questo è piuttosto straordinario. Allora, morto il suo padrone, la povera scimmia, che non è più né una scimmia né un uomo, prova il bisogno di andare nello stesso tempo dalle scimmie e dagli uomini, di tornare indietro e di andare avanti. Proprio lì sta il dramma, che è il dramma di noi tutti, la lotta in cui siamo coinvolti.76 Attraverso una moralità etologica Rossellini chiude il suo film indiano: uomo e natura, uomini e animali, nella natura, mimesi animale e tragico umano. La morte dell’uomo come fatto di natura, la vita della piccola scimmia come memoria della natura ammaestrata e modificata dai giochi che l’uomo le ha insegnato, la solitudine della scimmia ormai umanizzata tra le scimmie, la condizione complessa di un equilibrio, la verità dei conflitti e la ricerca di una relazione ecologica nel mondo. Ecco l’India vista dal neorealismo, raccontata infine dagli occhi di un animale come memoria ed esempio della nostra stessa complessità animale. Situandosi così tra etologia ed etnologia, in un’attitudine narrativa capace di assumere la possibilità delle scienze umane di raccontare mondi, di fare, di questi mondi, il racconto del cinema. Di fare del film, col suo finale, un apologo estremo dell’alterità, come lo era la scena kafkiana dell’altro, del noi scimmia nel racconto Una relazione accademica. Di vivere l’apologo nei termini di un catastrofico, ma coerente, rovesciamento: Durante il tournage dell’episodio con la scimmia aveva fatto amicizia con l’animale. Ramu era un macaco, un scimmia naturalmente affettuosa e curiosa, che se addomesticato diventa un vero animale domestico. L’idea di avere un animale addomesticato aveva sedotto Roberto, che contava di farne un fantastico regalo ai suoi tre figli a Roma. All’inizio il proprietario non voleva separarsi dalla sua scimmia vestita, fonte dei suoi guadagni, ma alla ricca offerta di Roberto, malgrado la sua pena, cambiò opinione. L’episodio del film era stato girato a Bombay dove Roberto alloggiava in un appartamento ammobiliato con servitù. Ramu era diventato l’incubo dei servi e dei ragazzi. La scimmia si agitava in continuazione ed era insopportabile, non sopportava l’ambiente che non le era familiare, né gli stranieri intorno a lei. Certamente le mancava il padrone. Ramu era abituata a una vita nomade, all’aria aperta, trascorsa in villaggi diversi giorno per giorno. La terrazza di un appartamento a Malabar Hill, zona alla moda di Bombay, non poteva che essere una prigione e far di lei un scimmia infelice. Roberto decise così di mandarla da Giuliana Combi, la direttrice dell’Hotel Swiss di Delhi. L’hotel aveva un grande giardino alberato e finalmente Rami avrebbe potuto da lì essere inviata in Europa. Ramu fu così inviata a Delhi, ma il viaggio non fece che accrescere il suo malessere. A Delhi abitava all’aria aperta nel giardino dove poteva arrampicarsi sugli alberi. Ma niente la acquietava. Il signor Combi cercò di fare amicizia con Ramu, ma appena cercò di nutrirla fu morso alla

mano. Poco tempo dopo Ramu riuscì a fuggire e non fu mai più ritrovata.77

6.4.2. Tempi dell’altro, tempi dell’immagine, il tempo-cinema. Altre allocronie Nell’intervista del 1959 ai Cahiers du Cinéma Rossellini rilascia alcune dichiarazioni essenziali sia per comprendere la natura del suo tentativo poetico e teorico, sia per produrre uno sguardo, ulteriore, sui confini e sui bordi delle pratiche visive, un’analisi della porosità evidente dei confini tra spettacolo ed etnografia nella storia di fondazione della disciplina antropologica, così come sulla disciplina spettacolare del cinema in quanto macchina industriale, i cui prodotti ed esiti sono presentati come forme dell’intrattenimento, occultandone la potenza singolare, mitografica e socialmente disciplinare, o addirittura conoscitiva che esprimono. Questa relazione storicamente data si rende ulteriormente incerta nel cinema delle nascenti nouvelle vague, nell’incrocio dell’eredità e della presenza del neorealismo nel cinema di ricerca etnografica, nella relazione di Rouch e Rossellini con le nouvelle vague francesi e con le altre nouvelle vague europee e non, persino nella biografia della formazione etnologica di Godard: Sapete, in India la natura è talmente evidente, così possentemente evidente! Ho cercato di demolire la leggenda e di guardare alle cose nella loro realtà. Per esempio, l’uomo che mostra le scimmie ammaestrate muore perché c’è una tempesta di caldo. È un fatto meteorologico, dotato di un potere tale da esercitare un’influenza sugli uomini che diventa drammatica. Ero partito ben deciso a evitare i luoghi comuni: tra questi luoghi comuni ci sono le tigri, gli elefanti, i cobra, ecc. Ma questi luoghi comuni nascono sempre da una realtà. Meglio quindi guardare a questa realtà così com’è. E ciò che colpisce in India (lo dico nei programmi televisivi) è la contemporaneità della storia. Ti senti immerso in un’umanità totalmente primitiva e sei anche nell’epoca moderna. Gli esemplari di tutti i periodi storici sono là. Sotto i tuoi occhi, assolutamente sullo stesso piano. Ecco, credo che questo sia l’aspetto dell’India che più colpisce.78

La lunga citazione, riportata dall’intervista ai Cahiers du Cinéma del 1959, così come la dichiarazione rilasciata a Godard, dell’anno precedente, definiscono con chiarezza la posizione di Rossellini, sia rispetto al film realizzato, che ad un progetto di cinema di etnofinzione assolutamente originale. Ma ciò che sorprende è la lucidità intellettuale del cineasta italiano, il suo sguardo complesso sulla modernità, il porsi come soggetto storico tra sviluppo, progresso, tradizione, l’interrogarsi storicamente a partire dal presente del suo lavoro di cineasta sulla globalizzazione delle merci, dei segni e dei consumi, sulla costruzione delle identità culturali, sulla struttura del pregiudizio come fattore di cultura.79 Rossellini sfida i luoghi comuni interessandosi a questi, cercando di cogliere, nella ricerca che lo porta a filmare, nel lavoro di terreno – le interviste, gli incontri occasionali, come premessa del set – la forma stessa del luogo comune, la sua ragione, la sua emergenza come superficie sensibile, interfaccia, skin di ogni alterità e incontro. E nel far questo pensa il cinema, la forma film, come pratica in cui idee e immagini formino una trama di relazioni tra uomini e mondo, in un mondo che si ricostituisce come tale nello sguardo umano, dentro una sorta di nuova ecologia di questo sguardo nel suo emergere dalla natura, nell’esserne prodotto e attore:

Sì, le idee ci sono mille altri modi per esprimerle oltre al cinema, scrivendo, per esempio, se fossi uno scrittore. La sola cosa in più che il cinema possiede è la possibilità di mettere in un solo fotogramma dieci cose nello stesso tempo. Non c’è bisogno di essere analitici al cinema, pur essendolo.80 Due tempi emergono, due idee del tempo: il tempo storico come forma cogente e significante in cui ci muoviamo e viviamo, il tempo del cinema come forma in cui, attraverso le immagini, il mondo stesso viene ad essere riprodotto in forma assolutamente nuova e originale: l’inquadratura come pratica analitica nella forma di una emergenza sintetica. Ma il tempo storico di Rossellini, nella sua emergenza come presente, non è il tempo omologato e unificato della misura, né il tempo in quanto evidenza di un qualche disegno di evoluzione o progresso, piuttosto il coesistere e prodursi di un insieme di tempi diversi, di forme della

temporalità storica dove il tempo stesso si offre come diorama vivente di vigenti asincronie, ora convergenti ora divergenti. Il subcontinente indiano è una sorta di passage benjaminiano: offre allo sguardo attento, ma anche allo sguardo semplicemente sedotto dall’epifania successiva di uomini e animali, di segni della modernità e di segni della tradizione, un multiverso temporale straordinario, un tempo irriducibile a un diagramma o a un sistema di equazioni culturali occidentali di tipo progressivo. Tra le dighe e le colture primitive, tra l’arcaico e le ricerche delle matematiche indiane, Rossellini, consapevole di questa coevalness plurale, assume la posizione vitale dello sguardo del cineasta; accoglie forme di vita, attraversa e filma le storie, non cerca oggetti, né musealizza il tempo nella magnificenza dei totali o nella gradevolezza delle panoramiche alla ricerca del picturesque, come dichiara ancora ai Cahiers: ›Le si può allora fare la domanda opposta a quella di prima: perché non un semplice documentario, alla maniera di Flaherty? ›Ciò che importava era l’uomo. Ho cercato di esprimere l’anima, la luce che è dentro a questi uomini, la loro realtà. Che è una realtà assolutamente intima, unica, agganciata a un individuo con tutto il senso delle cose che ci sono attorno. Le cose che sono attorno hanno un senso, perché c’è qualcuno che le guarda, o perlomeno questo senso diventa unico per il fatto che qualcuno le guarda: il protagonista di ciascuno di questi episodi, che è al contempo il narratore. Se avessi voluto fare un documentario in senso stretto avrei dovuto abbandonare quello che accadeva dentro, nel cuore di quegli uomini. E d’altronde, per spingere il documento fino in fondo, bisognava anche, credo, guardare il cuore di questi uomini.81 Il progetto etnologico di Rossellini ha questa necessità: muove dal mondo come mondo di umani, cerca nella narrazione la pratica di un senso, indica le immagini come pratica analitica, ma in un senso affatto diverso dal progetto di atlante culturale balinese di Bateson e Mead. Muove da domande simili, produce una significativa coscienza metodologica, ma affronta la consapevolezza della storia come terreno del reale, della sua peculiare produzione nelle forme del cinema. Nelle scene urbane iniziali, Rossellini filma attraverso un uso del tutto diverso delle sue consuete grammatiche, lo spazio della città: luogo dell’ibridazione evidente di moderno e arcaico, di animale e umano, di velocità e relazioni, immaginato, nel senso letterale, nel segno mimetico dello sguardo veloce, del fast cut, del quick shot, nella forma direttamente diegetica perché mimetica dell’orientamento come del disorientamento dell’occhio, della necessità sinottica dello sguardo, della trasformazione percettiva di spazio e tempo che la città moderna ha prodotto. In quelle sequenze, l’intelligenza esemplare e socratica di Rossellini realizza un brevissimo esemplare trattatello maussiano sulle tecniche del trasportare: il movimento del trasporto e l’uso di corpi e mezzi di trasporto, umani, animali, meccanici. La cornice visiva è il prodotto di una matrice modernista temperata dall’istanza neorealista: l’assunzione responsabile di uno sguardo veridico, antispettacolare e analitico-sintetico (nel passaggio inquadratura montaggio), la forma narrativa e il registro da commedia nella descrizione delle scene di vita, a inventare una piccola leggera catena sintagmatica animata di volti e colori. Infine lo zoom sui volti a ricordarci la piccola potenza

del cinema: l’invenzione plastica del microcosmo fisiognomico, la restituzione intensiva di questo, nel viso di donne e uomini, la ricchezza patemica e descrittiva di un’economia del visibile centrata sul cambiamento di scala, sull’invenzione di un ordine diverso di grandezze quasi sensibili, optosensibili. Ma la dimensione di questo sguardo appassionato alla produzione del reale consente a Rossellini la trama di una procedura di coevalness ulteriore, di accorciamento della distanza nell’esplicitarsi come soggetto storico occidentale, nel proporsi e proporre pubblicamente una griglia di lettura semplicemente comparativa, una sinossi storica che il film non esplicita ma che risulta chiara ed esplorabile al cineasta italiano:82 ›Fisicamente l’India che lei ha visto assomiglia a quella delle cartoline, delle vacche sacre sui marciapiedi, dei mendicanti? ›L’europeo vede i mendicanti ovunque, così come il turista che visita la Sicilia vede ovunque poveri. Ma si tratta solo di una prima impressione. È il caso di parlare invece del meraviglioso clima tropicale. Si ha l’impressione di trovarsi in una cascata di acqua troppo calda… La vegetazione? Evidentemente l’India è il regno delle palme e del bambù. Dalla finestra guardi volare gli avvoltoi, le aquile, i pappagalli. Un fiore in un interno è ancora segno della presenza della natura nella vita quotidiana, è un vero fiore. In Francia un fiore è già un prodotto sintetico cresciuto in serra, dunque artificialmente. Ti trovi in una grande città, al centro, e continui a sentire lo stormire degli alberi della giungla. Nessuna nostalgia, ma domande in forma di sguardi, e di riprese, pratica di un cinema che interroga il reale mentre lo produce, attraverso scelte di linguaggio e di formazione del senso e dell’immagine, capaci di suscitare il movimento doppio, doppio vincolo, del filmage stesso: esser lì dove l’immagine ci porta, poter tornare qui dove l’immagine viene vista, restituirla, appunto, come attitudine morale e informata dello sguardo che si confronta con l’alterità. Il neorealista Rossellini interroga lo statuto delle immagini, il valore di senso di queste, la possibilità attraverso queste di raccontare il mondo nel suo divenire, di confrontare il suo punto di vista occidentale con lo statuto dell’alterità, prima che con le immagini di questa e con la possibilità stessa quindi di produrle. La pratica dell’osservazione si fa pratica della narrazione, il re-enacting pratica esplicita della coscienza impossibile della flagranza dinanzi all’obiettivo, l’istanza dialogica la condizione stessa che rende possibile il set. Rossellini, in fondo, pratica in India una forma peculiare di osservazione partecipante, eminentemente visiva, tramando le immagini e i segni come un bricoleur, nel senso più prossimo a LéviStrauss. Nella consapevolezza, come nella volontà di progetto, di pensare il mondo come filmabile nella forma di un’interrogazione narrativa, di una finzione essenziale ed etnologica. Nel 1958, subito dopo India mathri bhumi, il progetto abortito di Roberto Rossellini era un film-saggio brasiliano, sulle tracce di Geografia della fame di Josué de Castro, all’insegna di una geografia per immagini del mondo. Il fallimento del progetto porterà Rossellini sulle tracce di un’altra impresa, questa riuscita, di un progetto di conoscenza storica attraverso le immagini, il cui esito fu il ciclo televisivo de L’età del ferro, e de La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza, una sorta di riflessione per immagini la cui genealogia si inscrive in un quadro di riferimenti che va da le Annales a Le Roi Gourhan. Dopo le peripezie della storia, e i numerosi film televisivi degli anni sessanta ancora su questi temi, tra cui il magnifico La prise

du pouvoir de Louis XIV, Rossellini lavorò per due anni a Huston alla Fondazione de Menil e alla Rice University a un progetto di racconto della scienza centrato sul progetto di visibilità della scienza stessa, sull’assunzione epistemica dell’equivalenza vedere-sapere, nel segno delle nuove forme di visione e delle nuove protesi visive. Per tornare alla geografia e all’inchiesta di terreno, nel 1974, quando su commissione dell’UNESCO firmò il documentario A Question of People, dedicato ai problemi del sovrappopolamento mondiale. L’orizzonte del mondo si misurava comunque nel segno delle donne e degli uomini che lo abitano: la geografia, come geografia umana, ritrovava lo sguardo morale di Rossellini, la sua passione verso il reale.

6.5. Metodi, pratiche, forme di vita: nell’occhio della vita stessa, nell’occhio ciclopico del metodo Non credere, non credere di sapere soltanto perché la vista ti dice questo. Nessun giudizio morale. Nessuno stupore. Nessuna preoccupazione. Cercare di vivere nella società indigena. Scegliere opportunamente le testimonianze. Apprendere le lingue franche.83 La peculiare formazione di Rouch non gli ha impedito di addottorarsi con una monografia sui Songhay, sotto la guida di Marcel Griaule, di realizzare oltre centoventi tra film e video, di esercitare un’attività di formazione e insegnamento a Niamey come a Parigi, negli Stati Uniti come in Inghilterra, di produrre una cospicua serie di interventi in forma scritta, tra teoria ed etnografia visiva, tra cui la splendida monografia del suo doctorat d’état, La religion et la magie Songhay, 1960, poi accresciuta e riveduta nel 1989. Un testo centrale e decisivo, la cui ampiezza e profondità ne fanno, per molti versi, un’opera rara. Alla scrittura trasparente, nel senso che Geertz attribuiva all’espressione scrivendo di Evans Pritchard,84 Rouch giustappone

una tessitura multivocale del testo, una messa in scena bachtiniana, nella restituzione puntuale di dialoghi, trascrizioni di testi di informatori, nella risoluzione di nomi in persone, di personaggi in esseri reali in personaggi, nel senso figurale della parola, del teatro etnografico. Testo multisituato, quasi geografico, intrecciato di dati sociologici, mitografie, dati metereologici, resoconti testuali e riferimenti filmici, glossari. Registro di un lavoro decennale di campo, di una lunghissima e profonda frequentazione, che il cinema ha certamente arricchito e modificato. La ricerca di Rouch produce insieme forme testuali diverse, apparentemente parallele, come lo studio sulle migrazioni in Ghana e Jaguar. Due forme di riflessione per dati e narrazioni sullo stesso tema. Filma la possessione e ne scrive; filma i rituali e ne traccia le coordinate, in testi e interventi in convegni accademici, per lo più al CNRS in Francia – di cui è ricercatore per tutta la vita. Peter Loizos considera il lavoro di Rouch regista come una pratica postmoderna, un’antropologia discorsiva e soggettiva nel segno di Rabinow, Clifford, Rosaldo, Tyler, e mette sull’avviso gli accademici della West Coast, sull’emergenza di rintracciare e ridefinire i modelli di interpretazione postmoderna e gli obiettivi polemici, a partire proprio dal cineasta francese.85 Ma l’osservazione di Loizos potrebbe essere rovesciata, per un verso, o radicalmente accentuata, riconoscendo a Rouch una dimensione critica dell’io etnografico già negli anni cinquanta. Riconoscendogli un ruolo decisivo nella formazione di una riflessione per immagini di carattere antropologico, come di una riflessione etnografica importante nelle aree di studio in cui si è soffermato, come ravvisa, opportunamente P. Henley.86 Nell’incrocio di scritture e film, Rouch mette in scacco gli assi tradizionali della relazione etnografica, discute di metodo nella sua prassi etica ed estetica, lavora con le immagini e per le immagini in uno spazio mobilissimo e incerto, dove la restituzione tradizionale e sovrana, differita e monocratica è continuamente stravolta e decostruita. Quest’andamento plurale e multivocale di restituzione è già evidente nella monografia del 1960, così volutamente sfaccettata al suo interno, così decisa nel riportare registri e forme diversi del discorso, nella memoria culturale del dettato di Benveniste, della contezza che fa del discorso ciò che viene detto in presenza e in un luogo, ciò che nelle culture dell’oralità non è e non ha altrimenti. Rouch muove dalle immagini, riusa e usa parole dette e parole trascritte, restituisce tracce visive nella forma di fotografie, limita le esposizioni al minimo, alla necessità di cornici capaci di situare gli eventi, di dar loro il bordo temporaneo della descrizione. Scrive così di migrazioni e derive multisituate negli anni cinquanta, nella forma di saggi che potrebbero essere definite di taglio pressoché sociologico come, Migrations au Ghana, nel quale l’etnografia si confronta con dati quantitativi, e contestualmente, appunto in Jaguar, inventa di fatto una etnofinzione a partire dalla storia di vita di un migrante, partecipa alle visioni i suoi soggetti filmati, e modifica il montaggio dei film a partire da questa restituzione partecipata. Scrive di aver scelto le immagini perché chi è filmato spesso non legge, soprattutto nel terzo mondo. Rouch manifesta sempre un sentimento di dubbio verso le forme tradizionali di trasmissione del sapere e declina la sua relazione con lo spazio e il tempo del terreno in modo assolutamente diverso dalle consuetudini dell’antropologia di campo. Nella dialettica del film, ricerca la sua posizione originale provocando reazioni di scarto e dissenso accademicamente ovvie; la sua pratica mina le fondamenta di una tradizione disciplinare, la sua pratica affonda nell’antropologia del disagio, mettendo in scena, filmicamente e mimeticamente, il disagio della disciplina stessa. Rouch si occupa di immagini e lavora con esse: oscilla tra cinema e mondo, ma fa della sua

forma di cinema una forma in cui la narrazione rivela e decostruisce il paradigma dell’immagine scientifica così come la prassi dell’immagine esotica e spettacolare. Il film come ethos del movimento e del soggetto, otticamente risolto nella meccanica della fedeltà dell’obiettivo, è continuamente ridicolizzato, così come la scelta di lavoro nella forma della camera a mano e dell’improvvisazione situata provocano la messa in scacco dei paradigmi sani di restituzione documentaria o spettacolare del mondo e dell’altro. Il pittoresco è un tessuto sbrindellato e traforato dal cineocchio di Rouch: Questo uso della macchina da presa non sarebbe tuttavia sufficiente a giustificare l’originalità del lavoro di ricerca di Jean Rouch, se non si tentasse di rendere anche conto del suo metodo di lavoro, un metodo che anch’io ho adottato da molto tempo. Può darsi che tutto ciò sia stato influenzato dall’uso della macchina da presa e dalla necessità di proiettare i film, prima e durante il montaggio, alla gente che ha filmato. Il suo “metodo delle approssimazioni successive” richiede soggiorni frequenti e ripetuti, nel corso dei quali si riflette collettivamente, si discute, si progettano nuove riprese; tutto ciò, in realtà, è reso possibile soltanto da una straordinaria fedeltà a una stessa zona, alle persone e agli eventuali rituali, religiosi e sociali. Un modo di non essere mai assenti da quel mondo di miti e di realtà di cui Jean Rouch non ha smesso di registrare, anno dopo anno, la cronaca. Ma tutto ciò oltrepassa l’ambito della realizzazione cinematografica.87 Del resto la franchezza con cui Rouch assume la sua posizione, e da essa distingue la sua presenza nel campo antropologico, è assolutamente netta, non suscettibile di fraintendimenti: nelle sue contraddizioni, nel pathos di ricerca, dove l’idea stessa di rigore è stressata e sfibrata dalla pratica etica di campo, dalla percezione storica di questa pratica nella differenza e come differenza – il noi-loro – Rouch si avvale sempre della facoltà di parresia, come nel convegno del CNRS sulla nozione di persona nell’Africa nera dove, in uno splendido intervento sulla possessione, imponendosi di riflettere sulla liminalità stessa delle sua azione di presenza, sui trespassing di questa azione, Rouch si definisce così, attraverso l’uso di termini postscientitifici, radicalmente soggettivi, drammaticamente non cartesiani: In ogni istante, nell’elaborazione di un film di cinéma-direct, si manifesta una cineattitudine. Diversamente dai film di finzione elaborati da uno script, il cinema diretto deve esser sempre pronto a coglier le immagini e i suoni più significativi. Per riprendere i termini di Vertov, quando filmo “cine-vedo”, nella consapevolezza dei limiti della macchina da presa; “cine-ascolto”, nella consapevolezza dei limiti del microfono e del registratore; mi “cine-muovo”, alla ricerca dell’angolo migliore da cui produrre il movimento migliore della camera; “cine-monto”, all’interno del tournage pensando alle riprese in rapporto le une alle altre; insomma io “cinepenso”.88 Cine-pensare significa immaginare per immagini, procedere dentro un’ipotesi la cui radicalità è evidente; il modello non è l’atlante per immagini di Balinese Character, non è il

modello gestaltista, né una forma di analisi filmica geselliana: il modello nasce da una pratica di tipo simbolico-retorica,89 di derivazione surrealista, certamente, ma intrinsecamente storica. Il cinema dell’altro di Rouch produce domande sui regimi storici dello sguardo etnicizzante, come sul regime etnicizzato dello sguardo storico: la sua etnografia partecipata è una metaetnografia di tipo storico, la cui risoluzione critica, nella postmodernità, può essere soltanto parziale: Possiamo dunque definire Rouch come un vero e proprio precursore di quasi tutte le questioni affidate di recente nell’antropologia americana postmoderna: non solo per le ragioni che abbiamo elencato, ma anche per la sua salda convinzione che l’antropologia non consista tanto nella produzione di grandi teorie intellettualistiche, restando avulsa dalla società che descrive, quanto un’esperienza di dialogo ed eventualmente di dissenso “attraverso” diversi segmenti sociali.90 La radicale soggettività esibita e partecipata nella forma del cinema, radicalità visibile, comporta rischi e prevede ostracismi intellettuali, produce poi, per chi abita ed elabora i bordi e i confini di pratiche disciplinari e non, un surplus di incomprensioni, abili misunderstanding, occhiuti giudizi, annunciati ora in nome del cinema, ora in nome dell’antropologia, come nella posizione di Lévi-Strauss nell’intervista del 1964, prodotta comunque a partire da un attestato di stima e di amicizia, e obiettivamente oscillante tra due contestabili modalità di approccio, nel tentativo di canonizzare attraverso una logica dei distinti il cinema come spettacolo e l’etnologia come scienza. Nella convinzione, nella credenza, di poter ricostituire i margini del discorso ponendosi fuori dal discorso stesso, come tra Ottocento e Novecento, quando la logica stessa sembrava, da Frege in avanti, poter dare fondamento alla matematica, ovvero alla lingua della natura e quindi di Dio, in extensa. Rouch, più modestamente, presume di attraversare il mondo con le immagini, di attraversare queste nell’occhio della vita, dove il metodo si fa metodi, e dove, come in filosofia, ritornando a Wittgenstein, ci possono forse essere differenti terapie. Lo specchio africano, persino nel conflitto e nella diffidenza di molti registi nativi verso il suo lavoro91 rimandava immagini di un pensiero altro e dell’altro con cui Rouch ha negoziato, via via, in nome del frame come forma del mondo, della potenza della macchina da presa, della possibilità di addomesticarla ma anche di fondersi con essa: Ma c’è un’altra “chiave” per capire il suo lavoro creativo. Rouch, come Flaherty, l’altro suo “antenato totemico”, crede nel potere che ha la macchina da presa di vedere, oltre le possibilità dell’occhio umano, le qualità interne degli esseri e delle cose. Ed è in questo senso che impiega il termine “magia” per descrivere la sua operazione alchemica.92

6.6. Rouch avec Rouch

Nel 1979 Rouch scrive un testo, La camera et les hommes, pubblicato in un volume dal titolo Pour une anthropologie visuelle, per la cura di Claudine de France.93 Il testo si presta a una lettura trasversale, a un attraversamento volto a recuperare una genealogia culturale in cui Rouch si inscrive, in cui ricostruisce la sua presenza nel cinema internazionale e nell’antropologia, ricostituendo una sorta di lignaggio, da una parte, e affermandosi come bricoleur assoluto dall’altra. Dziga Vertov è oggetto immediato di una citazione dal suo principale manifesto: Per Dziga Vertov, nello stesso periodo, si tratta di filmare la rivoluzione. Ora non conta più la messa in scena, anche selvaggia, ma la registrazione dei blocchi di realtà. E il poeta, divenuto militante, rendendosi conto dell’arcaismo della struttura cinematografica dei cinegiornali, inventa il kinok, il “cine-occhio”: “Io sono il cine-occhio, io sono l’occhio meccanico, io sono la mobilità umana. Sono in perpetuo movimento. Mi avvicino alle cose, me ne allontano, scivolo sotto di loro, mi muovo accanto al muso del cavallo da corsa, fendo velocemente la folla, prendo la testa dei soldati all’assalto, decollo con gli aeroplani, cado e mi rialzo come i corpi che cadono e si rialzano.”94 Ecco la genealogia principale, la teoria del cineocchio, ridotta qui a pratica straordinaria e unica della ripresa, alla scelta di embodiment culturale con la macchina da presa. Il montaggio, la ricerca formale di un nuovo ordine nel mondo equivalente linguistico del nuovo ordine comunista, il progetto vertoviano di una scrittura meccanica dell’esistente, tutto ciò è espunto. Rouch usa Vertov, ne assume alcuni elementi, ne rifiuta le conseguenze, le implicazioni successive, in termini di ordini della rappresentazione e di azione estetica sul reale. Ma è il secondo frammento proposto che ci aiuta a definire l’essenza estetica di una pratica della camera in movimento, di una pratica corporeal di cinema, di una via esemplare del camminare come premessa del filmare: Alcuni registi continuano tuttavia ad utilizzare i cavalletti, senza dubbio sempre per rigore tecnico. L’immobilità della macchina da presa sembra allora compensata dal frequente utilizzo di obiettivi a focale variabile (zoom) che permettono un effetto ottico di carrello. In effetti questi espedienti non riescono a far dimenticare la rigidità della macchina che, allontanandosi o avvicinandosi artificialmente, continua a mantenere un unico punto di vista. E nonostante l’evidente capacità di seduzione di questi disinvolti balletti, bisogna ammettere che questi spostamenti ottici non avvicinano la macchina agli uomini filmati, e che l’occhio-zoom resta piuttosto simile a quello del voyeur che guarda, soffermandosi sui dettagli, dal suo lontano punto di osservazione.95 Il cineasta Rouch non è un voyeur protetto da una posizione, dall’essere in una posizione data. Non è la posizione a produrre l’immagine giusta, ma la presenza della camera ad attivare la via etica ed estetica di una rappresentazione all’altezza dell’altro, nel segno dello spazio e dell’uomo, tra ecologia ed etnologia, tra moralità delle condizioni – la datità sorprendente del mondo – e moralità delle convinzioni come forma estrema di dialogo

attraverso la protesi ottica: L’arroganza involontaria di riprese del genere, non solo viene percepita a posteriori dallo spettatore attento, ma ancora di più dagli uomini che vengono filmati. Per me, dunque, la sola maniera di filmare, è quella di camminare con la macchina da presa, di portarla dove è più efficace, e di improvvisare con lei una specie di balletto in cui la macchina diventa viva come gli uomini che riprende. Questa è la prima sintesi tra le teorie vertoviane del “cine-occhio” e l’esperienza della “cinepresa partecipante” di Flaherty. Un’improvvisazione dinamica che paragono sovente all’improvvisazione del torero davanti al toro, perché anche qui nulla è deciso in anticipo, e la morbidezza di una falena non è affatto diversa dall’armonia di un carrello a mano in perfetta sintonia con il movimento degli uomini filmati.96 Ed ecco precisarsi, magnificamente, un punto di vista: la ripresa elegante e ferma, la ripresa col cavalletto, è la ripresa arrogante, monocratica, di chi non dialoga, di chi si vuol far occhio ma non sguardo. Alla monologia di quest’occhio, alla sua autorità etnografica e cinematografica, Rouch contrappone una sorta di danza che crea. Un’improvvisazione dinamica, che egli paragona alla pratica del toreare, con un evidente refrain dal testo di Leiris Specchio della Tauromachia. Nella ricerca qui di un’armonia in forma di movimento, mimesi corporea tra soggetto che filma e soggetto filmato, lungo gli assi di un avvicinamento e di una distanza come pura soglia della rappresentazione: liminalità congiuntiva, nelle parole di Turner. Com’è lontano l’eco dello scambio Bateson-Mead sul tema apparentemente così arido e banale dell’uso del cavalletto nelle riprese di field. Come invece risuona qui il senso di Rouch verso uno spazio di cui il cineasta è artefice e protagonista: la finestra sul mondo, la trasparenza del testo, la finestra sui mondi altri non si dà. Sulla scena l’antropologo, come il cineasta, partecipano comunque con la loro presenza, perturbano il mondo; essi devono decidere se accogliere ciò che vedono e vivono come perturbazione, come spazio ulteriore di possibilità. Rouch muta i termini del discorso: induce l’antropologia a reinventare la nozione di campo, come nota la Dieterlen, induce il cinema a reinventare la nozione di set.

6.6.1. Montaggio, altre vocazioni, altre bio-grafie Che cosa è il montaggio per Rouch? Quali forme assume, quali intenzioni traccia? E soprattutto come performa il lavoro stesso del cineasta-etnografo, come lo orienta e conduce tra filmati, soggetti, luoghi della diversità? Il cineasta operatore del cinema diretto è anche il suo primo spettatore nel mirino della macchina da presa. Qualsiasi improvvisazione gestuale (movimenti, inquadrature, durata delle sequenze) determina un montaggio già al momento delle riprese; e ancora ritroviamo la concezione di Vertov: il “cine-occhio” è: “io monto quando scelgo il mio soggetto (tra le migliaia di soggetti possibili). Io monto quando osservo (filmo) il mio soggetto (determinare la scelta utile tra mille

osservazioni possibili)” (ABC dei Kinoki).97 La questione del montaggio è una questione centrale e spinosa nella pratica di cinema e nelle pratiche di cinema etnografico. Rouch sceglie di operare in modalità antinomica rispetto al modello Mead-Bateson, alla scelta inflattiva di migliaia di fotografie e migliaia di metri di pellicola nella contezza di procurarsi, nell’uso di long shot, lo spazio ulteriore di una restituzione come ri-montaggio, di una restituzione come analisi infinita del materiale e sua infinita possibile manipolazione, mappa dell’impero 1:1, malgrado Korzybski. La scelta di Rouch, lontanissima anche dal suo ancestor qui citato, Vertov, immagina l’occhio come prima moviola, il montaggio in macchina come pratica essenziale sul piano etico come estetico: E in effetti, questo lavoro sul campo costituisce la specificità del percorso del cineasta-etnografo, perché, invece di redigere le sue note al ritorno, è obbligato, pensa lo scacco, a ampliarlo o restringerlo, in presenza dei fatti. Ora non si tratta più di sceneggiatura scritta in anticipo, e neanche di far determinare dalla macchina un ordine delle sequenze, ma di un gioco ben più rischioso, dove ogni sequenza è determinata da quella precedente e determina la successiva.98 La pratica filmica così immaginata, pratica da bricoleur, ricade evidentemente sulla dimensione della ricerca di campo, produce una sorta di empirismo assoluto, almeno in apparenza; in realtà manifesta la necessità di lavorare continuamente sull’alea, sulla pratica dell’emergenza, sull’orizzonte di evento come orizzonte relativo dell’unico: il rito, il volto, il gesto. Prassi del rischio e dell’improvvisazione organizzata come frutto di una condivisione delle premesse, di un’adesione dialogica al tempo filmico da parte di chi è dinanzi alla camera, come di chi, occhio, filma facendosi sguardo: Sarebbe comunque interessante studiare lo stile dei commenti nei film etnografici dopo gli anni trenta, per vedere come sono passati dal barocco coloniale all’esotismo avventuroso, poi alle secche valutazioni scientifiche e di recente, sia alla distanza piena di pudore di antropologi che non vogliono confessare la loro passione per la gente che studiano, sia al discorso ideologico, in cui il cineasta esporta verso l’altro la rivolta che non ha potuto esprimere a casa sua.99 La scelta volutamente ironica di Rouch risulta qui particolarmente vivace, indicativa di uno stile. L’apparente nota da studioso, da storico del cinema etnografico, che tuttavia Rouch è stato,100 dissimula una prospettiva genealogica e diacronica di interpretazione etnostorica del passato della disciplina antropologica e dell’uso storico delle immagini. La retorica delle immagini tronfie e barocche è assimilata, con un coup de théatre, alla retorica della pratica scientifica, in quanto estranea all’ideologia. Obiettivo polemico di Rouch è la contemporaneità, la dinamica disciplinare tesa a produrre, di volta in volta, la vita dell’altro come opportunità, specchio utile per il proprio disagio o per un salvage in nome del buon senso. Ma è la dichiarazione successiva a stracciare ulteriormente il velo ipocrita della discussione sulla liceità o meno delle immagini, sul loro buono o cattivo uso:

La frequentazione delle sale cinematografiche, l’uso intempestivo dei mezzi audiovisivi, avrebbero dunque fatto di noi dei kinoki alla Vertov, dei “cine-occhi” come c’erano un tempo delle “mani da penna” (Rimbaud) che non potevano impedirsi di scrivere? Ma se il cine-voyeur della sua stessa società potrà sempre trovare il modo di giustificarsi di questo particolare militantismo, quali ragioni possiamo trovare, noi antropologi, per gli sguardi che gettiamo dall’altra parte del muro, sull’altro? In questo processo, senza dubbio, gli antropologi sono tutti chiamati a rispondere, ma un libro o un articolo non verranno mai messi in discussione come un film antropologico. E qui sta forse la mia seconda risposta: il film è l’unico mezzo di cui dispongo per mostrare all’altro come io lo vedo. In altri termini, per me, il mio pubblico è in primo luogo (dopo il piacere della “cine-transe” in fase di ripresa e montaggio) l’altro, colui che io stesso filmo.101 Nella coscienza che le immagini sono il terreno più semplice da condividere, Rouch in realtà provoca direttamente lo statuto della tradizione scritta, il suo sistema di poteri, la potenza della ragione grafica e tipografica, come direbbe Goody. Sono in gioco le ragioni che legittimano l’impresa visiva, il suo storico e complicato duellare con le ragioni della scrittura, i saperi dello sguardo che presiedono, nelle storicità dei modi di rappresentazione, alla restituzione densa e intensa dell’esperienza o alla sua risoluzione esotica ed estetizzante. La memoria collettiva come asse testuale, e la materia delle scritture come immagini che le antropologie della memoria individuano nel faticoso ritrarsi della dimensione etnocentrica dell’idea di ragione: questi sono i temi sul cui bordo l’antropologia visuale e le teorie dei media visuali sono portati a convergere in forma di interrogazioni. L’ambito storico del gaze e la produzione di senso e sapere nei modi del cinema e della fotografia, le forme delle intenzioni, nei termini di Baxandall,102 che spiegazione e comprensione delle immagini celano o manifestano nelle forme specifiche, sui supporti e nella circolarità del tempo in cui si trovano a essere prodotte e interpretate, usate e abusate. Nei luoghi deputati al consumo e allo studio, come nelle zone di contatto e ibridazione, Rouch sottrae l’antropologia visiva allo spettacolo, pur facendo cinema, e la sottrae all’ipotesi scientifica pura della ripresentazione meccanica e ottica dell’evento. La soggettività come soglia ineludibile, intensifica paradossalmente la sua potenza grazie alla pratica visiva, ma la condivisione della pratica stessa produce, nuovamente, il controdono del punto di vista altro, la sua possibile esternazione. Tra posizione e presenza, la logica delle approssimazioni successive di Rouch, muta il sistema delle determinazioni. Il film impegna la disciplina alla visibilità: la cui decifrazione non è data, ma il cui accesso può darsi, persino nelle scorciatoie della sensibilità mimetica. La successiva dichiarazione diventa ancora più impegnativa in questo senso: La posizione diventa perciò assai più chiara: l’antropologo può ormai disporre dell’unico strumento, la “cinepresa partecipante”, capace di offrire una possibilità straordinaria di comunicazione con il gruppo studiato: il film che ha realizzato su di lui. […] L’informazione a posteriori sul film è solo agli inizi, ma introduce già tra l’antropologo e il gruppo studiato relazioni completamente nuove, prima tappa di quella che alcuni di noi cominciano a chiamare l’“antropologia condivisa”.

Infatti l’osservatore esce dalla sua torre d’avorio; la sua macchina, il registratore, il proiettore lo hanno condotto per uno strano itinerario iniziatico al cuore della conoscenza e, per la prima volta, può essere giudicato sul posto, dagli stessi uomini che è venuto a osservare.103 Da cui deriva l’apertura al giudizio, l’offerta conseguente della propria pratica al giudizio, la ristrutturazione storica di un piano delle relazioni, di abitudini teoriche, attitudini estetiche, nel segno di una ridefinizione certo parziale dei rapporti di potere, del dispositivo storico dell’antropologia, come del cinema, nella sfida e nel rischio non di uno sguardo muto, ma di una presa di posizione. Nell’emergenza del giudizio, come del pregiudizio ovviamente, l’asimmetria muta qualità, gli asset morali si fanno meno sostenibili, l’emico come l’etico trovano un più duro terreno di confronto, una rappresentazione immensamente complessa e polisemica, l’immagine comunque condivisibile nei suoi diversi livelli. Nel tentativo di formulare nuove strategie di documentazione, di eludere la rappresentazione, congedarsi da essa, accogliere la finzione come necessaria, per metterla in luce come progetto di evocazione narrativa condivisa e situata. Ritorno al racconto. E all’ascolto come fonte del racconto, in un terreno dove frammenti di vite e ragioni si addensano e fanno il vuoto sulla soglia del profilmico. La tecnica straordinaria del feedback (che tradurrei come “contro-dono audiovisivo”) non ha certamente ancora svelato tutte le sue possibilità, ma grazie ad essa l’antropologo non è già più un entomologo che osserva l’altro come un insetto (e dunque lo nega), ma uno stimolatore di reciproca conoscenza (e dunque di dignità). Ma sarebbe ovviamente assurdo condannare il cinema etnografico a questo circuito chiuso di informazioni audiovisive.104 Il controdono: definire il feedback come un controdono, ritrovare Mauss e anche Bataille nella figura del feedback: una diversa circolarità di beni immateriali, le immagini di altri come le nostre, fatte oggetto di scambio e visione condivisa, segno di una pratica di conoscenza e riconoscenza reciproca. Ecco la via degna della relazione, la dimensione morale del field, nell’espressione di Geertz. E, in chiusura, la messa a distanza comunque di questo circuito come risoluzione semplice di un rapporto plurale delle immagini coi molti, con altri, nel riconoscere persino il rischio antropologico di una circolarità semplice del noi, tra soggetto e soggetti, tra informatori e mondi accademici, nella natura ad anello di queste posture disciplinari, da cui l’immagine fuoriesce nel rischio del cinema, al di qua dello spettacolo. Per concludere, poi, in forma profetica: E domani? Domani sarà il tempo del video a colori autonomo, del montaggio magnetico, della restituzione istantanea dell’immagine registrata, cioè del sogno congiunto di Vertov e Flaherty, di un “cine-occhio-orecchio-meccanico” e di una macchina da presa talmente “partecipante” che passerà automaticamente dalle mani di coloro che fino ad oggi le stavano davanti. Allora l’antropologo non avrà più il monopolio dell’osservazione, sarà lui stesso ad essere osservato, registrato, lui e la sua cultura. Così il film etnografico ci auiterà a “condividere”

l’antropologia.105 Avvenire del video, preconizzato e vissuto nei suoi ultimi anni, avvenire di una possibilità semplice di essere finalmente osservato oltre che osservatore, nel venire meno di una sovranità, fosse anche sovranità dialogica, come accade d’altronde alla riflessione etnopsichiatrica e psichiatrica, alla struttura stessa del dialogo clinico.106 L’utopia visiva di Rouch sembra tradursi in una circolarità finalmente anarchica della vista meccanica, in un sistema a rete che moltiplichi davvero fuochi e viste, capace di produrre uno stato di non equilibrio, un’azione collettiva come una sorta di struttura dissipativa dove uno stato di entropia locale sia in grado di produrre la temporalità di un ordine. Dove la nozione storica del realismo etnografico – la natura autorevole di una sovranità fatta sguardo ed esaltata dalle protesi analogiche possibili – si destruttura nello spazio della produzione di relazione, nella denuncia e nella critica della commodification dei beni immateriali, qui delle rappresentazioni visive, dal film alle foto, sino al displaying museale. Ritornando al testo, alla sua storicità, ciò che si evince, è, più semplicemente, l’auspicio di una pratica di sguardi capace di produrre un senso condiviso nella pratica disciplinare chiamata antropologia. Far emergere l’etnicità degli sguardi e accogliere una possibile contro storia degli esiti formali di questi, non solo nella forma della riflessione postcoloniale, come nella pratica degli indigenous media, ma anche nella ripresa estrema e radicale di una riflessione sulla cogenza tecnica e ideologica dei mezzi di produzione. Nella posizione di oltrepassare intanto la condivisione semplice di immagini nella coproduzione di queste. Come forse comincia ad attestare, sempre più, la produzione di immagini a mezzo di immagini. Rouch indicava i mezzi, e, anche, i fini. L’attualità del web, delle pratiche di mesh up come di bricolage, consente oggi, al pensiero selvaggio, una chance di riscatto. L’hic sunt leones del testo e della verità delle restituzioni sono come una faglia di senso perennemente attiva e perennemente sollecitata dalle diverse forme di appropriazione e conoscenza. La questione della realtà e del reale si produce oggi nella forma e nei modi di una ricontestualizzazione dell’idea stessa di realismo imposta e prodotta dal mondo delle immagini nell’epoca della riproducibilità tecnica come delle tecniche di producibilità. E dalle condizioni delle soggettività, come delle istituzioni che operano e si adoperano nella circolarità di esse, autorizzando e definendo interpretazioni, indici di verità, regimi indiziari.107

NOTE 1 J. Rouch in Farassino 1991, p. 123.

2 Sulle pratiche di registrazione del movimento e l’uso di fotografia e cinema nella ricerca di

campo cfr. Mauss 2002, p. 35 e pp. 51 ss.; su cinema ed esotismo vedi il testo classico di Leprohon 1945, e, soprattutto, per una revisione storico critica della tradizione esotica francese e della sua influenza su Griaule, Piault 1995, pp. 11-22. Dello stesso autore si veda anche Piault 2000. 3 Dichiarazione di J. Rouch, in AA.VV. 2010, pp. 38 e 100. 4 J. Rouch in Farassino 1991, p. 123. Cfr. Scheinfegel 2008, pp. 44-47, e Henley 2009, p. 177. 5 Rouch 1992. 6 J. Rouch in Farassino 1991, p. 123. 7 Geertz 1973 (tr. it., pp. 9-43). Per una reinterpretazione di Geertz nell’ambito della teoria del cinema etnografico vedi Nichols 1994 e Ruby 2000, pp. 239-265. 8 Geertz 2000 (tr. it., pp. 51-52) e Fabian 1983, pp. 118-122. 9 J. Rouch in Farassino 1991, pp. 123-124. 10 Vedi Aprà 1986. 11 J. Rouch, in Farassino 1991, p. 125. 12 Mauss 2002, p. 35. 13 A. Gheerbrant in Rouch 2008, pp. 9-10.

14 “‘Ça, c’est l’affaire de ma grand-mère’. Au quartier Gawé, Kalia, sa merveilleuse grand-

mère, ramassa un vase hampi, une hache à clochettes de fer et envoya chercher ses musiciens et ses ‘chevaux’ de génie. Tout cela semblait vraiment évident. On partit en camion gazogène de l’autre côté du fleuve au petit hameau de Gawey où Pagnouf avait établi son campement. C’était un horrible spectacle. Sur le sol gisaient une dizaine de cadavres à côté des débris calcinés d’une paillote. Kalia commença à réciter les devises de Dongo, le génie du tonnerre, puis très calmement elle but et cracha du lait sur les corps calcinés et les frotta doucement. Son violoniste jouait sans relâche les airs de Dongo et de ses frères, les fils d’Harakoy, le génie de l’eau. Après cette purification, Kalia autorisa les manœuvres à enterrer les cadavres des foudroyés. Mais il fallait maintenant questionner Dongo, le génie du tonnerre lui-même: et j’assistai dans ce décor terrifiant à l’un des plus extraordinaires rituels de possession. Kalja, tenant l’hache à clochette de fer, récitait les des grands génies du ciel, accompagnée par le violoniste et les batteurs de calebasse. Très vite, une femme et plusieurs hommes furent possédés; je reconnus Dongo, qui revêtit un boubou noir, et Kirey, la foudre, qu’on habille de rouge. Ils s’assirent sur un mortier retourné, et parlèrent de cette voix lointaine que je reconnaîtrais toujours dorénavant. Damouré me traduisait ce que disaient Dongo et son frère, entrecoupés de hurlement terribles. Très simplement, j’étais le responsable, car j’avais tracé ma route sur un ‘chemin de Dongo’” (Rouch 1995, pp. 416-431). 15 Vedi intervista e dichiarazioni di Rouch in Au pays de mages noirs, Kinofilm, Paris, 2006, edizione in DVD della versione commentata dall’autore, e realizzata da Dominique Dubosc nel 1991. 16 AA.VV. 2010, pp. 32-35. 17 M. Hilton-Simpson - J. Haeseler, An Unknown Race, 1925, 36. Cfr. anche Hilton-Simpson 1921. 18 Jakobson 1976, vedi anche l’introduzione di C. Lévi-Strauss. 19 Segalen 1907, ora in Segalen 1995, pp. 551-567. 20 Rouch 2008. 21 Rouch 1954 e Rouch 2005. 22 Artaud 1949, p. 66. Cfr. Stoller 1992, pp. 50-57. 23 Rouch 2008. 24 J. Rouch, in AA.VV. 2010, p. 37. 25 Vedi Odin 2000; Gaudreault 2004; Gaudreault 2006, pp. 85-103. 26 Rouch 2008, pp. 93-98. 27 Rouch 1989, pp. 250-254. Cfr. anche J. Rouch, in AA.VV. 2010, pp. 32-35. 28 Cfr. Rouch 1989, pp. 250-254. 29 Ibid., pp. 307-309. 30 “Pour moi le cinéma, filmer, c’est comme la peinture surréaliste (Magritte, Dali): l’utilisation des procédés de reproduction plus réels, les plus photographiques, mais au service de l’irréel, de la mise en présence des éléments irrationnelles. La carte postal au service de l’imaginaire” (Rouch 1979, p. 63).

31 Rouch 2008, cfr. pp. 113-117.

32 Rouch 1989, pp. 330-338. Cfr. Henley 2009, pp. 56-62. 33 G. Dieterlen in Toffetti 1991, p. 80.

34 Piault 1995, vedi pp. 20 e 21. I due film di Griaule, 1935 e 1938, sopratutto il primo,

colpiscono in particolare dal punto di vista del sonoro, la cui marca ironica, carica di pregiudizi e stereotipi, esemplifica il registro del discorso coloniale. 35 Henley 2009, pp. 54-55.

36 “Il est évident qu’ils aident à une présentation objective des sociétés et idées qu’ils sont au

plus loin des approximations conjecturales que fournit par exemple le texte écrit, qu’il émane d’un historien, d’un témoin ou d’un ethnographe. A ce titre, ils sont utilisables dans l’établissement des archives de l’humanité, travail historique au premier chef. Un fait actuel doit être étudié avec autant de sérieux et des soin qu’un fait passé, et l’ethnographe devra avoir toujours présent à la mémoire qu’il est pour l’historien le témoin de qualité sur le quel il doit pouvoir compter sans réserves. Photographie et cinématographie employées par des chercheurs de bonne foi donnent le moyen d’établir les documents les plus indépendants et les plus impartiaux du système d’investigation ethnographique. Ils établissent le document figuré par excellence. Le document photographique est une pièce authentique, un témoin indépendant dont la valeur est la conséquence des propriétés physiques et chimiques utilisées pour sa création. L’émulsion absorbe toute l’énergie lumineuse de la scène et fournit une image totale qu’aucune mémoire ne saurait reconstituer” (Griaule 1957, pp. 81-82). 37 “Ce qui a été dit sur la photographie en général, est valable pour la cinématographie. Mais cette dernière technique aboutit à la création d’un document qui est incomparablement plus détaillé et vivant que la photographie. Il importe donc de traiter spécialement de son emploi dans la recherche. Trois idées directrices doivent présider à toute prise du vue documentaire: 1) Le film a une valeur d’archives à la quelle on se réfère comme à une fiche ou à un objet: 2) Le film constitue un moyen extrêmement efficace de enseignement pour la formation de Spécialistes se destinant à la recherche ethnographique; 3) Dans un sens plus large, il contribue à l’enseignement public et constitue dans certaines conditions un œuvre d’art. Il en résulte qu’un film ethnographique doit être un document exact se rapportant à des phénomènes originaux non reconstitués (sauf dans des cas particulier), que des bandes longues doivent être impressionnées dans le but de servir à des démonstrations techniques, que le souci de présentation, sans tenir une place prépondérante, ne doit cependant pas être oublié” (Griaule 1957, pp. 85-86). 38 “On peut considérer, sous le rapport de la difficulté d’exécution, deux aspects des phénomènes humains. Le plus simple est celui de phénomènes relativement stables se déroulant dans un espace prévu selon des modes connus, par exemple telle technique, telle cérémonie non complexe dont on connait les phases. Un autre aspect est celui de phénomènes en mouvement très complexes à déroulement peu ou pas connu. La prise de vues de techniques est relativement plus facile que toute autre. Il s’agit, dans la plupart des cas, de mouvements moins fugitifs, plus rassemblés, facilement renouvelables:

tissage, forge, poterie, pêche. Le temps pourra être choisi et, dans une certaine mesure, l’espace. Tel métier à tisser mieux éclairé, mieux disposé, mieux manipulé se prêtera à des prises de vues plus démonstratives. Les techniques laissent donc une grande marge du point de vue du temps et de l’espace. Il en est de même à un plus grand degré encore des paysages, agglomérations, habitations, aménagements du sol, et d’une manière générale de tout ce qui a peu ou point de mouvement. On établira donc une agenda des différents prises à opérer que l’on pourra répartir au long du séjour et pur lesquelles on profitera de la meilleure occasion” (Griaule 1957, p. 86). 39 “Tout autres sont les conditions de la prise du vues de phénomènes en mouvement, étant entendu que la reconstitution doit être exclue. N’est pas à considérer comme reconstitution la prise de gros plans, par exemple de costumes, d’ornements que l’on peut faire revêtir dans la suite, de tatouages que l’on peut reproduire, et que le brouhaha des mouvements populaires ou les circonstances religieuses ne permettent pas d’étudier à loisir pendant leur utilisation. La prise de vues d’une cérémonie de quelque importance doit être considérée sous l’angle du reportage. Le cas le plus difficile est celui d’un événement sur le déroulement du quel on n’a pu recueillir aucun renseignement. Il faut dans ce cas travailler au mieux et aider la chance en établissant une liaison étroite entre le cinéaste et tous les membres de l’équipe étudiant le problème. L’idéal est évidemment de doter chaque observateur d’un appareil. Au contraire, dans des cas fréquents, ils sera possible d’obtenir sur le déroulement d’un rite, d’une manifestation publique, des renseignements préliminaires qui en feront apparaitre les points importants. Toutes les remarques faites à ce sujet du point de vue de l’observation directe sont valables, pour le cinéaste. Mais il mettra un soin particulier à parcourir à l’avance les circuits remarquables, à étudier les lieux, à se faire expliquer les mouvements de scène. Il devra en un mot profiter au maximum de l’enquête préalable menée par les ethnographes. Il évitera ainsi les surprises, sera prêt en temps et lieux voulus, limitera les doubles emplois, établissant un document filmé parallèle au document écrit. Ces deux éléments auront les mêmes défauts, mais le film aura celui plus grave de ne pouvoir “boucher les trous” par une enquête ultérieure ou par une nouvelle prise de vues, les circonstances les personnages étant rarement les mêmes. De ce point de vue, tout film est un ‘unicum’” (Griaule 1957, p. 86). 40 “La cinématographie doit être employée à deux fins par l’ethnographe: d’une part elle doit être considérée comme une sorte de photographie perfectionnée qui, au lieu de donner des moments, donnerait des périodes du phénomène enregistré. A ce titre, elle aboutit à des films d’enseignements ou de démonstration. D’autre part, elle peut être envisagée comme productrice de films documentaires. On pourrait considérer d’un point de vue extrêmement puriste qu’il n’est pas nécessaire de procéder à des prises de vues cinématographiques avec l’idée de montrer plus tard un film documentaire. En effet, un tel film destiné au public est contrainte de subir certaines régles de présentation qui sont censées le rendre agréable ou simplement intéressant. Ces préoccupations doivent etre en principe étrangères à l’ethnographe. En effet, elles pourraient lui faire commettre certaines erreurs d’appréciation de l’intérêt d’une cérémonie ou d’un geste, le contourner dans le curieux et même, plus étroitement encore, dans le curieux compréhensible. On serait amené aussi à négliger des complications ou des banalités d’expression indigènes qui peuvent parfaitement se placer au centre de cérémonies. Cependant on doit tenir compte des deux points de vue” (Griaule 1957,

p. 88). 41 Régnault 1922, pp. 61-62; cfr. inoltre Régnault 1921, pp. 95-96. 42 “La présentation d’un documentaire au public donne une idée plus juste de l’objet à traiter que le film à l’état brut. C’est là, le rôle intéressant de l’art en ce domaine. Il restitue une réalité exacte. Autrement dit le détail judicieusement choisi et encadré est plus évocateur de l’atmosphère réelle que le document pur et simple avec ses longueurs inévitables qui noient l’atmosphère. Le film public peut, d’une certain manière, rendre à l’enseignement des services propres qu’on ne saurait toujours demander à la bande de démonstrations Ethnographique. En effet, la question de l’atmosphère, par exemple, si importante du point de vue des producteurs commerciaux, doit être envisagée dans l’enseignement donné aux futurs enquêteurs. Il y a donc dans le film documentaire public des qualités que l’on doit rechercher pour le film d’enseignement” (Griaule 1957, p. 88). 43 “Technique de prise de vues: La meilleure méthode pour établir des films consiste à s’associer à une firme cinématographique qui fournira le matériel et les spécialistes nécessaires. Mais il doit être entendu que le cinéaste n’aura que des initiatives techniques et que la direction du travail reviendra en entier à l’ethnographe. Il est donc nécessaire que l’ethnographe ait quelques notions de la cinématographie, des services qu’il peut en attendre et des servitudes qu’elle lui impose” (Griaule 1957, p. 89). 44 Pierre 2001. Cfr. Clifford 1988 (tr. it., pp. 73-114). 45 Henley 2009, p. 134. 46 Rouch 1954. 47 Stoller 1994, pp. 84-98. 48 Henley 2006; Marabello 2008, pp. 47-49. Cfr. anche Stoller 1992, pp. 145-160 e Grimshaw 2001, pp. 92-101. Per una lettura critica della mimicry alla luce delle riflessioni dei postcolonial studies vedi anche l’importante saggio di Ferguson 2002, pp. 555-559. 49 Henley 2009, cap. 7, pp. 101-134, vedi soprattutto pp. 126-134. Cfr. anche Naficy 2007, pp. 97-110; Brink 2007; e infine Marabello 2008, pp. 79-90. 50 “Tous les gens que je filme aujourd’hui connaissent la caméra, et savent bien ce qu’elle est capable de voir et d’entendre; ils ont assisté à des projections successives de leur film au cours du montage; au moment du tournage, ils sont ‘ciné-vus’ quand je les ‘ciné-regarde’. En fait, ils réagissent devant cet art du reflex visuel et sonore comme ils le font en face de l’art public de la possession ou de l’art privé de la magie et de la sorcellerie. On sait que Frazer, des ‘Le rameau d’or’, signala la réaction effrayée de ‘primitifs’ quand on prenait leur photographie, ce reflet dont leur âme allait peut-être partager les plus grands périls. […]. Je crois aujourd’hui, que, pour les gens filmés, la personne du cinéaste se métamorphose sous leurs yeux au cours de la prise de vue: il ne parle plus, sinon pour crier des ordres incompréhensibles (“Moteur! Coupez!”). Ils ne regarde plus que par l’intermédiaire d’un appendice étrange, ils n’écoute plus que par l’intermédiaire d’un micro-canon. Mais, paradoxalement, c’est grâce à cet attirail, à ce comportement nouveau (qui n’a rien de commun avec le comportement de la même personne quand elle ne filme pas) que le cinéaste peut coller un rituel, s’y intégrer, le suivre pas à pas: chorégraphie étrange qui, si elle est inspirée, rend le cinéaste et son adjoint, non pas invisibles mais participants à la cérémonie en cours. Ainsi, pour les Songhay-Zarma,

très habitués au cinéma, ma personne s’altère sous leurs yeux comme s’altère la personne des danseurs de possession jusqu’a la ‘ciné-transe’ de l’un filmant la transe réelle de l’autre. Cela pour moi est si vrai, que je sais, et par le contrôle de mon viseur de caméra et par les réactions des spectateurs, si la séquence est réussie ou ratée, si j’ai pu me débarrasser du poids des théories ethnologiques et cinématographiques pour retrouver la barbarie de l’invention” (Rouch 1971 pp. 541-542). 51 Deleuze 1985 (tr. it., p. 170). 52 Rouch 1956. 53 Ungar 2007, pp. 111-124; cfr. Stoller 1985, pp. 131-144. 54 Grimshaw 2007, pp. 277-286. 55 Deleuze 1985 (tr. it., p. 171).

56 “André Bazin disait un jour que les plus beau film du monde, c’était l’expédition du Kon-

Tiki, mais que ce film n’existait pas, et qu’il ne serait jamais tourné parce que tout simplement, il ne l’a pas été. En attendant India 58 de Roberto Rossellini qui nous montre pourquoi et comment un tel film est quand même possible, voilà Moi, un noir” (Godard 1959a, p. 212). “Il devine aujourd’hui que le reportage tire sa noblesse d’être, en quelque sorte une quête d’un Graal qui s’appelle mise en scène. Il y a ainsi dans Moi, un noir, quelques mouvements de grue que ne désavouerait pas Anthony Mann. Mais ce qui est beau, c’est qu’ils sont faits à la main. En résumé, en appelant son film, Moi, un noir, Jean Rouch qui est un Blanc tout comme Rimbaud, déclare, lui aussi que Je est un autre”. (ibid., p. 213) 57 Deleuze 1985 (tr. it., p. 171). 58 Godard 1959b, p. 217-219. Traduzione riveduta dall’autore in J.L. Godard, Il cinema è il cinema, a cura di A. Aprà, Milano, Garzanti, 1971, pp. 139-140. 59 Godard 1959b, pp. 219-220, tr. it., J.L. Godard, Il cinema è il cinema, pp. 139-140. 60 Scheinfeigel 2008, pp. 64-78. Cfr. Henley 2009, pp. 176-195, e Marabello 2011b, pp. 205216. 61 Rossellini 1987c, pp. 202-203. 62 Godard 1959d, p. 245. 63 Renoir 1974, p. 28; cfr. Bazin 1989, pp. 99-113. 64 “J’ai une théorie: qu’il y a des civilisations des hommes drapés et les civilisation des hommes cousus. L’homme drapé est un homme plus souple, beaucoup plus gentil, beaucoup plus tendre si vous voulez, beaucoup plus tolérant, ce qui est très important. Les cousous ils sont là, actifs, efficients” (R. Rossellini, J’ai fait un beau voyage, serie TV, III, 1957) 65 Rossellini 1987d. 66 Rossellini 1959 (tr. it., p. 184). 67 “J’allais visiter des villages avec des guides indiens et je n’arrivais jamais à établir un contact humain avec ces gens. Un jour je suis allé seul avec mon collaborateur français, Jean Herman, et tout le village nous a entouré. Il commençaient à nous poser des questions. J’ai cru comprendre qu’ils demandaient mon nom. J’ai dit Rossellini et c’était une rigolade générale, parce que en Inde le nom en -ini sont des noms féminins – après je disait toujours

Roberto, en appuyant sur le ‘o’. Puis on a commencé à me demander probablement d’où je venais. Alors je commencé à dire que j’étais italien, que je venais de la Méditerranée, l’Europe, etc… et tout d’en coup on à appelé un vieux. Ce vieillard est arrivé-il avait les yeux très rouge, je me rappelle-et il a commencé à dire des choses en faisant des efforts. Il m’appris que le Sanscrit, étant une langue indoeuropéenne, elle est très proche du latin et du grec. Alors il a commencé à dire que patri c’est pater, le père; que matri c’est mater, la mère; la jambe c’est pedi, etc. et en vingt minutes il m’avait appris une quarantaine de mots et avec le gestes – puisque je suis italien je connais le latin et donc, avec les gestes je sais m’exprimer-on avait établi une façon de communiquer” (R. Rossellini, Jai fait un beau voyage, III, 1957). 68 Tranne alcune rare osservazioni di MacDougall su Rossellini (in MacDougall 1998), e alcune pagine di Anna Grimshaw (Grimshaw 2001, pp. 71-79), sul neo​realismo e Zavattini, e poi in Grimshaw 2007, dedicate a Rouch nell’ambito del cinema italiano a lui contemporaneo, le pratiche neorealiste sembrano confinate nell’ambito del cinema tradizionale, destinate a un oblio sintomatico, anche per ragioni di tradizione anglosassone degli studi e di scarsa reperibilità in lingua inglese di testi e film. 69 Sen 2005. 70 Nel corso delle giornate seminariali su Rossellini organizzate da Adriano Aprà, nell’ambito della Mostra cinematografica internazionale di Pesaro del 1987, Enrico Fulchignoni lesse due lettere a lui indirizzate da Rossellini nel corso del viaggio indiano, lettere commentate poi da Gian Piero Brunetta e dai presenti, tra cui Aprà, Alberto Farassino, Tatti Sanguineti, e da chi scrive nel corso del dibattito. 71 Marabello 2011a, pp. 103-127; cfr. Caminati, 2007. 72 R. Rossellini a J.L. Godard, in Godard 1959c, pp. 227-228. 73 “A cooperative evolved text consisting of fragments of discourse intended to evoke in the minds of both reader and writer an emergent fantasy of a possible world of common sense of reality, and thus to provoke an aesthetic integration that will have a theraupetic effect” (Tyler 1986. p. 125). 74 Kilani 1995. 75 Marabello 2008, pp. 82-83. 76 Rossellini 1987b (tr. it., p. 174). 77 “Pendant le tournage de la scène du singe, il avait fait amitié avec Ramu, le singe. Le singe Ramu, macaque est par nature un animal amical et curieux et quand il est apprivoisé il devient un vrai animal domestique et affectueux. L’idée d’avoir un singe apprivoisé avait séduit Roberto et il imaginait d’en faire un cadeau fantastique à ses trois enfants Robin, Isa et Dindi, et décida d’emporter Ramu à Rome. Au début, le propriétaire ne voulait pas se séparer de son singe dressé, de son compagnon qui était la source de ses revenus, mais Roberto lui offrit une large somme et l’homme, malgré son chagrin, changea d’avis. L’épisode dans le film a été tourné près de Bombay et Roberto habitait Bombay dans un appartement complètement meublé même avec des servants. Ramu était devenu le cauchemar des servantes et des garçons. Le singe bougeait sans cesse et était insupportable, il n’animait pas du tout l’entourage qui ne lui était pas familier ni les étrangers autour de lui. Certainement son maître lui manquait. Ramu était habitué à une vie nomade en plein-air, allant des villages en

villages. La terrace d’un appartement au Malabar Hill, zone très à la mode de Bombay, ne pouvait être qu’une prison et fit de Ramu un singe malheureux. Roberto décida de l’envoyer a M.me Giuliana Combi, directrice de l’hôtel Swiss à Dehli. L’hôtel Swiss avait un grand jardin avec beaucoup d’arbres at finalement de là Ramu aurait pu être envoyé en Europe. Ramu fut ainsi envoyé de Bombay à Dehli. Le voyage fit accroître son manque de sécurité et son chagrin. A Delhi on le gardait à l’hôtel, lié à présent, une vie en plein air et un arbre où grimper. Rien pourtant n’apaisait la malheureuse créature. Mr. Combi, directeur de l’hôtel Maiden, chercha à travers l’hôtel Swiss à faire amitié avec Ramu, mais quand il essaya de nourrir Ramu, le singe lui mordit la main. Peu de temps après, Ramu réussit à s’enfuir et ne fut jamais retrouvé”. Sonali Sen Roy, in Aprà 1991, p. 15). 78 Rossellini 1987b (tr. it., p. 172). 79 Ibidem (tr. it., pp. 177-182). 80 Ibidem (tr. it., p. 176). 81 Ibidem (tr. it., p. 177). 82 Rossellini 1959, pp. 44-52 (tr. it., p. 185). 83 “Ne pas ‘croire’. Ne pas croire qu’on sait parce qu’on a vu; ne porter aucun jugement moral. Ne pas s’étonner. Ne pas s’emporter. Chercher à vivre dans la société indigène. Bien choisir les témoignages. Se méfier des langues franque petit-nègre, anglais, pidgin, etc. (inconvénients de l’emploi de mots tels que fétiche, tam-tam, etc.)” (Mauss 2002, p. 21). 84 Geertz 1992 (tr. it., pp. 57-80). 85 Loizos 1992, pp. 60-65. Cfr. inoltre Loizos 1993, pp. 45-64. Cfr. su questo punto Henley 2009. 86 Henley 2009, pp. 292-336, soprattutto, e al di là delle obiezioni possibili su Rouch, sulla natura cinematografica del suo lavoro etnologico, come delle adesioni talvolta acritiche, o poco puntuali di area anglosassone come mostra in parte la letteratura post mortem dedicata al cineasta francese. 87 G. Dieterlen, Ritratto sotto il segno dell’amicizia, in Toffetti 1991, p. 80. 88 “A tous les moments de l’élaboration d’un film de cinéma direct, une ‘cine-attitude’ se manifeste. Contrairement aux films de fiction préparés sur le papier, le cinéaste direct doit à tout moment être prêt à enregistrer les images et les sons les plus efficaces. Pour reprendre la terminologie de Vertov, lorsque je fais un film, je ‘ciné-vois’, en connaissant les limites de l’objectif et de la camera; je ‘ciné-entends’, en connaissant les limites du microphone et du magnétophone; je ‘ciné-bouge’ pour aller chercher l’angle ou effectuer le mouvement le plus adéquat: je ‘ciné-monte’, dans le tournage, en pensant au rapport des prises de vue les unes par rapport aux autres: en un mot, je ‘ciné-pense’” (J. Rouch, 1971, dattiloscritto fondo Bastide, p. 14). 89 Thompson 1995, pp. 263-280. 90 Asch-Taylor 1989, p. 159. 91 Haffner 1996. Cfr. Rouch 1996.

92 Fulchignoni 1991, p. 76.

93 Rouch 1979 (tr. it., pp. 41-51). 94 Ibidem (tr. it., p. 42). 95 Ibidem (tr. it., p. 47). 96 Ibidem (tr. it., p. 47). 97 Ibidem (tr. it., p. 47). 98 Ibidem (tr. it., p. 47). 99 Ibidem (tr. it., p. 49).

100 Rouch 1968, pp. 429-471.

101 Rouch 1979 (tr. it., p. 50).

102 Baxandall 1985 (tr. it., pp. 10-27 e 154-199). 103 Rouch 1979 (tr. it., pp. 50-51). 104 Ibidem (tr. it., p. 51).

105 Ibidem (tr. it., p. 51). Piault 1997.

106 De Certau 2002 (tr. it., vedi soprattutto pp. 78-97 e 209-233). 107

Casetti 2009; Casetti 2010, pp. 10-35. Cfr. L. Manovich, Software takes Draft, 2010, versione ebook, capp. 5 e 6.

7 L’IMMAGINE GLOSSA …conoscenza tramite montaggio, conoscenza delicata – come tutto ciò che concerne le immagini –, piena al tempo stesso di trappole e tesori. Essa esige tatto a ogni istante. […] Il montaggio è valido solo quando aiuta o complica la nostra apprensione della storia, non quando schematizza abusivamente. G. Didi-Huberman

7.1. Glosse, immagini, campo. L’altro: istruzioni per l’uso La costituzione dell’alterità come oggetto di analisi e osservazione comporta strategie di messa a fuoco, protocolli disciplinari, progetti di risoluzione. Modelli non necessariamente lineari o evolutivi, piuttosto pratiche di intelligenza locale, situata o addirittura olistica. L’esplosione del fotografico prima, e del cinematografico a seguire, produce una circolazione di immagini potente e originale, obbliga, di fatto, nei manuali e nelle reti di formazione, all’assunzione di metodi di lettura qualificati e qualificanti, istanze di interpretazione autentica, di esegesi. Di autenticazione. Bisogna istruirsi all’uso dell’altro, configurarlo come racconto obiettivo, immagine scientifica e parametrica, produrne una tipologia. La cifra delle immagini etnografiche si assume l’onere del vero come esito da tracciare e produrre, nel segno dell’autentico, dell’originale. Nel sistema delle immagini circolanti che tramite foto e film disegnano le pratiche di formazione come le politiche della scena esotica, la produzione tecnica di scatti e riprese sedimenta un apparato di glosse, di immagini glossa che accompagnano testi e tabelle, racconti e scienza, narrazioni e iscrizioni. Immagini glossa di gesti e di totali, di atti quotidiani esibiti in quanto autentici e di riti addomesticati come exempla. Registrare attività di intreccio di canestri o di pratiche di caccia e pesca, o esercizi di previsione magica, significa produrre un atlante di immagini capaci di restituire, per sineddoche, mondi da frammenti, universali da eventi semplici e tuttavia non singolari. Di discorsivizzare la lingua altrui nel codice della propria, di proporre lo statuto dell’alterità come visibilità, come possibilità di messa in luce dell’altro nella forma dell’osservazione, nella potenza della registrazione. Tuttavia, nel processo di formazione delle immagini dell’alterità, ancora più radicalmente di quanto non accada con parole e oggetti, il contesto si fa matrice di senso e significato: i testi cercano co-testi, i testi si tracciano e si formano nei contesti. Rivedere oggi i materiali visivi etnografici della prima metà del Novecento significa assumerne la potenza e l’ambiguità, la storicità disciplinare e l’interferenza dello spettacolo e del mondo, il rumore di fondo dei media – delle procedure narrative, di displaying della

medialità – di cui le immagini si addobbano nel proiettarsi come destinazione d’uso plurale e plurivoca. Le immagini etnografiche non vivono infatti in un super dizionario, in un archivio di tracce, e neppure nei folder rassicuranti dei classificatori. Zone di contatto, esse si producono come glosse, attestano e contestano descrizioni e iscrizioni di cui sono prodotto e azione, esito e apertura. Frammenti auspicati di logos, immagini latenti delle fratture etnocentriche di questo, le immagini glossa segnano le alterità accomodandole: abituano per così dire la vista, assegnano allo sguardo orizzonti di eventi, si producono come esemplari, per ritirarsi e acconciarsi rapidamente come contingenti e occasionali, nell’arco di tempo del loro uso. Nei bordi delle istituzioni disciplinari le immagini etnografiche glossano le forme di restituzione testuale, nelle monografie classiche; marcano le strategie di displaying, nelle lecture accademiche e popolari, nel circuito museale e nella pubblicistica popolare, come nella tradizione francese e americana. Si testualizzano nelle forme di restituzione fotografica e filmica del progetto Bateson e Mead, dove alimentano una paradossale e cruciale produzione di immagini a mezzo di immagini, distribuendosi nel tempo, nei modi di una matrice locale – Bali – e di una metodologia globale – l’analisi filmica e fotografica, riassunta come matrice e diagramma al tempo stesso, algoritmo della visibilità, traiettoria ipertestuale: film che rimandano a testi dove le fotografie interferiscono e si costituiscono, intersemioticamente, insieme con le restituzioni verbali e filmiche, formando, così, paradigmi cognitivi e pragmatici. L’ecosistema così prodotto definisce la sua geografia. Così agli orli e ai bordi disciplinari, sistemi di immagini circolano e diffondono l’alterità nelle forme del pittoresco e dell’esotico, nel circuito mediatico e giornalistico, nelle logiche e nelle forme di enunciazione spettacolare, tra cinema e film, tra racconti fotografici popolari dell’alterità e forme grafiche e artistiche di restituzione di questa. Mentre l’oceano delle immagini mercantili, del negozio di curiosità e felicità promessa cui il cinema attende, struttura la globalizzazione di flussi e correnti di consumo di immagini movimento, nell’isola disciplinare della ricerca etnologica le immagini glossa sussumono il progetto di formazione dello sguardo etnografico, l’istituzione delle condizioni di pertinenza e competenza di esso. Tuttavia, il compito cui queste immagini attendono si rivelerà complesso, debitorio comunque nei confronti delle forme di consumo spettacolare, incline a ovvie e necessarie strategie di compromesso. Si costituirà piuttosto – si costituisce piuttosto – come un terreno di negoziazione tra discipline e mondi, tra metodi e finzioni condivise, definendo di volta in volta le condizioni modali, predicandosi nella sfera della prescrizione, del far fare alle immagini il lavoro della registrazione e produzione di eventi, così come quello della tradizione di senso e disciplina di atti, nel segno di una fattitività. Questa si enuncia come la costruzione di competenze, il training di sguardi e di forme di restituzione visiva nel segno del film, in concorrenze e co-occorrenza coi mezzi di registrazione – le cineprese e le macchine fotografiche – alla luce del montaggio o del ritocco. Alla luce della destinazione del visto e del prodotto. Dell’esitazione pubblica, come già avvertivano Boas e Griaule, riflettendo sull’audience di musei e film, delle politiche e dei regimi del displaying, della dimensione performativa come frutto delle condizioni possibili di enunciazione e competenza modale di una platea. Le immagini glossa, nella loro circolazione, assumono così una sorta di funzione fàtica, operano come produttrici di immagini a mezzo di immagini, configurano se stesse come una chiacchiera comunitaria, disegnando e dispiegando una rete latamente iconica e veridittiva, capace di mantenere la coesione disciplinare in senso accademico-tribale, di produrre una agency. Destinandosi, di volta in volta, alla produzione e

all’interpretazione delle immagini alla luce dell’iconicità dei segni, o come effetto veridittivo di connotazione proprio della cultura data, in cui si opera e agisce, così da poter giudicare alcuni segni come più reali di altri, alcune immagini come più vere di altre, o di cogliere addirittura realia nelle immagini stesse; di declinare, infine, grazie alle immagini condivise, un’agenzia e un’agenda di pertinenze, di sguardi competenti, nella formazione di una comunità convergente. Perché se le immagini si aprono e chiudono su di noi e intorno a noi, ma anche grazie a noi, come ha scritto Didi-Huberman,1 tuttavia, a differenza di quelle evocate dallo studioso francese, nel segno di un’antropologia delle immagini di ispirazione warburghiana, le immagini antropologiche qui convocate non suscitano un’esperienza interiore, lavorano piuttosto alla costruzione di un’esperienza pubblica, di una disciplina dell’esteriorità, di una pratica di lettura orientata, autorizzata.

7.2. Apologo disciplinare: sull’uso delle foto nella storia dell’antropologia, sulla fotostoria dell’antropologia Nel 1995 George Stocking Jr., pubblica After Tylor: British Social Anthropology, 1888-1951, un’importante ricostruzione della storia dell’antropologia sociale britannica e dei suoi metodi di ricerca, in un volume dove gli interessi e gli studi dedicati alla tradizione anglosassone da parte dello studioso americano vedono una essenziale messa a punto, editando qui materiali di corsi universitari, di lecture, di saggi già pubblicati nella monumentale History of Anthropology da lui stesso curata. Nel terzo capitolo, intitolato “From the Armachair to the Field”, Stocking dedica pagine importanti allo sviluppo di Haddon della nozione di fieldwork, al contributo di Pitt Rivers nella definizione delle metodologie di campo, alla conseguente profonda trasformazione dell’antropologia sociale in una disciplina fondata sull’etnografia. Una foto all’interno del capitolo ci presenta un uomo bianco, di alta statura, seduto a un tavolo, nella veranda di una costruzione in legno, attorniato da indigeni mentre è intento a scrivere: la didascalia ci informa che si tratta di Charles Seligman, già membro della missione di Cambridge a Torres Straits del 1898, al lavoro in Nuova Guinea, a Hula, nella penisola di Hood, sudest dell’isola, nel 1904.2 La dicitura ci informa poi che Seligman sta interrogando i nativi. Tuttavia è lì nell’atto di scrivere; l’inferenza ci fa concludere che sta annotando alcune risposte degli indigeni. In un successivo capitolo, dedicato a Malinowski, e suggestivamente intitolato “The Joseph Conrad of Anthropology”, troviamo una foto diffusamente pubblicata: c’è ancora un uomo bianco, osservato da indigeni, qui fotografato sotto una tenda, mentre scrive. La foto vede il bianco ritratto sul bordo destro: il centro dell’inquadratura mette in scena i nativi attenti al gesto del bianco. Qualcuno, sulla sinistra, guarda verso l’obiettivo.3 La didascalia ci informa che si tratta di Malinowski a Omarakana, nelle Trobreand. Siamo nel 1917, ma questa data la ricaviamo da un altro volume, Malinowski’s Kiriwina: Fieldwork Photography, 1915-1918, pubblicato nel 1998 da Michael Young, confrontando la foto con uno scatto simile, dove la stessa tenda è vuota.4 Tre anni prima, nel 1992, Stocking aveva pubblicato un libro dal titolo The Ethnographer’s Magic and Other Essays in the History of Anthropology. Nel saggio che dà il titolo al volume, le due foto usate nel 1995 si presentavano con due diverse didascalie. Seligman è sempre al lavoro nella medesima veranda e nella

medesima foto, ma la didascalia ha qui la forma di un testo del 1926 di Malinowski. O meglio, di un frammento: L’antropologo deve abbandonare la confortevole posizione della veranda […] dove è abituato a raccogliere le dichiarazioni degli informatori […] e andare invece nei villaggi.5 Il frammento di Malinowski è un indice autorevole; orienta la lettura della foto verso una diversa interpretazione, verso un campo da esplorare. Assegna alla foto un destino storico diverso. Se nel volume del 1995 Seligman è l’artefice del complesso passaggio dall’“armchair anthropology” al field, qui diventa la radice e la forma di un comportamento altezzoso, di una metodologia di lavoro superata, inevitabilmente embricata come vedremo, con la stagione coloniale. La seconda fotografia, il ritratto di Malinowski a Omarakana, è qui accompagnata da una didascalia che riprende il diario di terreno pubblicato postumo nel 19676: Un sentimento che ciò mi appartiene, è dato a me descriverle, è dato a me crearle…7 Quest’isola che non è stata scoperta da me è da me, per la prima volta, compresa artisticamente e dominata intellettualmente.8 Siamo nuovamente dinanzi alla tenda dell’etnografo, ma qui la descrizione si trasforma in evocazione: se la stessa foto, pubblicata nel 1995 suggeriva la lettura del lavoro etnografico come messa in scena del teatro della conoscenza, una foto quasi clinica, e cinica, come le iconografie che ritraevano Charcot e suoi assistenti sulla scena del teatro dei nervi alla Salpêtrière, la foto di accompagnamento al testo del 1992 si presenta in un diverso ordine di leggibilità, prodotto dalla didascalia. Il testo qui citato è il diario personale di Malinowski, i frammenti utilizzati da Stocking si riferiscono a due date diverse – il primo all’1 dicembre del 1917, il secondo al 26 marzo del 1918, informazioni riportate accanto alla foto. Da quale testo e da quale cronologia provengono i due brani? E perché giustapporli così? Nel primo brano, dell’1 dicembre del 1917, Malinowski sta per sbarcare a Kiriwina, la descrive affascinato, scatta delle foto dal battello. Nel diario registra: “Qui ho la netta sensazione di una vita rigogliosa, qui posso fermarmi e piantare la mia tenda”.9 La tenda, tuttavia, non esiste ancora, la tenda esisteva allora nella mente dell’etnologo. La tenda esiste nel volume e incontra il suo lettore, che, nella nuova fabula della didascalia costruirà il suo racconto, grazie al montaggio autorevole di Stocking, al romanzo per immagini e testi qui evocato e suggerito, nella forma della confessione, verbalizzata nel consueto presente etnografico della restituzione. Confessione rappresentata come descrizione di stati d’animo, tradotta qui in epifania locale, agnizione intellettuale. Che cosa diventa quindi la foto? Che cosa siamo invitati a osservare? Il secondo frammento, del marzo del 1918, è scritto dopo tre mesi di permanenza nell’isola. Nella stessa pagina di diario l’antropologo polacco traccia le sue impressioni, presentandole come quelle di uno “stato d’animo al di là della vita”. Il paesaggio segna quotidianamente l’esperienza dei luoghi, la tensione estetica dell’agire in quell’ambiente. L’isola descritta dalla citazione è un pantonimo che la didascalia accosta alla

pantomima del lavoro etnografico, alla promessa di immediatezza e trasparenza suggerita dalla scena del teatro tenda della scrittura, della vita-lavoro vissuta in diretta con l’esperienza dell’altro, del primitivo. Se nella pubblicazione del 1995 la foto illustrava, in forma di epitome visiva, il lavoro etnografico, nella pubblicazione precedente evoca la dimensione metafisica del lavoro intellettuale, la dimensione magica di questo lavoro. Nel volume di Young sulle foto di Kiriwina, la stessa tenda è fotografata dalla stessa posizione di ripresa, ma vuota. Senza la presenza di nativi o studiosi. Campo vuoto come matrice di possibili. In una tensione iconica profondamente diversa. Quella di una foto di campo come memoria intima, in un certo senso, di una foto senza alcuna intimità culturale con il luogo e i nativi: un frame. La cornice dell’esperienza, declinata nel codice di un tempo sospeso, nello spazio estetico di un’inquadratura, nell’intervallo, nell’indessicalità riflessiva di una traccia del sé etnografico. Foto che circolano in testi diversi, testi fotografici diversamente accompagnati e contestualizzati, didascalie diverse in grado di produrre mondi possibili in lettori esperti e meno esperti: forme di montaggio delle immagini, di uso didascalico delle immagini, come nel testo di Stocking del 1995, e di uso evocativo e simbolico nel testo di tre anni precedente. Stesse foto, diverse forme di intenzionalità nell’uso e nella destinazione d’uso: la lettura. La stessa citazione di Malinowski, usata come didascalia della foto di Seligman a Hula, attribuita come stigma, andrebbe letta nella sua interezza: L’antropologo deve abbandonare il confort della sedia a sdraio sulla veranda del compound della missione, del presidio governativo, dal bungalow tra le fioriere, dove armato di matita e taccuino, e talvolta di whisky e soda, è stato abituato a ricevere informatori, annotare storie, trascrivere testi selvaggi. Deve recarsi piuttosto nei villaggi, vedere i selvaggi al lavoro, nei giardini, sulla spiaggia nella giungla; navigare insieme a loro verso banchi di sabbia distanti, tribù straniere, osservarli nelle battute di pesca, nei commerci, nelle spedizioni cerimoniali.10 Poche righe più avanti, sempre nella stessa pagina di Myth in Primitive Psychology, Malinowski esplicita la superiorità della open air anthropology, avvertendo il lettore della difficoltà dell’impegno etnografico per un verso, sollecitandolo per l’altro a immaginarlo come qualcosa di esaltante e curioso, qualificandolo come fun, divertente. Questioni di dettaglio, di stress interpretativi, di acribia. Questioni di glosse, si direbbe, di uso delle foto come glosse accademiche e disciplinari, di uso delle foto come didascalie, per performare le didascalie trasferendo il discorso e il detto sul piano iconico. Per disciplinare sia la dimensione locutiva che illocutiva delle immagini etnologiche attraverso un uso perlocutivo delle stesse, nell’uso storico delle stesse, come abbiamo visto da Boas in avanti. Nella potenza del ritocco come forma del presente etnografico, nell’uso storico della ri-mediazione e rilocazione di queste, come matrici di senso e veridizione autorevole, come esiti di montaggi intellettuali, nel senso di Didi-Huberman.11 Anche gli storici dell’etnologia si autor-izzano, producendo nuove apparenti trasparenze, nuove ricostruzioni. La storia stessa dell’etnografia, nella sua dialettica con le immagini di terreno, è da leggere oggi come una pratica di montaggio, per verificarne le pratiche di inter-dizione e di veri-dizione, come l’uso di citazioni incomplete da cui magari rimuovere un bicchiere di whisky, indice occulto del quadro coloniale. Destinando l’immagine convocata allo stigma del testo, dopo averne

alleggerito, con eleganza, il senso originale. Riflettendo sulle forme di glosse che tracciano e accompagnano il romanzo fotografico di una scienza sociale, interrogandoci sullo statuto delle immagini, ma soprattutto sull’uso di queste. In una pragmatica della comunicazione disciplinare, da disegnare e immaginare.

7.3. Immagini, field, set e mondi come glosse La genealogia qui ricostruita si arresta alle soglie degli anni sessanta, attestandosi agli inizi dell’antropologia visiva, indicando Rouch come elemento di cerniera tra cinema e antropologia e tra cinema etnografico e antropologia visiva nascente. Iscrizione complessa ma giustificata, nel segno di una genealogia il cui fine è stato quello di evidenziare la natura complessa della relazione tra cinema e field, tra profilmico e accesso etnografico, tra negoziazione ed esiti. Come abbiamo visto, i materiali prodotti, i film innanzi tutto, manifestano l’attrazione esercitata dalle forme narrative di restituzione ma, contemporaneamente, affermano il tentativo di produrre, tra record e dati, un’ipotesi di scienza per immagini nella misura della registrazione. Zone di contatto, artefatti cognitivi e narrativi, i film si offrono come spazio di un contatto visivo, come pratica di esperienza differita, circuito di gaze e sguardi, sulla soglia dell’altro. Nel contempo, abbiamo visto come i testi manualistici, le riflessioni teoriche, le interviste ai protagonisti mostrino invece il tentativo di concertare una versione dell’alterità nei modi e nelle misure della scrittura, qui contrapposta allo statuto delle immagini. Glosse accademiche, i manuali producono l’istanza, oltre che il fine, di una griglia di istruzioni per l’uso all’accesso dell’alterità, e questo non soltanto dal punto di vista della produzione, quanto da quello della ricezione pubblica dei materiali di contenuto etnografico. In nome della didattica speciale nei corsi universitari disciplinari, come della pedagogia dell’alterità, il tema della fruizione si presenta come centrale per il riconoscimento dell’accesso alle immagini antropologiche, il cui destino, da Boas in avanti, nelle forme del negozio spettacolare, come del certificato accademico di scientificità, tende a disciplinarsi nei modi dell’esclusione. Distinguere etnografia e turismo dello sguardo, foto parametrica e foto di viaggio, è il compito del training universitario come della discussione pubblica intorno alle immagini. Immagini maledettamente insidiose in virtù della proprietà polisemica e dello statuto necessariamente ambiguo della loro interpretazione da parte dei non etnografi. Se non fosse che la storia dell’antropologia rassegna, invece, un uso in termini di fabula di queste, l’abile e necessaria costruzione della fictio in nome del dato. Forgiare immagini, fingerle attraverso l’uso multiplo, in testi accademici e giornalistici, ritoccarle ai fini della buona verità della rappresentazione spacciata come presentazione, record della presenza, sul terreno, di eventi e protagonisti. Filmare, in nome del re-enactment, come nativi, etnografi di professione, interpreti delle culture in quanto soggetti esperti di quelle, producendo la verità nel surplus dell’esperienza scientifica di terreno come ultima – o prima – autenticazione del vero, come accade nei filmati boasiani dei primi anni trenta. Tracce profonde di reinvenzione, nel segno condiviso della verità, della whole culture ricostruita in pochi mesi e restituita in poche pagine. Corroborata da sequenze fotografiche o verificata da trame filmiche come esito sintetico spettacolare di eventi,12 in nome della verità estrema del climax, della scena madre, dell’abitudine culturale occidentale alla costruzione di

eventi come famiglie di intensità emotive, tassonomie di attese e reazioni. Sulla via del documentario il film etnografico scarta, si dà forma, in nome della produzione autorevole di senso, dell’intimità culturale tra filmmaker e filmati, della relazione di terreno come intensità esitata e come condizione di status e senso, per poter aver accesso al mondo dell’altro nei modi del sapere. Forme di intenzionalità scientifica, i film si presentano come esiti del vero e come esiti del dato: raccolta di prove, di tracce, impronte dense, iscrizioni. Tuttavia queste immagini circolano in un ecosistema di testi, di altre narrazioni, contesti accademici, traiettorie dello spettacolo e della ricerca. Al di là della storia della rappresentazione che essi disegnano, i film ci offrono, allo stato attuale, la storia stessa del congedo dalla rappresentazione: field e testo occorrono insieme come memoria semiotica e culturale di pratiche e restituzioni, di progetti di intelligenza, descrizioni qualificate e soprattutto qualificanti, prescrizioni disciplinari. Se i testi etnologici sfidano il mondo e le discipline delle scienze sociali nei modi di una descrizione perspiscua, inevitabilmente paradigmatica e tassonomica, tesa a occultare la ragione narrativa dell’esposizione nell’esca di liste, inventari, nella trama delle paratassi, il cinema etnografico manifesta una tensione ulteriore, l’istanza di una riflessività indessicale, nel senso di Casetti,13 che marca e smaschera la soggettività di chi filma, di chi abita il field trasformandolo in set. Di chi opera nella perspicuità del suo agire, bardato di apparecchi e strumenti, visibile e non inappariscente, come perorava Haddon,14 sul terreno dell’alterità. Di chi, nella tensione filmica che il mezzo produce – il rischio dell’errore, le condizioni di luce, il focus, il posizionamento, il costo della pellicola –, attiva forme diverse di negoziazione, mette in scena se stesso nel teatro delle relazioni, per diventare, inevitabilmente, osservatore-osservato nella flagranza del suo agire. Di chi è sulla soglia delle immagini nell’intento di riprodurle, nel processo di un’elicitazione, di un reenactment, di una produzione di reale in cui l’iscrizione e la descrizione collabiscono, si sovrappongono, si presentano come la frizione del senso, nello spazio performato e segnato dalla riflessività indessicale del cineasta etnologo. Il sistema delle competenze, il lavoro etnografico, sottendono l’agire filmico, lo orientano in fase di raccolta dei dati, ne rendono possibile l’esplicarsi, nelle condizioni di senso e spazio del field. L’etnografia diviene così una sorta di script performato e interpretato dal film, come in Fejos e Rouch, la traccia di un’intimità culturale15che assume la forma della confidenza filmica come esito e progetto d’iscrizione densa di immagini, nella dialettica tra frame e relazione, competenza etnologica e pertinenza del mezzo. Iscrizione che segna il piano diegetico di sé, e, viceversa, ritrova nel diegetico la memoria indessicale della coevità, della com-presenza, sul terreno, di filmati e filmanti, risolta nella cornice della narrazione. Cornice in cui la lista di movimenti e dati comincia a formare orizzonti di significati, viene a leggibilità facendosi mondo sullo schermo: la lista si fa elenco, tassonomia, attività, azione di una relazione, mentre il commento off, come l’identificazione tra lo sguardo etnografico situato, la cinepresa, lo spettatore, concorrono alla produzione di senso. Nei termini di Odin16 si definisce un campo di ricezione e produzione: la produzione di enunciazione si istituzionalizza, pratiche e regole si modellano, concorrendo alla formazione dello sguardo etnografico e al sistema di lettura delle sue produzioni. I manuali e le glosse, in questa lettura, diventano gli incubatori di un modo di rappresentazione istituzionale, di un modo di rappresentazione istituzionale locale invece che globale, che segna il cinema etnografico e ne definisce grammatiche e sintassi.17 Nel doppio vincolo di una rappresentazione peculiare che, in nome e ragione dell’altro, della verità del

primitivo e del primato dell’archivio e del diverso, si affida al film come esito e analisi, come forma di testualizzazione e pratica euristica, come archeologia di un sapere vivente. Queste coordinate, una volta definite, attivano oggi la necessità di considerare la storicità degli sguardi e delle riprese, la processualità di una storia della rappresentazione occultata come storia della descrizione, che i film realizzati, così come le foto, evidenziano acutamente, e da cui si prende congedo allorquando un ecosistema di testi e di immagini viene ad essere ripensato in termini genealogici.18 La circolazione di immagini e testi si muove, così, come un sistema di glosse, di note, di riconsiderazioni: stratifica e sedimenta routine di autenticazione e procedure di prescrizione. Glosse per lo più accademiche, che restituiscono forme di sguardi e pratiche di gaze, spesso visibili sulla scena dei film, come delle foto, disambiguabili sulla scena dei testi, nel palinsesto delle immagini. Una storia del cinema etnografico diviene così la storia della sua teoria: il progetto di descrizione perspicua o densa, non è forse la traduzione del paradigma filosofico del theorein? Paradigma sfidato dalle pratiche, sul terreno mobile dell’invenzione di una realtà antropologica giocata tra film come descrizione e film come esperienza di un alterità.19 Tuttavia il regime del gaze incombe: un regime plurale di sguardi attestato là dove la dimensione disciplinare, foucaultiana, assegna, nella forma delle prescrizioni, delle consuetudini e dei manuali, sistemi di regole, da cui le pratiche, nel segno di Wittgenstein, sfuggono e si sottraggono, trascinate dalla potenza di fotografia e film, dalle nuove forme di descrizione che le inquadrature e le riprese, in un certo senso, dispongono, e in altro capacitano. Pur nel rifugio possibile dello stile etnografico, nel conforto del tratto documentaristico, della generificazione del film di soggetto antropologico (di cui è tempo di fare storia). Di cui il glossario e le glosse si fanno cornice, interpretazione, inclusione, esclusione. Di cui il glossario, nella sua costruzione, è artefice e, infine, prodotto. In quelle modernità di cui foto e film diventano oltre che lettori, attori, medium delle modernità stesse. In cammino verso il mondo mobile delle immagini in movimento, muovendo dalle nobili ma immobili panoplie delle vetrine museali, senza per questo congedarsi da esse. Nell’impossibilità di prender congedo dalle storiche trame del diegetico, dai termini dell’invenzione dell’altro come presenza che le strutture narrative dei musei producevano nella forma di inventari, nel romanzo spaziale dei percorsi. E di cui sia il cinema che la scrittura etnografica si sono nutriti, formalizzando e occultando, diversamente, l’ambiguità intrinseca delle scienze sociali costituite sulle relazioni come terreno di conoscenza.

7.4. Glosse, sguardi, pubblico, audience I manuali e le pratiche storiche del cinema etnografico come della fotografia di terreno, hanno prodotto un sistema di prescrizioni utili alla realizzazione di film. Le glosse e le ricerche accademiche hanno fatto, del campo, il modello e il paradigma dell’esperienza etnografica. Di conseguenza le osservazioni e le prescrizioni disciplinari hanno teorizzato i modi e le forme di permanenza sul terreno, la metodologia di costruzione dell’oggetto etnografico, i limiti e i confini del campo, il catalogo delle cose notevoli o necessarie da individuare e analizzare nello studio delle culture, nel doppio movimento e momento di questo studio: il field e la scrivania. L’esser lì a fondamento della scrittura e l’esperienza differita della scrittura, come del film, nel processo di restituzione di materiali, saggi,

documenti visivi. Occultando largamente questo doppio tempo, la cui evidenza è certificata da lettere e diari, ma cui le restituzioni si sottraggono, nella forma consueta del presente etnografico. David MacDougall ha spesso osservato, in modo netto, come i paradigmi di produzione cinematografica si siano rivelati deboli, come la storia stessa della produzione filmica di carattere etnologico si radichi nella storia del documentario e ne risulti, almeno parzialmente, una variante, almeno sino agli anni cinquanta del secolo scorso.20 E come questo sia visibile nel sistema dei codici e delle convenzioni formali, nei tratti stilistici, come nei debiti mutuati dal cinema etnografico con i generi tradizionali. La discussione teorica sullo statuto del documentario prodotta da Grierson nei primi anni trenta, come ha scritto Rosen,21 produce del resto quei truismi – la questione dell’artisticità, il piano della narrazione, le forme retoriche come elementi capaci di implementare la natura indessicale del medium – che segneranno il dibattito teorico del cinema non fiction. Queste sollecitazioni, nella forma di timori e prescrizioni, segnano, come si è visto, gli scritti teorici di Goddard e di Hilton-Simpson e Haeseler, echeggiando poi nella manualistica francese di Mauss e Griaule, pubblicata nel secondo dopoguerra del secolo scorso, ma largamente circolata in forma di appunti, lezioni, pratiche di lavoro, già negli anni trenta e quaranta.22 Il nodo dei materiali, della loro expositio, e il nodo del pubblico si intrecciano puntualmente, interrogativi da sciogliere sia per i documentaristi che per gli etnografi, ricordando comunque come Flaherty sia per entrambi un comune riferimento, come i confini siano quindi porosi. La produzione di senso e di consenso, realizzata da questi materiali visivi, dalle etnografie visive come dai film, dalle glosse accademiche e non, si è così circostanziata nella ricerca e costruzione di un pubblico, di una spectatorship, cui destinare la visione di lacerti, brani, sequenze, film documentari, identificando una forma pressoché unica di ricezione: la ricezione didattica e formativa, la visione controllata negli spazi comunitari e disciplinari. Ciò ha generato un circuito peculiare di autori e lettori, un sistema di visioni esperte e guidate, di fasi di accostamento verso gli oggetti filmici come fossero non oggetti-mondo, testi, piuttosto finestre di registrazione e memoria, database, archivi di immagini da validare nello studio o da usare come elementi di training sulla soglia di culture lontane. Lo spettatore ideale di questo cinema è lo scholar, lo studioso, cui è richiesto l’affaccio al film finestra, dalla finestra del film da cui vedere lo stato del lì, il field lontano filmato dal collega, dallo studioso, dall’etnologo in formazione. Si tratta insomma di una variante peculiare dell’esperienza filmica come progetto disciplinare in senso letterale, dove attendance e performance, nel senso di Casetti,23 si radicano nella competence. Tuttavia alcuni testi manualistici, come abbiamo visto, e segnatamente Griaule, si sono posti, nella logica del pubblico, e dell’audience, alcune domande sulla struttura possibile della restituzione filmica, sulla visibilità potenziale di film di contenuto etnografico. Risolvendo il tema, nella scelta di un linguaggio tradizionalmente documentaristico, per il pubblico, da affiancare a materiali specialistici, a fini di studio e didattica, in un regime di doppia verità nella restituzione del vero – il campo, la cultura. Doppia verità consolidata nelle spedizioni francesi degli anni trenta, grazie alla diffusione su riviste popolari e d’avanguardia di materiali fotografici e narrazioni etnografiche, nella forma peculiare di un surrealismo etnografico per il popolo.24 Regimi duplici di verità che dai musei ai film tracciano una linea di continuità su entrambe le sponde dell’Atlantico, linea ben riassunta dalle affermazioni di Boas nei suoi lavori museografici come nell’organizzazione di eventi, così come nella lettera a William Hays del 1933 sulle possibili convergenze di antropologia e cinema in progetti pensati per il pubblico

popolare delle sale,25 linea verificata nei film dell’area canadese sul finire degli anni venti e sino alla metà degli anni trenta, dove numerosi film di circuitazione scolastica e ancora museale, sono firmati da Harlan I. Smith, nel segno dell’emulazione del documentario e dei generi cinematografici. La mozione del pubblico si riconfigura così all’interno di pratiche di appeasement, di strategie di attivazione di processi inclusivi nelle forme spettacolari dei sistemi museali americani. La manualistica immagina e pratica la fotografia tra scienza e divulgazione; esclude il film dalla seconda in nome di quel Cinema 1, il cinema scientifico della registrazione dei dati di Régnault, di cui idealmente si sente erede, sino, ovviamente, all’emergenza di Rouch, nella sua duplice veste di cineasta ed etnologo, quando le contraddizioni esplodono, e si radicalizzano nella forma cinematografica stessa di produzione e restituzione, nel cinema partagé e delle approssimazioni successive. Tuttavia le pratiche, storicamente, accettano la commistione di generi – travelogue, film scientifici, documentari – individuata già da Allison Griffiths nel quadro degli anni dieci e venti americani.26 Di quegli anni è la storia implicita dell’audience etnografica, una storia che si alimenta accademicamente, che trova nelle lecture una maggiore e più ampia diffusione di materiali di contenuto etnografico.27 La storia dell’audience etnografica si costituisce, negli anni che precedono la seconda guerra mondiale, attraverso i film hollywoodiani e non di Flaherty, i film esotici di Allegret, Poirier, i film di Griaule,28 i film museali di Smith e Barbeau. Alcuni di questi viaggiano e si diffondono, intercettano un pubblico vasto (Flaherty) o il pubblico degli specialisti (Mauss mostra di conoscere The Unknown Race di Hilton-Simpson e Haeseler, citato in forma implicita nel suo manuale di etnografia nelle pagine inerenti l’uso del film come strumento di record e analisi). Altri, seppur visti, rimangono episodi di audience locale, come i film della costa americana del nordovest di destinazione museale, visibili come newreel nelle sale commerciali di quell’area. I film di Dina Dreyfus e Claude Lévi-Strauss riemergono come relics della missione brasiliana del 1935-36 soltanto negli anni ottanta, i film di Bateson e Mead diverranno tali, nel montaggio Mead, solo negli anni cinquanta, destinati a una diffusione limitata e consapevolmente accademica. I film antropologici di Fejos degli anni trenta saranno distribuiti nei paesi scandinavi come newsreel esotici e di viaggio, mentre Yagua rimarrà inedito. Rouch incrocerà pubblici diversi, accademie e festival, sale universitarie e sale commerciali, contribuendo alla costruzione di una nuova identità dell’audience dei film etnografici. Immagini spesso irrisolte, le immagini etnografiche erano rivolte a un pubblico di specialisti, esperti. O si offrivano, contestualizzate, in spazi museali capaci di orientarne il senso e la visione, opere didascaliche e al tempo stesso perturbanti, dislocate dagli schermi consueti delle sale. La camera etnografica si era costituita come un’etichetta semiotica, una semantic label, nei termini di Branigan,29 capace di filmare le iscrizioni del vero, le tracce dense del mondo. Di operare nella terra di transizione tra discorso e descrizione, producendo intrinsecamente l’aura del vero, l’alterità come agency fatta di oggetti, cerimonie, corpi dell’embodiment, incarnazioni del senso delle culture, verbi di cui segnalare le azioni, la plasticità corporea del movimento e dell’atto. In questa luce la descrizione, infatti, non poteva che esser fluida, nella sua relazione tacita con oggetti ed elementi assenti e tuttavia correlati, con un sistema di competenze in grado di esplicitare quelle relazioni, nella cornice del discorso dove i giochi linguistici prendono forma. Famiglie di giochi linguistici pensati e prodotti per la comunità ristretta degli etnologi. La mappa parziale delle glosse, dei testi e contesti del cinema etnografico, del fotografico

nei suoi percorsi e processi, tra veri-dizione e inter-dizione disciplinare è l’esito di un cartografia critica. La mappa delle glosse, tuttavia, consente di guadagnare indici e iscrizioni all’universo discorsivo, alla pragmatica della comunicazione etnografica, al suo farsi medium tra media, nella forma della fotografia o del film. Attivando il circuito di senso nella dimensione territoriale disciplinare, per cogliere i confini di un’isola che non c’è, l’utopia della verità etnografica nelle forme delle immagini, per avvistare, piuttosto, la storia di questi film, visti, intravisti, dimenticati, come un set complesso di opzioni sulla via della costruzione di un’enunciazione etnografica, etnografizzante, per riprendere Odin30. Enunciazione peculiare, che la storia ha declinato nelle forme di istituzioni produttive, di etnologi di professione, di cineasti prestati al cinema etnografico, attraverso luoghi di produzione e ricezione, contesti, glosse accademiche. Il campo ristretto dell’audience etnografica, il terreno ristretto di elezione del cineasta come etnografo – l’accademia – sono il retino della mappa, la griglia che sottende il territorio. Sulla soglia delle immagini, sulla soglia del filmare, l’antropologia ha declinato se stessa nel disegno del field, dell’I see I was there, riproducendolo e amplificandolo drammaticamente nell’esperienza del film come della fotografia, producendo immagini irrisolte sulle tracce del vero, ravvisando nella finzione documentaria la cifra del dialogo col cinema tradizionale, nell’illusione della moderazione diegetica la via della pertinenza vs la retorica del discorso. Producendo comunque film, nella cifra e al cospetto di generi consolidati, codici condivisi, processi di restituzione. Stili. Nella complicità, inevitabile, di stile e storia, tra negoziazione individuale e codici di comunicazione. Tra soggetti e discipline. Collocandosi, di fatto, nella diade e nell’opposizione “film style vs cultural style”, nell’attrazione stilistica della narrazione come cornice di dati ed eventi, nel montaggio come chiave di accesso al mondo del tempo, degli eventi, dell’altro. Nella storia del montaggio come forma di lettura e risoluzione, almeno parziale, del mondo. Nell’ipotesi infine dell’altro come agency di cui l’etnografia può farsi scienza e coscienza. Agency di cui il fotografico mette in luce, automaticamente, alcune tracce.

NOTE 1 Cfr. Didi-Huberman 2007 (tr. it., pp. 1-20). 2 Stocking 1995, p. 118. 3 Ibid., p. 262.

4 Young 1998, p. 650, “plate 9”.

5 “The anthropologist must relinquish his confortable position… on the verandah… where

has been accostumed to collect statements form informants-…and go out into the villages” (B. Malinowski, citato in Stocking 1992, p. 29). 6 Stocking 1992, p. 48. 7 Malinowski 1967 (tr. it., p. 101). 8 Ibid., p. 164.

9 Ibid., p. 101.

10 Malinowski 1954, pp. 146-147.

11 Didi-Huberman 2009, p. 47-72. 12 MacDougall 1992, pp. 91-93. 13 F. Casetti, testo inedito.

14 A.C. Haddon, sezione “Photography”, in AA.VV. 1929 p. 377. 15 Herzfeld 2011, pp. 316-321.

16 Odin 2000 (tr. it., pp. 202-206).

17 La categoria del MRI di Burch è qui letta in forma puntuale, riferita esclusivamente al

modello di cinema etnografico come esito istituzionale dell’accademia e della ricerca antropologica, come costruzione politico scientifica di una griglia di detti e interdetti ai fini produttivi e analitici per l’uso e la realizzazione di film, nel tentativo di definire, per differenza, la posizione del cinema etnografico rispetto al coevo documentario negli anni venti e trenta. Cfr. Burch, 1991 (tr. it., pp. 165-210). 18 Marrone 2009, pp. 67-79. 19 Crawford 1992, pp. 73-78. 20 MacDougall 1992, pp. 91-95. 21 Rosen 2001, pp. 233 ss. 22 Hilton-Simpson - Haeseler 1925, pp. 326-327; Griaule 1957; Goddard 1915, pp. 185-187. 23 Casetti 2009, pp. 55-66. 24 Clifford 1988 (tr. it., pp. 73-112); de L’Estoile 2010; Pierre 2001. 25 Jacknis 1985, pp. 75-111; cfr. Jacknis 1984, pp. 2-60. 26 Griffiths 2002. 27 Putnam Hughes 2011, pp. 288-312. 28 Voyage au Congo di Allegret, del 1927, La croisiere Noire di L. Poirier. Su questo punto il classico volume di Leprohon 1945 e Piault 1995. 29 Branigan 2006, pp. 216-224 e particolarmente p. 222. 30 Odin 2000 (tr. it., pp. 202-210).

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